Select Page

Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941

Cremona 21 settembre 2018- 24 febbraio 2019

In visita alla mostra, Cremona,1941 (Sala VII, a destra, Italica Gens di C. Maggi; a sinistra, Primavera di A.P. Graziani), Foto Fazioli, © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 147)

 

Abstract

A 80 anni dall’istituzione del Premio Cremona – il premio della pittura fascista realizzato da Farinacci dal 1939 al 1941 – sono state per la prima volta riunite ed esposte al pubblico opere sopravvissute alla distruzione, alla ridipintura, allo smembramento. Nell’intervista a Rodolfo Bona, curatore con Vittorio Sgarbi della mostra, seguiamo il linguaggio dell’arte per penetrare uno spaccato della società italiana dell’epoca, con le sue contraddizioni e il suo rapporto con la propaganda di regime.

Intervista di Marida Brignani a Rodolfo Bona, curatore della mostra con Vittorio Sgarbi

Il Premio Cremona era «il premio della pittura fascista, che era pessima pittura». Con queste parole Giulio Carlo Argan definì la manifestazione artistica che si svolse a Cremona tra 1939 e 1941*. Tre furono le edizioni allestite, con altrettante tematiche obbligate: Ascoltazione alla radio di un di-scorso del Duce, La battaglia del grano e La Gioventù italiana del littorio.

Il giudizio, espresso vent’anni fa dall’autorevole storico dell’arte, che fu anche membro della giuria, appare oggi, per alcuni aspetti, sommario e troppo sbrigativo. Se, infatti, è assodato che l’esposizione venne istituita con finalità più politiche che artistiche, da tempo risultano evidenti in tutta la loro complessità anche le ragioni dell’arte, ben al di là delle intenzioni e delle strumentali motivazioni del suo ideatore, Roberto Farinacci.

Il 10 luglio del 1938, il quotidiano cremonese «Il Regime Fascista» dava la notizia dell’istituzione di questo concorso dedicato alla pittura fascista, la cui prima edizione si tenne nel 1939.

Ottant’anni dopo, nelle sale del Museo Civico di Cremona che lo ospitarono nel 1940 e nel 1941, si espongono per la prima volta trenta dipinti che parteciparono alla rassegna. Un’occasione ghiotta per gli storici contemporaneisti, per gli storici dell’arte, per gli insegnanti, per i cittadini tutti che hanno l’opportunità di vedere riunita una parte significativa delle opere superstiti, oggi fonte iconografica rilevante per comprendere il registro della propaganda di regime negli anni che precedettero e coincisero con l’entrata in guerra dell’Italia.  Ma anche un’occasione per riprendere lo studio della storia artistica di questo travagliato periodo, per decenni accantonata se non rimossa dalla storia dell’arte del Novecento italiano.

La mostra, organizzata dal Comune di Cremona e da Contemplazioni, che ha seguito l’allestimento e la redazione del catalogo, è stata curate da Vittorio Sgarbi e Rodolfo Bona, che intervistiamo per cogliere il filo conduttore dell’esposizione e le sue potenzialità didattiche.

 

Domanda: Perchè questa mostra non è mai stata fatta prima d’ora?

Risposta: Perché si tratta di una mostra che ha sempre presentato indubbie difficoltà, anche quando si è cominciato a pensarla. La prima fu Elda Fezzi, critico d’arte, nel 1988; ci si provò ancora una decina d’anni dopo. Poi più nulla. La prima difficoltà consisteva nel reperimento dei dipinti, in larga misura dispersi, mutilati, modificati o con i titoli cambiati, così da far perdere la memoria rispetto alla loro partecipazione al Premio dedicato all’arte fascista.

La seconda difficoltà stava proprio in questo legame con il fascismo, in una città, Cremona, che ha molto sofferto le conseguenze della dittatura e di un gerarca, Farinacci, fra i più feroci del regime e che ha inferto ferite profonde nella coscienza della città.

Sul premio Cremona è calato come una mannaia il giudizio della storia e della storia dell’arte: per Argan, che fu per due anni membro della giuria, la pittura a Cremona era considerata «solo immondizia» e i pittori venivano giudicati alla stregua degli imbrattatele o, tutt’al più, mediocri illu-stratori al servizio del fascismo.

 

D.: Che cosa è cambiato oggi e quali sono le condizioni che hanno permesso di allestirla?

R.: Oggi sono aumentate le nostre conoscenze, sia sul corpus dei dipinti, sia sui pittori che presero parte alla manifestazione, sulla quale ci sono stati studi significativi, seppur non sistematici. Inoltre, studi locali su singole figure artistiche hanno ricostruito lo spessore di molte personalità precedentamente sconosciute, o sottovalutate. Oggi sappiamo che non tutti furono fascisti e, soprattutto, che molti di loro furono bravi e capaci pittori; i dipinti esposti in mostra lo dimostrano.

Credo, inoltre, che stia cambiando anche il nostro rapporto con quel periodo storico, verso il quale si avverte la necessità di una maggiore conoscenza, di giudizi meno sbrigativi e trancianti e di un supplemento di intelligenza nel giudizio, anche perché stiamo tornando a misurarci con quello che un tempo si sarebbe definito un “rigurgito” del fascismo.

 

D.: Perchè non si manifestano resistenze nei confronti dell’uso di altre tipologie di fonti dell’epoca fascista e appare naturale, per lo studio e la conoscenza di quel periodo, allestire mostre documentarie, ascoltare le registrazioni dei discorsi o visionare filmati e fotografie, leggere proclami, lettere, carte pubbliche e private, mentre l’esposizione dell’arte prodotta per il regime sembra travalicare l’approccio storico e continua a suscitare dubbi e reazioni?

R.: Farinacci, l’ideatore del Premio Cremona, era capace di pensare l’arte in modo non convenzionale e, con il suo entourage, sapeva benissimo che il quadro ha uno statuto particolare all’interno del sistema della comunicazione, anche di massa. Il quadro ha un’aura che lo colloca in una dimensione in grado di trasfigurare la realtà nel simbolo, insistendo su una dimensione accostabile a quella del sacro. Non è un caso che questa pittura, nei formati, nei materiali e nelle iconografie, volesse essere simile a quella religiosa. Trittici, affreschi, maternità e figure angeliche tornano con insistenza, mescolate ai simboli e ai riti del fascismo, in una pittura fatta per il popolo, di grande semplicità comunicativa, concepita per essere vista come in un grande rito collettivo.

Pietro Gaudenzi, Il grano, 1940 c. (Cremona, Museo Civico Ala Ponzone), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 223)

Credo che sia per questo che il quadro faccia più paura di una fotografia, perché lì il fascismo si trasfigura in qualcosa di superiore e profondo, che non può essere facilmente metabolizzato come le architetture, che entrano progressivamente nel paesaggio urbano e che possono più facilmente far dimenticare il proprio peccato originale. I quadri del Premio Cremona testimoniano la possibilità che l’arte possa essere non solo espressione della libertà dell’uomo, ma anche strumento di dominio, di propaganda, sacralizzata dall’aura dell’artisticità.

 

D.: Questa “immersione” nel clima del Premio Cremona fa ancora paura?

R.: Sicuramente meno, rispetto ai decenni passati, ma spaventa ancora a tutti i livelli. Ci sono collezionisti che hanno rifiutato di prestare i dipinti, sponsor che hanno ritirato il finanziamento, settori dell’opinione pubblica che accettano controvoglia l’idea che queste opere si possano esporre. Si badi bene, non per esaltarle o per esaltare i valori del fascismo, ma semplicemente per vederle nella loro bellezza pittorica, così come si guarderebbe un quadro in una chiesa, pur non essendo cristiani; o per comprendere le ragioni per le quali tanti italiani credettero nel fascismo. Perché il fascismo non fu solo subìto dall’Italia, ma anche voluto e sostenuto da tanta parte dell’intellettualità e della borghesia italiana, con un scelta cosciente, rivelatasi poi disastrosa.

Credo che per molti sia più comodo, ancor oggi, rimuovere; la rimozione consente di non fare i conti, fino in fondo, con la propria storia e con i propri errori, che si possono ancora ripetere.

Pietro Gaudenzi, Maternità, 1932 c. (Ferrara, Fondazione Cavallini Sgarbi),  © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 185)

 

D.: Lei ha già scritto articoli, pubblicato un volume nel 2016 con la casa editrice Scritture e ha ora collaborato all’allestimento di questa mostra sul Premio Cremona: quale pensa possa essere il valore aggiunto dell’utilizzo didattico di queste fonti iconografiche per l’insegnamento della storia di quegli anni cruciali?

R.: Penso che l’opera d’arte, il quadro in questo caso, per le ragioni che indicavo sopra, si collochi in un punto particolare del sistema della comunicazione, nel punto di intersezione tra la narrazione storica e quella mitica. Un po’ come accade, tanto per intenderci, nell’Atene di Pericle o nella Roma di Augusto. Lì nessuno si stupisce se si usa l’Ara Pacis per spiegare l’ideologia augustea. Dunque, perché non utilizzare i quadri che illustrano La Battaglia del grano come fonte per lo studio di un evento che è stato, insieme, storico e sociale, economico e culturale, capace di tenere insieme la materialità della fame e l’immaterialità del simbolo nella sacra forma del pane. Essa è stata la prima grande impresa propagandistica di massa del regime, sostenuta da una poderosa iconografia: si potrebbero, ad esempio, comparare i quadri alle fotografie dell’Agenzia Stefani o alle immagini dell’Istituto Luce, approfondendo con altre fonti, con documenti letterari o storico economici. Faccio un esempio e pongo una domanda: alcuni dipinti sono dominati dalla trebbiatrice, in altri il lavoro è solo manuale e non si vede una macchina; qual era la realtà produttiva dell’Italia fascista rurale nei secondi anni Trenta e quale l’immagine che ne avevano gli artisti? A mio avviso i quadri del Premio Cremona sono in grado di fornire un’immagine dell’Italia di quegli anni paragonabile a quella che il neorealismo ha dato dell’Italia del dopoguerra; ovviamente con altro segno ideologico e altre modalità.

Bruno Amadio, La nazione è poggiata sulla terra, 1940 c. (Cremona, Consorzio Agrario Provinciale), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 231)

 

D.: Come deve “attrezzarsi” un insegnante che voglia intraprendere con i suoi studenti un percorso didattico sui temi della mostra e utilizzarne le immagini? Che consigli può dare?

R.: Penso che la situazione ideale sia quella del lavoro di équipe. Difficilmente un insegnante può gestire conoscenze pluridisciplinari complesse. Immagino fondamentali le competenze dal punto di vista storico e socio economico, ovviamente, ma anche quelle dello specialista nei linguaggi visivi e in generale, nella gestione dei codici letterari e figurativi. Penso poi che sia importante preparare bene il terreno e non avere altre finalità se non quelle di esplorare testi in grado di sorprenderci con la loro capacità di divergere da letture predeterminate. Sono opere d’arte, in fondo sempre ambigue e autoriflessive. Bisogna affrontarle con un atteggiamento libero, perché parlano da sole e vogliono solo essere ascoltate, o guardate. Esempio emblematico è il Balilla di Innocente Salvini, un quadro dai colori accesi che urlano la loro voglia di libertà.

Innocente Salvini, Balilla, 1941 (Cocquio Trevisago, Museo Innocente Salvini), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 237)

Il soggetto è un bambino, scalzo, com’erano i figli dell’Italia contadina. Illuminato da una luce abbagliante, egli alza il braccio nel saluto romano, come fa chi è stato educato dalla scuola di regime a salutare così. È un quadro fascista o rappresenta, nel 1941, una generazione di giovani, incolpevoli ed educati per esser mandati a combattere con le scarpe di cartone?

 

D.: Su quali binari ritiene sia più produttivo, ai fini della comprensione del clima sociale, culturale e politico di quegli anni, condurre la riflessione sul Premio con gli studenti?

R.: Ritengo fondamentale avere un atteggiamento interrogativo, senza pretesa di fornire verità che non siano quelle acquisite dalla storiografia. Molti giovani sono affascinati dal mito del fascismo, ma non lo conoscono e penso sia utile cominciare a farlo conoscere, così come è importante conoscere l’impalcatura ideologica e i suoi luoghi comuni, molti dei quali attualissimi; penso, ad esempio, al tema del nazionalismo, nella sua attuale declinazione sovranista, o a quello del rapporto con le masse, con quel popolo che Mussolini voleva dominare ed usare come strumento. Ritengo utile, ad esempio, una riflessione sui mezzi della comunicazione: la radio, la fotografia e il cinema per il fascismo e le nuove tecnologie oggi utilizzate come strumento sia di liberazione che di dominio, in un’inedita declinazione del populismo. Così come ritengo fondamentale una riflessione, anche se difficile, sui sistemi politico istituzionali e sulla crisi profonda che stanno vivendo i sistemi democratici aperti ed inclusivi. Mi rendo conto che questo discorso non può valere per tutti gli ordini di scuola ma penso anche a qualcosa di più semplice come, ad esempio, un approfondimento sul sistema educativo fascista. L’edizione del 1941 era dedicate alla Gioventù Italiana del Littorio e, dunque, com’era la scuola fascista e com’è oggi? Come veniva concepita l’educazione sportiva dal fascismo e come la pensiamo, invece, oggi? Quale il rapporto tra la necessità dell’educazione alla disciplina e quella alla libertà del corpo e della mente?

Saggio ginnico delle Piccole Italiane, Cremona, Polisportivo Farinacci (ora Stadio Zini), 1940, Foto Fazioli, © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 66)

 

D.: Oltre ai temi che costituiscono i titoli e gli obiettivi propagandistici delle tre edizioni del Premio quali altri temi trasversali, cari all’ideologia fascista, possono essere affrontati attraverso l’analisi dei dipinti del Premio?

R.: Oltre a quelli già evidenziati, sono moltissimi. I dipinti contengono un’enorme mole di informazioni relative alla società dell’epoca, dalla raffigurazione del lavoro, agricolo ed operaio, all’universo dell’educazione della gioventù, dall’arredo al costume, alle abitudini o alle necessità della vita. Pensiamo solo al fatto che molti protagonisti dei dipinti siano scalzi o che gli alimenti mitizzati siano il pane e il latte, o che gli strumenti tecnologici più all’avanguardia siano le radio a valvole e le trebbiatrici. Quello che emerge è un mondo antico, rurale e antimoderno, così lontano da quello dei nostri giovani e dal nostro modello sociale, che al bisogno della fame sostituisce quello della dieta. Quante scarpe abbiamo nel nostro guardaroba e quanta tecnologia ci portiamo in tasca? Quanta solitudine c’è nello sguardo che si smarrisce nell’immaterialità della comunicazione in rete?

Pensiamo poi, ad esempio, a tutto ciò che ruota intorno alla famiglia e all’idea che il fascismo aveva della famiglia, o della donna e della separazione rigida dei ruoli fra i sessi e dei rapporti sociali, con una forte distinzione di classe e di sesso.

 

D.: Facciamo un esempio.

R.: Attorno all’iconografia antica della maternità, una costante nei quadri del Premio Cremona, si intreccia un nucleo forte di tematiche ben evidenziate nel quadro di Luciano Ricchetti, che vinse l’edizione del 1939. Il dipinto raffigura una famiglia di contadini riunita in ascolto alla radio di un discorso che il Duce pronuncia alla folla nella lontananza di Roma imperiale.

La scena è ambientata in un’umile cucina contadina. Sul fondo campeggia, appesa alla parete, accanto alla credenza con i piatti buoni, una stampa con l’effigie statuaria del duce che saluta romanamente. La famiglia è numerosa, gli uomini sono lavoratori pazienti, le donne sono materne e subordinate, i figli obbedienti, solenni e fiduciosi. Ricchetti rappresenta quel popolo rurale, operoso e silenzioso, che il fascismo desiderava conquistare, senza riuscirci. I personaggi più maturi vestono abiti contadini da lavoro, come ad esempio il capo famiglia dipinto al centro della tela, scalzo ed assorto, seduto su uno sgabello e con i gomiti appoggiati al tavolo, oppure i vicini di casa inquadrati nel rettangolo dell’uscio, che partecipano al rito collettivo dell’ascolto.

I più giovani indossano le divise dei corpi militari: il piccolo balilla sull’attenti, alla destra del padre; il giovane con la divisa da reduce dell’Africa, che tiene una giovane massaia sottobraccio; la ragazzina in uniforme da giovane italiana; l’altro giovane in abito militare che siede a sinistra, accanto alla radio.

Luciano Ricchetti, bozzetto per In ascolto, 1939 c. (Collezioni d’Arte Crédit Agricole Cariparma), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 217)

 

D.: Cosa fanno questi personaggi?

R.: Tutti ascoltano con concentrazione, immobili nelle loro pose statuarie, quasi fossero protagonisti di un rito e testimoni silenziosi di un evento straordinario. Ricchetti è attento alle loro espressioni psicologiche e l’interno rurale è descritto in modo dettagliato, così da sottolineare la semplicità di questa modesta ma dignitosa famiglia di braccianti. La donna ieratica che campeggia al centro con il bimbo in grembo, accanto al vigoroso capofamiglia, discende dall’archetipo mediterraneo della madre, circondata dalla numerosa prole, custode della specie e generatrice di forza lavoro.

Nel recupero dei modelli rurali, l’arte che si voleva fascista materializzava così il tema universale ed eterno della famiglia, un soggetto etico e mitico che appartiene alla tradizione culturale illustre dell’arte italiana ma che si caratterizzava anche come popolare ed estraneo ad ogni intellettualismo. Quello della famiglia è infatti tema semplice ed universale, archetipo basato su modelli sociali primari, semplificati e costanti, che racchiude in sé quelli del lavoro, della sanità morale, della maternità, del dovere, del sacrificio e dell’immutabilità del ruolo sociale. Sarà tema frequente nell’arte del tempo e trionferà a livello d’immagine di massa. Ricchetti lo aggiornò, anche attraverso la direzionalità del racconto, tutto contemporaneo e inequivocabilmente fascista, caratterizzato dai segni che rendono esplicito il messaggio: i costumi di scena, gli accessori, l’arredo.

 

D.: Quale ruolo ha avuto il Premio Cremona nell’articolato disegno complessivo del programma politico e propagandistico di Roberto Farinacci?

R.: Un ruolo affatto marginale. Il Premio Cremona faceva parte di un’articolata politica culturale che ruotava intorno all’Istituto Nazionale di Cultura Fascista cremonese, presieduto dallo stesso Farinacci e caratterizzato da alcune istituzioni fondamentali: la rivista «Cremona», voluta dal gerarca con lo scopo di «esaltare il patrimonio artistico della città e informare i cittadini delle grandi opere compiute dal fascismo cremonese», l’Istituto Storico Cremonese, la Famiglia Artistica e la Società di Lettura.

Queste istituzioni caratterizzarono per anni la vita culturale della città, con l’obiettivo esplicito di indirizzarla, sostenendo le convinzioni del fascismo. Il Premio Cremona s’inserì nel 1938, in quei secondi anni Trenta che segnarono una svolta per l’INCF e per il paese, con la conquista dell’Impero, le leggi razziali e l’ingresso in guerra, che avvenne proprio mentre si stava svolgendo la seconda edizione della manifestazione. Da qui in avanti tutta la politica culturale si piegò «alle superiori esigenze belliche» e anche l’esposizione cremonese fu utilizzata da Farinacci sempre più strumentalmente, rivelando, con particolare durezza, il tentativo di subordinare le arti alla politica dello stato totalitario, sia attraverso gli imperativi fascisti, sia con un’azione che investiva la pittura e i rapporti più articolati tra artista e pubblico, cioè tra élite e massa o, se si preferisce, tra intellettuali e popolo.

Donato Frisia, Discorso della proclamazione dell’Impero ascoltato dalla mia famiglia, 1939 c. (Oggiono, collezione della famiglia), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 211)

 

D.: Cosa ci racconta il Premio del gerarca Farinacci?

R.: Di Farinacci ci conferma l’idea di un uomo intelligente e spregiudicato, disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. Insomma, un potente gerarca che ben rappresenta l’impulso del fascismo a conquistare il potere con qualsiasi mezzo, interpretandone la sua «essenza brutale, senza le illusioni o i camuffamenti della normalizzazione, della legalizzazione, della liberalizzazione». Per Adrian Lyttelton, Farinacci, «intensamente ambizioso, smargiasso, ignorante e ossessionato da un invidioso rancore verso le classi colte, rappresentava fin quasi nella caricatura le aspirazioni e i moventi di quella legione di oscuri ed entusiasti provinciali che erano la spina dorsale del fascismo». A Cremona l’alleanza con gli agrari e con il notabilato locale gli diede un potere non suscettibile d’incrinature, condizionando per decenni la difesa di interessi particolaristici da parte dei gruppi sociali che lo avevano sostenuto.

 

D.: E della società italiana dell’epoca?

R.: Si potrebbe dire, con Carlo Bertelli, che emerge in controluce «una certa Italia intramontabile e gretta nella quale il regime aveva prosperato», quel provincialismo mediocre, estremista ed antimoderno che a Cremona trova alcuni dei suoi più illustri rappresentanti.

Poi ci sono però i pittori e le loro opere e, dalle biografie di questi uomini e donne, emerge una società più sfaccettata, non così monolitica come ci si attenderebbe, ma variegata, che forse è quella più vera. Oltre agli entusiasti del regime, potremmo forse parlare di un’ampia zona grigia, come si usa dire, o dalle mille sfumature di grigio, che lascia trasparire dubbi e incertezze, sensibilità e umanità, soprattutto dopo l’ingresso in guerra, che si caratterizza anche con scelte dissonanti e non conformiste, tanto che i quadri spesso rimandano un’immagine del fascismo antiretorica e sorprendente, sia nelle scelte figurative sia nelle modalità di interpretazione delle tematiche proposte.

Mario Biazzi, Ascoltazione di un discorso del Duce alla radio, 1939 c. (Cremona, Camera di Commercio), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 199)

 

D.: Alla luce degli studi più recenti, quali appaiono essere i significati e gli scopi del gemellaggio con Hannover?

R.: Sul Catalogo, oltre al significativo contributo storico di Maria Luisa Betri, si trova un bel saggio di Cornelia Regin, conservatrice all’Archivio della città di Hannover e profonda conoscitrice dell’argomento. Gli scopi furono economici, politico-diplomatici e propagandistici. Oltre 600 cremonesi vennero inizialmente inviati a lavorare nella città della Bassa Sassonia. Sulla base di questo rapporto, dal 1938, parallelamente alla maturazione dell’idea di un’alleanza con la Germania, della quale Farinacci divenne acceso sostenitore, il rapporto con Hannover divenne utile per rinsaldare i legami e Farinacci si accreditò come il più fedele alleato del nazionalsocialismo. Egli si recò al congresso del partito a Norimberga, sfidando Mussolini e, nel 1940 fece visita a Hitler, a Berlino, in occasione del suo viaggio in Germania. Oltre all’inaugurazione della mostra ad Hannover, nella quale era esposta una selezione delle opera del Premio Cremona, Farinacci visitò anche quelle di Monaco e la Linea Maginot. La stampa e la radio sottolinearono con enfasi questa amicizia, ricordando la battaglia che anche Farinacci combatteva contro l’arte degenerata, «bolscevica ed ebraizzante» e per un’arte romana, forte, vigorosa e imperiale, degna dell’Italia fascista.

Roberto Farinacci con Adolf Hitler, Berlino, 30 settembre 1940 (Collezione A. Garioni), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 135)

 

D.: Quale è stato il ruolo di Tullo Bellomi, al fianco di Roberto Farinacci, nella costruzione dell’idea e nella realizzazione del Premio Cremona?

R.: Il suo ruolo fu fondamentale: Bellomi era il braccio destro di Farinacci per quanto riguardava tutte le iniziative culturali e artistiche. Avvocato, egli era presidente del comitato di redazione della rivista «Cremona» e, dal 1929 al 1943, aveva affiancato fedelmente Farinacci nella gestione di numerose istituzioni culturali. Presidente della sezione cremonese dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista e della Famiglia Artistica, promosse la fondazione dell’Ente Provinciale del Turismo e la costruzione del Palazzo dell’Arte. Dal 1939 egli fu vice-presidente dell’Ente Autonomo Manifestazioni Artistiche Cremonesi e del Comitato Ordinatore della mostra, preposto alla organizzazione del «Premio Cremona». Bellomi era il punto di riferimento della cerchia artistico-culturale farinacciana, anche di personalità di primo piano quali, ad esempio, Illemo Camelli che, a mio avviso ebbe un ruolo non marginale nella maturazione dell’idea del Premio Cremona.

 

D.: L’impianto espositivo della mostra, oltre che particolarmente interessante per i contenuti proposti, è molto dinamico e rende particolarmente gradevole la visita. Per quale motivo è stata evitata la struttura rigidamente cronologica e tematica delle tre edizioni del Premio?

R.: Inizialmente avevamo pensato l’esposizione in ordine cronologico dei quadri, con materiale documentario che potesse approfondire i temi proposti. Poi abbiamo fatto di necessità, virtù. Gli spazi a disposizione, anche considerate le dimensioni delle opere, vere e proprie megalografie, hanno imposto delle scelte.  Abbiamo così deciso di lasciar parlare i dipinti, in una mostra che è squisitamente pittorica. In fondo, questi quadri sono stati per decenni considerati come opere realizzate da «imbianchini». Così non è, e basta guardarli con occhio libero da pregiudizi. Abbiamo inteso ridare loro, e ai loro autori, la dignità artistica che meritano. In questo modo il visitatore, nell’iniziale ‘sala delle colonne’, troverà quadri che appartengono a tutte e tre le edizioni, che si relazionano fra loro per analogia o per contrasto, poiché non tutti gli artisti si adattarono in ugual modo alla trattazione delle tematiche proposte. Abbiamo così lasciato al catalogo il compito di ricostruire contesto e circostanze, di documentare, spiegare e chiarire il ‘sistema’ Premio Cremona.

Biagio Pietro Mercadante, Le vagliatrici, 1940 c. (Cremona, Provincia di Cremona in deposito presso Fondazione Città di Cremona), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 229)

 

D.: Di particolare interesse è anche l’ultima sezione, dedicata alla storia e al destino delle opere presentate al Premio Cremona dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra. Possiamo leggervi un cenno paradigmatico alla situazione e alle scelte di molti contesti della società italiana dell’epoca?

R.: La storia del Premio Cremona è ben rappresentata dall’idea del ‘frammento’. Il visitatore è costretto a uno sforzo, a un supplemento di intelligenza, anche nel ricostruire il tessuto storico e nel dare valore alle opere collocandole nel proprio contesto, che preme sotto traccia e che affiora nelle immagini. Alcune di queste opere sono poi ricostruite attraverso i frammenti individuati, recuperati, salvati ed esposti in mostra. Con la Liberazione arrivò l’ordine di distruggere tutte le immagini che celebravano il fascismo e molti quadri subirono questa sorte. Altri, fortunatamente, vennero nascosti, o tagliati per essere immessi sul mercato come dipinti autonomi. Altri furono mutilati o ridipinti. Talvolta vennero cambiati i titoli o i soggetti, trasformandoli in scene campestri o di genere, in nature morte, ritratti o paesaggi.

L’Italia doveva cancellare e rimuovere i segni del fascismo, come se il ventennio fosse stato un incidente di percorso, una distorsione della nostra storia e non una scelta delle classi dirigenti e di una larghissima parte della società italiana, élite culturali comprese.

Oggi siamo forse pronti a fare i conti fino in fondo con questo passato. Credo che, considerando il passaggio storico che il nostro paese sta affrontando, sia fondamentale farlo.

Giuseppe Moroni, Colonie fluviali, 1939 (Cremona, Museo Civico Ala Ponzone), © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 213). Si noti la cancellazione postuma da parte dell’artista del braccio destro dei ragazzi alzato nel saluto romano mentre assistono all’alzabandiera.

 

D.: Mettendo in atto un così potente e multiforme apparato propagandistico, intervenendo massicciamente sul tessuto urbano e nei molteplici aspetti della vita sociale e civile, Roberto Farinacci è riuscito a trasformare Cremona in una città “fascistissima”?

R.: Credo di no e non solo perché una certa resistenza a Cremona ci fu e da subito, sia passiva che attiva, come il volume sul Fascismo a Cremona e nella sua Provincia voluto dall’Anpi cremonese dimostra, sia nei ceti popolari, sia in alcuni ambienti culturali.

Anche in questo settore, lo stesso Istituto di Cultura Fascista e le sue emanazioni appaiono espressione di un certo ambiente intellettuale cittadino che Farinacci e Tullo Bellomi cercarono di adeguare alle proprie ragioni, non riuscendovi mai fino in fondo. Ci provarono soprattutto nella fase tarda, che coincise proprio con la svolta dei secondi anni Trenta e con l’invenzione del Premio Cremona. In questi anni le istituzioni culturali, pur continuando a riflettere le caratteristiche specialissime della società cremonese, cercarono di assumere con maggiore convinzione quegli indirizzi che Farinacci aveva tracciato nelle sue linee programmatiche. Ma la mia sensazione è che spesso si trattò di un’adesione di convenienza, per avere vantaggi o per sopravvivere, sia perché non era facile opporsi a Farinacci e al sistema di potere che lo sosteneva, sia perché molti avevano necessità di lavorare e di tirare avanti, mentre altri speravano di trarre benefici dal regime.

 

D.: Perchè contestualmente all’istituzione del Premio Cremona nasce l’esigenza di istituire un altro premio, geograficamente assai prossimo, come il Premio Bergamo? Quali le differenze fra la concezioni dell’arte in Farinacci e in Bottai? Quali le differenze fra due manifestazioni? Quali gli esiti?

R.: Il Premio Bergamo è stato studiato da tempo. L’arte del ventennio comincia a essere rivalutata proprio grazie al premio voluto da Bottai. La sua rivalutazione coincide con la rivalutazione del Novecento di Margherita Sarfatti e con il mito di Corrente, di Guttuso e di una pittura antifascista.

Così la mostra sul Premio Bergamo viene realizzata nel 1993, mentre quella sul Premio Cremona 25 anni dopo. Bottai è stato studiato, soprattutto da Giordano Bruno Guerri, che scrive un importante saggio sul catalogo della nostra mostra e che del Comitato Scientifico è stato protagonista.

Bottai aveva una concezione più alta dell’opera d’arte, la cui validità politica e sociale risiedeva nella capacità educativa tipica della creazione di alto livello e non nei prodotti di cattivo gusto ad uso propagandistico. Bottai credeva alla libertà dell’artista e alla sua autonomia e detestava l’arte nazionalsocialista e sovietica, che riteneva simili a quella del Premio Cremona.

Per Farinacci, invece, il tema obbligato poteva stimolare l’artista, che a suo avviso, inconsciamente desiderava essere indirizzato a trovare un senso alla propria attività, contribuendo a educare il pubblico all’arte e ai valori del fascismo.

Per questo l’ostilità di Cremona verso Bergamo, caratteristica di quegli anni, fu evidente, feroce e radicale. In un certo qual modo possiamo però dire che questo dissidio traeva impulso dalla comune origine dei due premi artistici. Infatti, fu dal clima culturale di Novecento che nacquero, attraverso metamorfosi e radicalizzazioni, gli esiti delle due rassegne, rivelando due volti antitetici dell’arte durante l’ultimo periodo del regime fascista, molto più interagenti di quello che la cronaca del tempo e la letteratura artistica successiva ci hanno tramandato.

A Bergamo, tra il 1939 e il 1942, si mostrò più l’aspetto «inquieto» del regime fascista, che scatenò il fastidio e il disprezzo di Farinacci, il quale vedeva nell’esistenzialismo espressionista di quei pittori una manifestazione di opposizione al regime.

 

D.: In occasione del Premio Cremona, in città arrivarono le più alte cariche dello stato: il re, Mussolini, Ciano e altri, oltre alle rappresentanze tedesche. Quale significato ebbero queste presenze?

R.: Ciascuna ebbe un diverso significato. Le due visite ufficiali, di Mussolini e del re, il 19 e il 24 di giugno del 1939, anche per la loro carica simbolica, consacrarono l’iniziativa e la sua definitiva affermazione. La stampa cremonese ne diede puntuale riscontro, sottolineando il successo della mostra e l’entusiasmo della folla, soprattutto per la figura del duce. Il 28 agosto «Il Regime fascista» informò che il Premio Cremona sarebbe stato inserito nel calendario nazionale delle grandi manifestazioni del regime.

Diverso fu il significato della visita di Galeazzo Ciano, che fece una «attenta e minuziosa» visita della mostra. L’Italia si apprestava ad entrare in guerra, alleata della Germania. In città era stata organizzata un’imponente adunata di camicie nere per l’arrivo del ministro degli Esteri, in occasione dell’inaugurazione della mostra il 19 maggio 1940. Era presente anche una delegazione di autorità tedesche, guidata dal ministro Hermann Esser, la cui presenza fu occasione per solidarizzare con il Führer nella sua repressione dell’arte degenerata.

Da sinistra: Farinacci, Bellomi e Bottai a Cremona, 15 giugno 1941, Foto Fazioli, © Contemplazioni (Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni, pag. 87)

 

D.: Arrivò anche Bottai…

R.: La visita di Bottai ebbe un significato speciale. Il ministro dell’Educazione nazionale intervenne all’inaugurazione della terza edizione, il 15 giugno 1941, «seguito dall’intensa attenzione dell’uditorio». Sostenitore del tanto detestato Premio Bergamo, diversamente da Farinacci, aveva tenuto una posizione conciliante durante la lunga polemica sull’arte e la razza, che ebbe il suo culmine fra la fine del 1938 e l’inizio del 1939. Nel suo intervento il ministro cercò di difendere Bergamo senza urtare la suscettibilità cremonese, in modo molto diplomatico, giustificando l’importanza di entrambe le manifestazioni, legittimando sia l’idea di un’arte politica, sia quelle ricerche, più intime e personali, che a Cremona non trovavano spazio. Le sue convinzioni poggiavano su una possibile ricomposizione dei contrasti in un’auspicata dialettica interna al regime. Bottai difendeva le fronde più inquiete della nuova generazione di artisti ma la rottura di linguaggio da loro proposta, dentro lo stringente passaggio storico della guerra, impedì ogni tentativo di equilibrismo dialettico e le ambiguità del regime emersero con violenza. La partecipazione creativa dei giovani entrò in contrasto con le spinte dominanti nel processo di affermazione del fascismo: la difesa e la conservazione degli interessi economici acquisiti. La rivoluzione era diventata conservazione e reazione. Dentro queste contraddizioni profonde precipitarono in tanti e anche Bottai e Farinacci ne rimasero vittime, seppur in modo diverso. Soprattutto, però, ne rimasero vittime gli italiani e molti artisti; credo che questa mostra cerchi, a suo modo, di restituire dignità all’arte di quel tragico periodo.

Per approfondire

Sul Premio Cremona:

  • Bona R. 2018, L’intervisa di Elda Fezzi a Carlo Acerbi. Gli anni del Premio Cremona, Cremona: Società Storica Cremonese
  • Bona R. 2016, Il Premio Cremona, 1939-1941. Opere e protagonisti, Piacenza: Edizioni Scritture
  • Bona R. 2013, Il Premio Cremona nelle pagine della rivista «Cremona», in Azzoni G. et Al. (ed.) 2013, Fascismo a Cremona e nella sua provincia 1922-1945, Cremona: Anpi, pp. 479-512
  • Sgarbi V. e Bona R. (acd.) 2018, Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, s.l.: Contemplazioni

Su Farinacci:

  • Demers F. J. 1979, Le origini del fascismo a Cremona, Roma- Bari: Laterza
  • Grimaldi U. A. e Bozzetti G. 1972, Farinacci, il più fascista, Milano: Bompiani

Sul carattere particolare del rapporto di parte consistente della città con il suo gerarca:

  • Azzoni G. (acd) 2013, Fascismo a Cremona e nella sua provincia. 1922-1945, Cremona, Anpi
  • Betri M. L. 2000, La trasformazione di Cremona da microcosmo politico a signoria di Farinacci, in Cremona annitrenta, Cremona: Archivio del Movimento operaio e contadino di Persico Dosimo-Arci, pp. 5-11;
  • Rozzi R. A. 1994, I cremonesi e Farinacci, Annali 42, Biblioteca Statale di Cremona, vol. XLII

Sul rapporto tra arti, cultura e fascismo:

  • Barilli R. (acd) 1982, Gli Annitrenta. Arte e cultura in Italia, Catalogo della mostra, Milano: Mazzotta
  • Celant G. (acd) 2018, Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, catalogo della mostra, Milano: Fondazione Prada
  • Malvano L. 1988, Fascismo e politica dell’immagine, Torino: Bollati Boringhieri
  • Tempesti F. 1976, Arte dell’Italia fascista, Milano: Feltrinelli

*   I giudizi di Argan, che fu membro della giuria delle prime due edizioni del Premio Cremona, sono contenuti in due lettere da lui inviate ad Amedeo Pieragostini, nel 1989 e nel 1992 e pubblicate in Gli anni del Premio Bergamo. Arte in Italia intorno agli anni Trenta, a cura di C. Bertelli, catalogo della mostra (Bergamo), Milano, Electa,1993, pp. 16-17.