Perché (provare ad) insegnare una storia globale?
Abstract
Nel corso degli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla fine della Guerra fredda e dalla progressiva affermazione di un mondo (che sembra) sempre più globalizzato, gli storici hanno iniziato a mettere seriamente in discussione la scala dello Stato nazione come unico metro di analisi dei processi storici. Tale prospettiva è fondamentale oggi anche e soprattutto nella didattica, all’interno di classi e di scuole sempre più multietniche e plurali.
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In recent decades, especially since the end of the Cold War and the gradual establishment of an (apparently) increasingly globalised world, historians have begun to seriously question the nation-state scale as the sole yardstick for analysing historical processes. This perspective is fundamental today also and especially in education, within increasingly multi-ethnic and plural classrooms and schools.
Storiografia e Stato nazione
Nel corso degli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla fine della contrapposizione bipolare data dalla Guerra fredda e dalla progressiva affermazione di un mondo (che sembra) sempre più globalizzato, gli storici sono tornati a dibattere su quale fosse la scala da applicare alle loro analisi. Questo perché (almeno nella storiografia occidentale e con gradazioni diverse da paese a paese) un’unità di misura come quella dello Stato nazione è sembrata essere entrata in una crisi irreversibile. Non si tratta di un fenomeno da poco, considerando che stiamo parlando del parametro attorno al quale si sono costruite buona parte delle narrazioni storiografiche sin dalla seconda metà del XIX secolo, un parametro che sta inoltre ancora al centro del modo in cui si insegna la storia tanto nel sistema scolastico nazionale quanto in molti dipartimenti di storia delle università italiane. Questo “focus sulla nazione” rifletteva le specificità dell’epoca in cui la storia stava diventando un oggetto accademico in molti paesi europei: l’affermazione e il consolidamento di giovani stati nazione (si pensi ai casi italiano e tedesco) aveva infatti coinciso con la necessità di scriverne una storia nazionale.
Dalla carta geografica alla storia
Per capire questo processo basti pensare ad una carta geopolitica del mondo dove le nazioni siano evidenziate in colori diversi: «gran parte della storia», ha rilevato Emily Rosenberg, «è stata scritta partendo dagli invisibili presupposti che sono dati per scontati in questo tipo di carte».[1] Qualsiasi docente, a cominciare da chi sta scrivendo questa breve riflessione, usa questa tipologia di fonte per descrivere i cambiamenti nell’assetto politico internazionale. Continua Rosenberg:
l’uso della cartografia geopolitica è indicativo di come avvenga in generale l’insegnamento e lo studio della storia quando riguarda stati nazionali circoscritti da confini geografici; esemplifica in che misura la storia si focalizzi su questioni relative al perché e al per come quei limiti territoriali siano stati spostati.[2]
Questo esempio non vuole essere una critica alla geografia e agli studi geografici, che rimangono essenziali per la comprensione (non solo) dei fenomeni storici, quanto piuttosto un promemoria di quanto la dimensione nazionale sia la scala preferita allorquando si pensa alla storia. Ovvero, la storia sembra avere in quella nazionale la sua cornice prevalente, un dato che non deve sorprendere visto il peso che ha avuto, nel corso degli ultimi due secoli, la forma dello Stato nazione.
La storia globale
Proprio per provare a scardinare questo nazionalismo metodologico negli ultimi anni si è progressivamente affermata la cosiddetta storia globale, un approccio che ha aiutato a ripensare il nostro passato, tanto rispetto al modo in cui lo si ricostruisce e (in parte) quanto a quello in cui lo si insegna.
Cosa si intende con storia globale?
Per provare a rispondere, crediamo sia utile partire da uno dei pochi testi (in lingua italiana) che tratta approfonditamente di questo approccio. Scrive: lo storico tedesco Sebastian Conrad:
la storia globale», ha scritto non è il solo o il migliore approccio alle scienze storiche, ma innanzitutto uno tra i tanti, che si adatta più di altri a determinati temi e domande. Al centro vi sono processi transnazionali, rapporti di scambio, ma anche confronti nell’ambito di relazioni globali. La connessione del mondo è, in tal senso, sempre più punto di partenza e la circolazione e lo scambio di cose, persone, idee e istituzioni sono tra gli oggetti più importanti di questo approccio.[3]
Stiamo quindi parlando, si badi bene, di una prospettiva che non deve essere assolutamente confusa con i processi o i cicli di globalizzazione, quindi con quelle fasi storiche che vedono una progressiva integrazione del mondo (o di alcune sue aree). Si tratta di due ambiti profondamente diversi. Banalizzando molto si potrebbe dire che fare storia globale non vuol dire fare una storia della globalizzazione (anche se una buona storia della globalizzazione può sicuramente rappresentare un esempio di storia globale). Non si deve confondere il processo di globalizzazione nel quale siamo immersi in questi decenni con la storia globale come invece hanno provato a fare alcuni detrattori di questo approccio. Allo stesso tempo, ricordiamo come fare storia globale non significhi fare storia del tutto. Esistono sicuramente dei lavori che ambiscono a presentare una storia complessiva del mondo tout court, ma si tratta di esempi generalmente marginali rispetto a ciò di cui stiamo provando a parlare in questa sede.[4] Un altro storico tedesco, Roland Wenzlhuemer, ha recentemente pubblicato un volume che si pone come una sorta di guida alla storia globale; nel suo saggio Wenzlhuemer parte da quelle che lui ha identificato come sei parole chiave connesse con questo approccio. Ci pare che elencarle possa essere utile per capire a cosa ci riferiamo concretamente in questa sede. Le sei parole/categorie scelte da Wenzlhuemer sono: Connessioni; Spazio; Tempo; Attori (o protagonisti); Strutture (o anche infrastrutture); Transito (o movimento).[5]
Superare l’eurocentrismo
Si deve dare merito agli storici e alle storiche che hanno provato a frequentare la storia globale nel corso degli ultimi due decenni (dopo essere spesso passati o passate dagli studi post-coloniali) di aver se non scardinato quanto meno ben colto quale fosse uno dei portati di quelle storiografie nazionali (quando non nazionaliste) occidentali di cui si diceva poco sopra: la nascita e l’affermazione di grandi narrazioni trionfaliste delle civiltà europee e dei loro successi su scala mondiale.[6] Il consolidamento, in altre parole, di storiografie eurocentriche che vedevano nella supposta superiorità culturale, sociale ed economica del mondo occidentale euro-atlantico una chiave di lettura soddisfacente per comprendere la storia degli ultimi secoli. Una pratica questa che, nel corso dei decenni, ha prima rafforzato e poi reso quasi inevitabile la tendenza a leggere i fenomeni storici prediligendo (esclusivamente) un angolo visuale nazionale o continentale. Questo eurocentrismo, che era in parte il risultato delle pratiche colonialiste e imperialiste degli ultimi secoli, tende a produrre delle ricostruzioni nelle quali quello che potremmo chiamare il sud globale è un’immensa periferia del mondo a cui mancherebbe ogni tipo di agency. Sembra quindi di essere dinnanzi al più classico gatto che si morde la coda.
Lo spartiacque del 1989
Quando, come e perché si è cominciato a scardinare tutto questo? Volendo dare una risposta semplice a una domanda molto impegnativa e guardando in particolare al contesto geografico che più ci interessa quindi quello euroatlantico, potremmo identificare un tornante fondamentale nella grande cesura rappresentata dal 1989 e dalle sue conseguenze sul mondo occidentale. La fine di un bipolarismo che durava da decenni ha sicuramente contribuito a “liberare” le storiografie. Da un lato, se guardiamo a buona parte della contemporaneistica così come si era sviluppata nel nostro Paese, le grandi narrazioni che partivano da chiavi di lettura e prospettive politiche sono (giustamente e finalmente) entrate in crisi, da un altro lato, se ampliamo un po’ lo sguardo, a venire progressivamente contestata è stata l’esistenza di una storia vincente, quella della cosiddetta western civilization, delineatasi a uso e consumo delle dinamiche della guerra fredda. Uno dei primi prodotti di questa nuova sensibilità storiografica potrebbe essere sicuramente identificato nel monumentale lavoro di Kenneth Pomeranz, La grande divergenza pubblicato nel 2000 e apparso quattro anni dopo nella sua traduzione italiana.[7] Questa progressiva messa in discussione delle narrazioni dominanti ha comportato il (parziale) superamento di quelli che potevano sembrare dei veri e propri dogmi storiografici; solo per fare un esempio, alcuni recenti studi hanno dimostrato come anche quello che è stato sempre descritto come un fenomeno prettamente europeo come l’Illuminismo, se letto in una chiave globale emerga come un prodotto non esclusivo di intellettuali europei.[8] Prima di proseguire si rende necessaria un’ultima considerazione: la critica della scala e della prospettiva non è una prerogativa della storia globale, basti pensare allo straordinario contributo intellettuale fornito, sin a partire dal periodo compreso tra i due conflitti mondiali, da vere e proprie scuole storiografiche come quella delle Annales e, successivamente, alla microstoria o agli studi postcoloniali.[9]
La storia globale: quali limiti
Nell’approccio proposto in questa breve riflessione, la storia globale, è utile ricordarlo, rappresenta una prospettiva, una chiave di lettura da applicare all’analisi di (quasi) tutti i fenomeni storici. Sono ormai passati quasi vent’anni da quando, nel 2004, lo storico britannico Christopher Bayly dava alle stampe la prima edizione del suo lavoro sulla nascita del mondo moderno, poi tradotto in italiano per i tipi di Einaudi. Nell’apertura di quello che era un impressionante affresco sulla storia mondiale tra il 1780 e il 1914, Bayly ricordava al lettore come tutte le storie «locali, nazionali o regionali» dovessero ormai essere delle storie globali: «non è veramente più possibile scrivere una storia europea o americana in senso stretto».[10] L’obiettivo di questa riflessione non vuole quindi essere quello di sostenere che si debba necessariamente prescindere dalla dimensione nazionale, tutt’altro. Rispetto a quello che vorrebbe essere il nostro suggerimento, ci vengono (nuovamente) incontro alcune riflessioni di Sebastian Conrad:
per molte questioni», ha scritto lo storico tedesco, «la cornice nazionale della politica e della società continuerà […] ad essere determinante. Sempre più importante però sarà ricostruire sistematicamente l’orizzonte globale delle storie nazionali e chiedersi in che modo gli Stati nazionali stessi debbano essere intesi come il prodotto di processi globali.[11]
Sarebbe sbagliato evitare di mettere sul piatto della discussione anche quelli che sono i limiti connessi alla storia globale. Il primo e più evidente è quello linguistico: gran parte del dibattito e della produzione si produce in lingua inglese. Un contributo in questo processo è dato anche dalla progressiva e inarrestabile gerarchizzazione del sapere che vede al vertice del sistema accademico globale istituzioni del mondo anglosassone, con la conseguente predilezione dei ricercatori a pubblicare in lingua inglese. Pur non avendo qui lo spazio per entrare sulle motivazioni di tali prassi, basti rilevare che queste rappresentano un grosso limite per la circolazione di pratiche di storia globale anche al di fuori del ristretto ambito accademico. Gran parte degli studi di storia globale più innovativi rimangono così preclusi a chi, ad esempio, potrebbe proficuamente utilizzarli in ambito scolastico.[12] Un altro limite, che però non è connesso con l’obiettivo di questa riflessione, riguarda i fondi di ricerca che sono necessari per realizzare ricerche di storia globale. Come si capirà facilmente la storia globale, se ben fatta, prevede la sovrapposizione e l’intreccio di fonti provenienti da ambiti e contesti tra loro molto diversi. Generalmente sono solo le istituzioni accademiche più prestigiose (e, nuovamente, del mondo anglosassone) a fornire al proprio personale risorse tali da poter sviluppare questo tipo di ricerche. Non deve quindi sorprendere se anche per quanto riguarda la storia globale, sin dalla sua nascita e diffusione, si è rapidamente affermata una netta distinzione tra istituzioni (e contesti) dove ha facilmente attecchito e istituzioni (e contesti) dove, anche per limiti strutturali e non solo per una certa ritrosia dei ricercatori, ha invece conosciuto più difficoltà.
Perché insegnare la storia globale?
Al netto di quanto detto finora veniamo, finalmente, alla domanda con cui si è scelto di intitolare questa riflessione: perché provare ad insegnare una storia globale? Innanzi tutto, partiamo da una constatazione forse banale, ma spesso ignorata: ogni evento storico, per essere compreso fino in fondo, deve essere messo in una cornice la più ampia possibile. Quindi, ogni storico che voglia far bene il proprio mestiere deve essere, anche se inconsapevolmente, uno storico globale. Si pensi, ad esempio, a un grande classico della storiografia mondiale come Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg: si tratta di un lavoro che ha chiaramente un approccio che oggi chiameremmo globale, basti pensare alle riflessioni dell’autore sulla circolazione dei testi a cui ha accesso Menocchio e sulla rielaborazione che questi ne fa.[13] La storia globale può essere quindi utile per rimettere a fuoco il modo in cui intendiamo, scriviamo e insegniamo la storia; facendone una materia più inclusiva e meno dogmatica possibile. Questo ci pare particolarmente necessario quando consideriamo la composizione multietnica e multiculturale delle classi nelle quali ci troviamo ad insegnare. Avere studenti e studentesse che sono italiani di prima o seconda generazione significa insegnare a giovani cittadini e cittadine che hanno un portato di memorie, personali e familiari, decisamente diverse e lontane da quelle dei loro compagni di classe, la storia globale può aiutare a farli sentire più inclusi nella narrazione storiografica loro proposta in aula. Un esempio in tal senso molto utile può essere quello del modo in cui si sta provando a risemantizzare e rileggere le vicende delle resistenze europee alle occupazioni nazifasciste durante la Seconda guerra mondiale in una chiave sovranazionale, partendo in particolare dalle vicende biografiche dei tanti combattenti transazionali che presero parte a questi movimenti.[14]
La storia globale può, molto banalmente, così contribuire a inserire la storia italiana in una cornice più ampia, una cornice che ci faciliti nel comprendere (e nell’insegnare) le nostre vicende nazionali (com’è richiesto dai programmi scolastici) prescindendo da semplificazioni, mistificazioni o riduzioni. L’esempio più immediato in tal senso è sicuramente quello delle vicende (ancora in parte rimosse) del colonialismo italiano (tanto nell’Italia liberale quanto durante il regime fascista).[15] Tutti sappiamo come l’insegnamento della storia contemporanea, ed in particolare di quella novecentesca, significhi confrontarsi spesso con questioni ancora in grado di accendere polemiche memoriali e politiche che poco o nulla hanno a che fare con la storiografia (basti pensare a cosa succede ogni anno attorno alla ricorrenza del Giorno del Ricordo). Anche in questa direzione ci pare estremamente utile l’approccio qui proposto perché proprio la storia globale può aiutarci a scardinare le due architravi su cui si basano le polemiche di cui sopra, ossia un eccessivo ancoramento su letture nazionali (quando non nazionaliste) e il rifiuto aprioristico di accettare le complessità tipiche della storiografia, che si traduce generalmente nel rigetto di ogni tentativo di riflettere sul punto di vista che si adotta quando si parla e si scrive di eventi storici. In altre parole, l’approccio globale ci può aiutare a confrontarci con quel mare magnum memoriale che sembra a volte travolgere l’insegnamento della storia nelle nostre aule scolastiche e universitarie; non per svuotare i processi memoriali, ma per capirli meglio collocandoli in un contesto più ampio e per cogliere quanto sia determinante la cornice nazionale nella loro formazione.
Le nuove spazialità
Tornando all’esempio cartografico che si faceva in apertura, uno dei più grandi meriti della storia globale nel corso dell’ultimo ventennio è sicuramente stato quello di aver posto l’attenzione (quando non proprio introdotto ex novo) su nuove spazialità. A livello didattico sarebbe estremamente utile e stimolante poter introdurre questi spazi finora inediti nell’insegnamento della storia. L’esempio più emblematico che generalmente si fa è quello della storia della tratta degli schiavi nell’area atlantica tra epoca moderna e contemporanea, con l’emersione di quello che la storiografia anglosassone ha definito il “Black Atlantic”; un altro esempio potrebbe essere quello della storia della guerra fredda letta dalla prospettiva del sud globale.[16] Delle altre nuove importanti spazialità sono emerse, queste in anni veramente recenti, tanto grazie alla storia ambientale e allo studio dell’impatto delle attività umane sullo stato di salute del nostro pianeta, quanto grazie allo studio delle pandemie nella storia. Ci pare quasi banale rilevare le potenzialità che si nascondono dietro un utilizzo di tematiche simili in ambito didattico. L’ultimo importante contributo che crediamo le pratiche di storia globale possano dare sul piano didattico riguarda l’attenzione a prediligere prospettive non eurocentriche. Provare a leggere la storia (e l’attualità) partendo da angolazioni alternative è un esercizio essenziale per ogni studente o studentessa. Un esempio su tutti potrebbe essere quello del recente conflitto scatenatosi all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 e il modo in cui questo è stato raccontato. In occidente, e in Italia in particolare, c’è stata, sin da subito, la tendenza a leggere questa nuova guerra sul suolo europeo utilizzando categorie consolidatesi nel corso dei decenni attorno a slogan semplicistici (come quello di addossare le responsabilità del conflitto al cosiddetto “campo occidentale”, mutuando così i discorsi e le prassi del movimento pacifista come si erano declinati in occasione della guerra del Kossovo o della seconda aggressione statunitense all’Iraq) e dal sapore tremendamente eurocentrico.
Conclusione
Vorrei chiudere sottolineando come in molti contesti nazionali pratiche come quelle promosse dalla storia globale sono considerate se non da combattere almeno da esecrare. Nel settembre del 2014 il presidente russo Vladimir Putin annunciò una profonda revisione dei libri di testo per poter esaltare i valori del patriottismo russo, due anni dopo l’ex primo ministro conservatore francese François Fillon dichiarava che c’era urgenza di rivedere il modo in cui si insegnava la storia nelle scuole francesi: sarebbe infatti stato dato troppo spazio alla storia del mondo a discapito di quella francese. Nel 2017 toccò a Donald Trump twittare che nelle scuole statunitensi ci si sarebbe dovuti limitare a insegnare agli alunni la storia americana.[17] Quello che dà più fastidio a una certa politica è chiaramente la possibilità di mettere in discussione la scala dello Stato nazione come unico metro di analisi dei processi storici. Anche per questo ci pare necessario continuare (o cominciare) a praticare la storia globale in ambito didattico.
Note:
[1] E. Rosenberg, In un mondo sempre più piccolo. Le correnti transnazionali dal 1870 al 1945, Einaudi, Torino 2022, p. 4.
[2] Ivi, p, 5.
[3] S. Conrad, Storia Globale. Un’introduzione, Carocci, Roma 2015, p. 18.
[4] S. Conrad, What is global history?, Princeton University Press, Princeton 2016, pp. 6-8.
[5] R. Wenzlhuemer, Doing Global History. An Introduction in 6 Concepts, Bloomsbury, Londra 2019.
[6] L. Kamel, Ripensare la Storia. Prospettive Post-Eurocentriche, Le Monnier, Milano 2021.
[7] K. Pomeraz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, il Mulino, Bologna 2004.
[8] S. Conrad, Verso il mondo moderno. Una storia culturale, Einaudi, Torino 2022, pp. 79-122.
[9] P. Burke, Una rivoluzione storiografica: la scuola delle “Annales”, Laterza, Roma-Bari 1992; Sigurour Magnusson e Istvan Szijarto, What is mircohisotry? Theory and Practice, Routledge, New York 2013; Jacques Revel (a cura di), Giochi di scala. La microstoria alla prova dell’esperienza, Viella, Roma 2006;
[10] C. Bayly, La nascita del mondo moderno 1780-1914, Einaudi, Torino 2009, p. XX.
[11] Conrad, 2015, p. 27.
[12] A. Stanziani, Storia globale e lavoro coatto in: «Mestiere di Storico», XII, 1 2021, pp. 37-61. Si veda anche: A. Stanziani, Eurocentrism and the politics of Global Hisotry, Palgrave, Cham 2018.
[13] C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1976.
[14] https://www.editorialedomani.it/fatti/combattenti-transnazionali-dimensione-europea-resistenze-itj674f5 [consultato il 20 febbraio 2023]-
[15] N. Srivastava, Italian colonialism and resistances to empire, 1930-1970, Palgrave, Cahm 2018.
[16] O. A. Westad, La guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo. Le relazioni internazionali del XX secolo, Il Saggiatore, Milano 2015.
[17] Stanziani, 2018, p. 1.