Aggiornamento in fumo
Gli ultimi dati sulla formazione professionale dei docenti italiani sono di dieci anni fa. Con qualche precauzione potremmo usarli ancora. Raccolti da Alessandro Cavalli e Gianluca Argentin (Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola (III indagine dello Iard), Il Mulino, Bologna 2010), ci dicono che un 10% dei docenti è inesorabilmente ancorato alla didattica tradizionale; un 30% è decisamente innovativo. In mezzo si stende un mare fluttuante e grigio, il 60%, la stragrande maggioranza dei docenti.
Quel 30%, che grosso modo corrisponde ad una fascia di eccellenza di livello europeo, è il portato miracoloso (lo dicono i due sociologi) di attività e battaglie di autoformazione, stante il precario apparato formativo professionale italiano. Spiega quei dati strani, che ogni rilevazione (Pisa o Invalsi) conferma, quell’andamento della scuola italiana a macchia di leopardo, con isole di qualità altissima, circondate da un oceano di mediocrità e di delusione, quando non di ostilità.
In questa situazione, l’investimento sulla formazione in servizio, previsto dalla legge 107, e la sua dotazione imponente – 24 milioni di euro per il primo anno – sono una buona notizia. Senza alcun dubbio. Invertono con forza un trend che, dall’epoca della ministra Moratti aveva progressivamente depresso gli investimenti per la formazione che, in appena un decennio, erano passati da 43 milioni di euro annui a soli due. Le cifre complessive, fornite nel 2016 dalla ministra Giannini, sono del tutto ragguardevoli. Questi soldi vengono distribuiti con una logica “bottom-up”, che dovrebbe favorire le necessità di formazione reali. Una democrazia formativa, così come desiderata, credo, dalla maggior parte dei docenti. Infatti, le somme vengono gestite da 319 centri di spesa territoriali (le reti di ambito), ciascuna delle quali è governata da una scuola polo. Questa tiene conto delle richieste che provengono dalle scuole che fanno parte dell’ambito, e mette a bando i relativi corsi, oppure (come ho appurato in qualche caso) appalta l’intera procedura – scelta dei corsi, progettazione e realizzazione – a enti privati. A bando, invece, vuol dire che la scuola polo richiede posti di formatori su una data tematica, a seconda dei corsi che la dirigenza d’ambito ha deciso. Chi vuole, presenta il curricolo e partecipa alla selezione. Si fa una graduatoria, seguendo la quale le singole scuole preleveranno i formatori: un sistema di “non-scelta” apprezzato dai dirigenti che non vogliono esporsi personalmente ai prevedibili ricorsi al Tar.
Sarà interessante studiare queste liste di formatori che si stanno stilando ambito per ambito. Le prime notizie mi dicono che ci si presenta un po’ tutti: fanno agio un titolo di formatore (le università online ne elargiscono generosamente); qualche gallone accademico acquistato in passato e tutto ciò che, nelle graduatorie interne, serve a fare punti.
Questa macchina complessa ci ha messo un po’ di tempo per entrare in azione, regione per regione. Tuttavia, in molte regioni i corsi sono partiti, e qualche idea delle scelte formative operate ce la possiamo fare. Non ho dati certi. Ma tutti i segnali mi dicono che al top delle richieste ci siano sempre gli stessi argomenti. Per primo, viene “l’inclusione”, seguito dalla “didattica per competenze” e dalla didattica digitale. Tematiche di aggiornamento trasversali o “generaliste”, come si dice nel gergo scolastico, che vanno spesso a sovrapporsi ad altri piani di formazione, come per esempio quello concordato tra il Miur e le facoltà di pedagogia (sull’inclusione) o il piano per la cittadinanza digitale già attivo. Se le cose andranno in questo modo, ci diranno che la stragrande maggioranza degli insegnanti vogliono informarsi sulle problematiche dell’inclusione, vogliono l’ennesimo corso sulle competenze, e desiderano più di ogni cosa partecipare all’ulteriore corso introduttivo alle competenze digitali, un bisogno incontrollabile, visto che a richiederli sono anche scuole prive di strutture adeguate. Al momento, non ho notizie di corsi di didattica storica (nel mio caso) o di altre discipline. Quelli che conosco sono su altri capitoli di spesa. Non c’è che dire. Stavolta è la base che lo richiede, non il truce Miur, non il solito pedagogista.
Prima, tuttavia, di gridare alla vittoria della “didattica della fuffa”, come la chiama Claudio Giunta sul “Sole24 ore” (intervento del 7 maggio) direi di riflettere sui meccanismi di decisione, che sembrano portare a questa, che sembra un’esclusione a tappeto della formazione didattica disciplinare. I dirigenti scolastici, con i quali ho parlato, mi dicono che il loro interesse è quello di tenere insieme la totalità dei membri del loro collegio dei docenti; e, per lo stesso motivo, i dirigenti delle scuole polo, nel cui territorio c’è di tutto – dalle scuole dell’infanzia fino ai licei classici –, optano per la soluzione che loro sembra più facile: tutti hanno qualche Bes e un po’ di stranieri da includere o integrare; e competenze e cultura digitale, pensano, fanno bene un po’ a tutti. Di qui la preferenza, che in questo momento sembra schiacciante, per le tematiche trasversali. A ciò va, naturalmente, aggiunto il fatto che spesso i Ptof danno valore soltanto a questo genere di formazione, mentre lasciano al singolo docente (e alle sue tasche) il compito di formarsi nelle didattiche disciplinari.
Questo sistema decisionale conduce a risultati che contrastano con le rilevazioni dello stesso Miur, che, riportando le richieste dei 25 mila neoassunti, fa salire al 58% quella che riguarda la formazione didattica disciplinare. Contrasta con la legge, che considera un contenuto chiave della sua formazione professionale la capacità di connettere conoscenze disciplinari con le competenze previste dal curricolo (al cap. 30 e passim). E contrasta infine con lo stesso piano, che, nella piattaforma Sofia, nella quale andranno incluse tutte le proposte formative nazionali, prevede uno spazio per la formazione didattica disciplinare.
Quale che sia il giudizio sull’aggiornamento generalista, è chiaro che questa esclusione delle didattiche disciplinari desta preoccupazione e richiederebbe un doppio intervento (ancora possibile, visto che si è ben lontani dall’aver speso la somma stanziata). Uno di “governo”, previsto dalla stessa legge, che impone alle Direzioni Regionali Scolastiche di dotarsi di un comitato scientifico che sorvegli sull’applicazione della legge e con il quale si potrà intavolare un serio discorso sulla formazione professionale. Ma anche un intervento “dal basso”, da parte di insegnanti e di presidi sensibili, di associazioni e Università che, a quanto mi risulta, si stanno impegnando in proposte di formazione, che dovrebbero far sentire la loro voce negli organi decisionali e chiedere che almeno una parte di questo cospicuo finanziamento venga destinato alle didattiche disciplinari.
Una battaglia di partito, visto che mi occupo di didattica della storia? Decisamente no. Se andiamo a esaminare il profilo professionale di quel 30% di eccellenti, non sarà difficile osservare come la loro capacità è quella di “formare attraverso le discipline”. Hanno superato quella barriera che divide “metodo” e “contenuti”, e sanno che il problema didattico oggi è quello di cercare nuovi contenuti, adatti alle nuove esigenze formative, e insegnabili attraverso mediatori efficaci. Chi non lo sa fare, è proprio la “massa degli intermedi”, per la quale il “metodo” non è altro che una nuova formalità, da applicare al “contenuto” di sempre. Un modo di guardare ai fatti della didattica inaccettabile, lo sappiamo tutti, ma che l’applicazione della 107, così come si sta delineando in queste prime battute, ha tutta l’aria di consolidare.
Ma c’è un’altra ragione che dovrebbe invitare a governare con più attenzione questa macchina dell’aggiornamento. Se le cose vanno avanti in questo modo, infatti, sembra avverarsi un’idea di aggiornamento paritario – la scuola che aggiorna la scuola – apparentemente democratico e “pratico”, apparentemente lontano dalle fumisterie delle quali spesso gli insegnanti accusano i docenti universitari, in realtà malato di un pericoloso populismo pedagogico. E’ una presa di distanza dalla ricerca che allarga la frattura tra Scuola e Università. Contro questa occorrerebbe combattere seriamente, proprio in nome di un insegnamento più efficace e rispondente ai bisogni della società odierna. E questo, sia nelle scuole, spingendo i colleghi a rivolgere le loro richieste di formazione verso centri didattici affidabili e legati al mondo della ricerca e a farsi sentire negli organi collegiali; sia nelle Università, sollecitando i colleghi a occuparsi non in forme saltuarie e di volontariato benevolo al serissimo problema della ricerca didattica disciplinare.
Come si diceva, una buona parte dei finanziamenti non verrà spesa per quest’anno. C’è, dunque, spazio per “spendere in modo diverso”. Vorremmo che la catena decisionale dell’amministrazione (dalle reti d’ambito a viale Trastevere) riuscisse a percepire il disastro formativo che si sta preparando, e decidesse di porre mano ad alcuni correttivi, primo fra i quali la valorizzazione di quelle “reti di scopo”, strutture previste dalla legge, che più agevolmente possono accorpare insegnanti della stessa disciplina, ma che, attualmente sono escluse dal finanziamento pubblico.
“Novecento.org” e la rete degli Istituti nazionali per lo studio della Resistenza e dell’Età contemporanea, da lungo tempo impegnate in questo campo, sono disposte a dare il loro contributo, insieme, come ci auguriamo, alle Società nazionali di storia che, finalmente, cominciano a mostrare qualche interesse fattivo alla questione dell’insegnamento della storia.