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Andamenti demografici e fenomeni migratori nell’Europa contemporanea. Sintesi storica e focus didattici

Andamenti demografici e fenomeni migratori nell’Europa contemporanea. Sintesi storica e focus didattici

Elenco dei paesi in ordine di densità di popolazione (2017). Fonte: populationpyramid.net

Abstract

Andamenti demografici e fenomeno dell’immigrazione sono ottimi strumenti per comprendere l’Europa del tempo presente. Partendo dall’analisi delle transizioni demografiche nel nostro continente (ma con uno sguardo al Mondo), si cerca di coglierne i mutamenti sul piano del  popolamento. Nel contempo, si verifica il ruolo e l’incidenza del fenomeno migratorio che sta interessando, e sempre più interesserà, quest’area del pianeta. Ad una sezione introduttiva di carattere storico e densa di dati aggiornati, segue una seconda parte dedicata all’utilizzo delle fonti storiografiche e statistiche in ambito scolastico; la scelta dei materiali proposti mira a fornire a docenti e studenti un ventaglio di suggerimenti che consenta di inserire le dinamiche demografiche e il fenomeno delle migrazioni in un percorso diacronico utile a meglio comprendere il mondo, l’Europa e l’Italia presente.

Sintesi storica

Perché la demografia storica è fondamentale, nell’insegnamento della storia

Vi sono molti buoni motivi per ragionare di demografia storica con gli studenti. Questa disciplina, infatti:

  • fornisce un ottimo punto di osservazione per individuare e riflettere su processi di lungo periodo che hanno effetti evidenti anche nel presente;
  • permette di lavorare sul confronto, sia in senso sincronico che in senso diacronico, individuando similitudini e differenze fra le diverse aree geografiche mondiali, europee, nazionali;
  • ha evidenti connessioni con molti altri aspetti della società: agglomerati urbani (urbanizzazione) e rapporti col contado (rapporti città-campagna);
  • permette di tematizzare storicamente aspetti solitamente trattati in geografia, come: luoghi di consumo e luoghi di produzione, quantità e distribuzione delle risorse economiche, welfare;
  • è un potente strumento per affrontare temi socialmente vivi e scottanti, quali il colonialismo e la decolonizzazione, le identità nazionali, e infine le migrazioni

In questo lavoro cerchiamo di fornire al docente una sintesi disciplinare, utilizzabile per le sue lezioni, o per inquadrare i fenomeni interessati, man mano che se ne presenta l’occasione. Inoltre, questa costituisce il quadro informativo utile per operare in modo più laboratoriale, come si suggerirà alla fine, nelle sei proposte didattiche che abbiamo preparato.

La storia mondiale della popolazione in poche battute

Nel corso del Novecento la popolazione mondiale è passata da 1,6 a 6 miliardi, raggiungendo gli attuali 7,5 miliardi (http://www.populationpyramid.net/it/mondo/2017/ ). Dunque la specie umana, che aveva impiegato 200.000 anni della sua storia per arrivare a un miliardo di individui all’inizio dell’Ottocento, dagli inizi del Novecento ad oggi è pressoché quintuplicata.

TABLE 1. POPULATION OF THE WORLD AND REGIONS, 2017, 2030, 2050 AND 2100, ACCORDING TO THE MEDIUM-VARIANT PROJECTION

Population (millions)
Region 2017 2030 2050 2100
World 7 550 8 551 9 772 11 184
Africa 1 256 1 704 2 528 4 468
Asia 4 504 4 947 5 257 4 780
Europe 742 739 716 653
Latin America and the Caribbean 646 718 780 712
Northern America 361 395 435 499
Oceania 41 48 57 72

Source: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division (2017). World Population Prospects: The 2017 Revision. New York: United Nations
(dal sito https://esa.un.org/unpd/wpp/publications/Files/WPP2017_KeyFindings.pdf)


Dal sito: https://www.termometropolitico.it/1218280_come-cambia-la-popolazione-mondiale-tutte-le-mappe.html

Questo enorme cambiamento è collegato ad altri, non meno rilevanti:

  • la percentuale di popolazione urbana è passata, globalmente, dal 10% al 50%;
  • sia pure in diverse percentuali, nelle differenti parti del mondo sono diminuite la fecondità (= numero di figli per donna), la natalità (= numero di nati per 1000 abitanti) e la mortalità (= numero di morti per 1000 abitanti), soprattutto quella infantile;
  • di conseguenza, è raddoppiata la durata media della vita ed è iniziato un sempre più accentuato invecchiamento della popolazione;
  • è profondamente cambiata, e ancora di più cambierà, la distribuzione della popolazione tra le diverse parti del pianeta.
  • E, per quanto riguarda l’Europa, la percentuale della sua popolazione su quella mondiale si è dimezzata, passando dal 25% al 12%, e continua a diminuire. Si prevede sarà il 7,5% nel 2050.
  • E’ da tenere presente che: i mutamenti demografici incidono sia sulla “grande storia” dei rapporti tra le diverse aree del mondo, sia sulle strutture e sulle relazioni familiari, fino alle dimensioni più private e intime, come quelle della procreazione e dei rapporti tra genitori e figli.
Regimi demografici e transizione demografica

La dinamica della popolazione, nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi, dipende essenzialmente da tre fattori: la natalità, la mortalità e i movimenti migratori.

I demografi hanno categorizzato le tendenze demografiche sulla base delle relazioni fra tassi di natalità e di mortalità, individuando due regimi demografici fondamentali:

  • un regime demografico tradizionale, caratterizzato da alti tassi di natalità e alti tassi di mortalità (soprattutto infantile);
  • un regime demografico moderno, caratterizzato, viceversa, da bassi livelli sia di natalità che di mortalità.

Quando si passa da un regime all’altro, si ha una transizione demografica.

Questa si divide in due fasi:

  • nella prima si verifica un forte aumento della popolazione, perché la mortalità cala rapidamente, a fronte di una natalità ancora elevata;
  • nella seconda fase la crescita rallenta grazie al calo anche della natalità. Ciò e dovuto ad un concorso di fattori diversi (progressi in agricoltura, industrializzazione e urbanizzazione, scolarizzazione, emancipazione femminile, controllo della natalità) che vengono definiti modernizzazione.
La prima transizione demografica nel mondo

Nel regime demografico tradizionale mondiale – cioè dalla rivoluzione neolitica fino alla metà del Settecento in Europa (ma fino al Novecento nel resto del mondo) – la crescita della popolazione era lenta e discontinua. Mediamente, ogni donna generava 5-6 figli, ma oltre la metà di essi moriva in età infantile o prima di arrivare all’età adulta. A un’alta natalità corrispondeva perciò un’alta mortalità, soprattutto infantile, per cui la popolazione era composta in gran parte da giovani: tra i molti che nascevano, pochi diventavano vecchi. Inoltre, la popolazione aumentava lentamente perché le fasi di crescita demografica (legate all’aumento della disponibilità delle risorse alimentari) erano seguite da drammatiche fasi di calo, dovute a carestie alimentari e a epidemie di malattie infettive.

La prima fase della transizione demografica, cioè un intenso e prolungato aumento della popolazione, iniziò in Europa occidentale nella seconda metà del Settecento e si estese all’Europa orientale e meridionale nel secondo Ottocento, con significative differenze di tempi. Tale aumento fu dovuto al fatto che, a fronte di una elevata natalità, la mortalità diminuì, a causa della scomparsa della peste, dell’aumento delle risorse alimentari e, in seguito, delle migliorate condizioni igieniche delle città.

Queste cause erano in gran parte legate alle rivoluzioni agricola, industriale e dei trasporti. Ciò spiega la precocità della transizione in Inghilterra e nell’Europa nord-occidentale, rispetto al resto del continente.

Con un’alta natalità e una mortalità in calo, la popolazione europea aumentò molto e rapidamente tra l’Ottocento e il 1914, tanto che in quel periodo 50 milioni di europei emigrarono verso le Americhe e l’Australia. Fu un esodo di dimensioni senza precedenti nella storia, reso possibile da condizioni particolarissime: oltre alla notevole disponibilità di spazi e risorse, infatti, quei continenti erano semi-spopolati, anche per il tracollo demografico dei nativi, provocato dal contatto con gli europei a seguito delle conquiste coloniali dei secoli precedenti.

L’Europa sperimenta la seconda fase della transizione demografica

Grosso modo dall’inizio del Novecento (alla fine dell’Ottocento in Europa nord-occidentale; ma solo dopo la Prima guerra mondiale nell’Europa orientale e meridionale), iniziò la seconda fase della transizione demografica, cioè il progressivo rallentamento della crescita.

Essa fu originata dal fatto che, mentre proseguiva il calo della mortalità (ora soprattutto dovuto ai progressi medico-sanitari), iniziò a rallentare anche la natalità, per cause legate all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Se per i contadini i figli costituivano, fin dall’infanzia, utili braccia per il lavoro nei campi, in città diventavano bocche da sfamare, tanto più costose quanto più si diffondeva la scolarizzazione obbligatoria e venivano posti limiti al lavoro minorile in fabbrica.

Il calo della natalità fu anche un effetto del calo della mortalità: nelle società agrarie tradizionali, che non avevano sistemi pensionistici, i figli erano “il bastone della vecchiaia”, e proprio l’alta mortalità spingeva all’alta procreazione. La maggior sopravvivenza dei figli spinse, viceversa, i genitori a generarne un numero minore.

Il calo della natalità fu – al contempo – causa ed effetto di una grande trasformazione della mentalità e dei comportamenti. Un ruolo fondamentale ebbe, in questo, la progressiva emancipazione femminile, nella seconda metà del Novecento: si passò da un sistema di procreazione naturale a forme sempre più efficaci di controllo e di programmazione delle nascite (la “pillola” contraccettiva iniziò a diffondersi negli anni ’60).

In tutta Europa il calo della natalità iniziò negli anni ’20 e fu molto forte durante la Seconda guerra mondiale. Dopo una temporanea inversione di tendenza dal dopoguerra agli anni ’60 (il cosiddetto “baby-boom”), la natalità tornò a calare fino a toccare negli anni Settanta la cosiddetta “crescita 0”, cioè un equilibrio al ribasso tra nati e morti, in tutto il Nord del mondo. Così si concluse la transizione, che instaurò il regime demografico moderno.

La transizione demografica nel Sud del mondo

Nel Sud del mondo, la grande crescita legata alla prima fase della transizione demografica iniziò solo nella prima metà del Novecento – proprio mentre nel Nord la crescita demografica stava rallentando – e si manifestò soprattutto tra gli anni ’50 e i ’70.

Durò, cioè, un arco di tempo molto più breve, e fu una transizione molto più intensa di quella sperimentata dal Nord. Ciò accadde per effetto di due fenomeni combinati:

– la mortalità diminuì rapidamente, a causa della diffusione dal Nord al Sud degli antibiotici e delle vaccinazioni contro le malattie infettive (anche se la mortalità rimase molto più alta di quella dei paesi sviluppati).;

– la natalità continuò a essere alta, per il permanere di modelli culturali tradizionali, in società agricole, molte delle quali basate su una forte subalternità delle donne, che iniziavano prestissimo (14-15 anni) a generare figli.

Si innescò così in quei paesi la cosiddetta “bomba demografica”, cioè un enorme aumento della popolazione.

Poi, dagli anni ’80-’90, anche in gran parte del Sud del mondo la natalità e la crescita della popolazione cominciarono a rallentare. Iniziò anche nel Sud la seconda fase della transizione demografica. Essa si realizzò però in tempi e con ritmi diversi:

  • prima in Asia orientale e in America Latina;
  • solo all’inizio del Duemila, e molto più lentamente, in Africa e nel Medio Oriente, dove la crescita demografica è tuttora alta.
La seconda transizione demografica, in Europa e nel Nord del mondo

Nel contempo, dagli anni ’90 del Novecento è iniziata nel Nord del mondo quella che alcuni demografi definiscono seconda transizione demografica (da non confondersi con la seconda fase della prima). Questo nuovo regime, sembra, caratterizzerà il XXI secolo. Esso consiste in un ulteriore declino sia della mortalità sia, soprattutto, della natalità, che dovrebbe avere come conseguenze, a partire dalla metà del XXI secolo:

  • un calo della popolazione, più o meno intenso e rapido nei diversi paesi;
  • un intenso e “devastante” mutamento della sua struttura per età, con un forte invecchiamento della popolazione.

Ciò accade perché nel Nord del mondo, che aveva completato negli anni ’70 la prima transizione demografica, il tasso di fertilità (e di conseguenza la natalità) ha proseguito a calare, ben al di sotto della media di due figli per donna che assicura il ricambio generazionale (cioè appunto la “crescita 0”, la stabilità della popolazione). Questo fenomeno, che non ha precedenti nella storia, è iniziato in alcuni paesi come l’Italia e il Giappone, che sono infatti i paesi più “vecchi” del mondo (con un numero medio di figli per donna di 1,2-1,3), ma si è poi esteso a molti altri paesi sviluppati, in particolare in Europa.

Tale fenomeno sta portando ad una modifica sostanziale della piramide demografica, con un progressivo aumento della quota di popolazione anziana a fronte di una costante riduzione di quella giovanile. Dinamica che sta iniziando a provocare problemi, finora inediti, in termini di sostenibilità del welfare a causa dell’invecchiamento della popolazione.

La complicata situazione del Sud del mondo

Nel cosiddetto Sud del mondo, sempre dagli anni ’90, si osserva una differenza rilevante tra due situazioni

  • i cosiddetti “paesi emergenti” hanno visto abbassarsi sempre più il tasso di fecondità, verso o al di sotto dei due figli per donna (in particolare in Cina e nel resto dell’Asia orientale, e più lentamente in America latina);
  • in un altro gruppo di paesi (chiamati “a sviluppo minimo”, e localizzati nel resto dell’Asia e, soprattutto, nell’Africa subsahariana), i tassi di fecondità, e di conseguenza la crescita della popolazione, rimangono molto alti e si prevede calino molto più lentamente che nei “paesi emergenti”.

È dunque in atto una certa “convergenza” (cioè la chiusura della “forbice”) dei dati sulla fecondità tra paesi economicamente sviluppati e una parte dei paesi in via di sviluppo (solo una parte, però, quella dei cosiddetti “paesi emergenti”), tanto che, da punto di vista demografico, al posto della tradizionale distinzione Nord-Sud si preferisce sostituire una tripartizione fra:

  • paesi “economicamente progrediti”, che si trovano ormai nella seconda transizione demografica;
  • paesi “emergenti”, che sono nella seconda fase della prima transizione demografica;
  • paesi “a sviluppo minimo” (quasi tutti nell’Africa sub-sahariana), che si trovano ancora nella prima fase della prima transizione demografica, cioè con alti tassi di fecondità e una forte crescita della popolazione.
Quando l’Europa era in crescita

Nel 2015, con i suoi 500 milioni di abitanti, l’Unione europea costituisce la terza entità politica del mondo dopo la Cina (1370 milioni circa) e l’India (1238 milioni); se poi volessimo includere nel conteggio anche gli Stati non UE, il nostro continente raggiungerebbe la ragguardevole cifra di 750 milioni di abitanti (erano 488 nel 1914, un aumento dunque non trascurabile), in sostanza quasi il 12% della popolazione mondiale. Una quota che è tuttavia destinata a ridursi, stanti gli andamenti demografici complessivi considerati nel precedente paragrafo.

I tassi di natalità, infatti, cominciarono a calare in Francia già nella seconda metà del secolo XVIII e nel nord Europa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; tale tendenza, strettamente legata al fenomeno dello sviluppo economico e industriale, ha subito ovviamente delle frenate e interruzioni.

Se da una parte le guerre (per il solo secondo conflitto mondiale si stimano tra i 38 e 50 milioni di morti), le carestie (milioni furono le vittime della crisi che colpì le regioni russe del Volga nei primi anni ’20 e forse 9-12 milioni furono i morti per la carestia che si abbatté in Ucraina, Russia e zone caucasiche nel 1932-33) e le epidemie (la spagnola causò il decesso di circa 2 milioni di persone tra 1918 e 1919) provocarono cali demografici talvolta molto vistosi in alcune nazioni, va però considerato che nei dopoguerra si verificarono quasi ovunque dei “recuperi” di natalità che andarono a compensare i decessi e le mancate nascite provocati dai conflitti.

Il saldo demografico in Europa è stato positivo fin quasi alla fine del XX secolo:

  • Tra 1950 e 1970 l’aumento ha sfiorato i 110 milioni (+20%);
  • successivamente il ciclo si è attenuato e tra il 1970 e il 1990 l’aumento si è ridotto a 66 milioni (+10%);
  • tra 1990 e 2010 il rallentamento è stato ancora più vistoso e si registra un incremento della popolazione pari a circa 17 milioni di persone (+2%) e se non fosse stato per l’immigrazione, negli ultimi vent’anni la popolazione europea sarebbe addirittura decresciuta.
La decrescita demografica dell’Europa

Verso la fine del XX secolo, dunque, i paesi europei hanno varcato al ribasso la soglia dei due figli per donna, limite al di sotto del quale una società non è in grado di garantire il ricambio generazionale (ciò che abbiamo indicato come seconda transizione demografica).

In alcune nazioni (Francia, Irlanda, paesi scandinavi) si è assistito, negli ultimi anni, ad una ripresa dei tassi di natalità, frutto di politiche sociali di sostegno alle giovani coppie, che cominciano a dare alcuni frutti. In altri paesi, fra cui l’Italia (tra quelli maggiormente interessati dal crollo delle nascite) si è potuta registrare una lieve inversione di tendenza, in buona parte dovuta agli apporti della popolazione immigrata.

D’altra parte, la crisi economica ha subito arrestato questo trend, al punto che in Italia nel 2013 si sono registrati 514.000 nascite e un tasso di fecondità fermo all’1,39‰ (la situazione è poi peggiorata negli anni successivi e nel 2016 si sono registrate 474.000 nascite circa, con un ulteriore calo del tasso di fecondità che comincia a coinvolgere anche le donne immigrate, e un saldo naturale negativo pari a -134.000 unità).

Ruolo della donna e cambiamenti della famiglia

Tutto ciò dipende evidentemente da un profondo cambiamento della società europea. Tra i fattori che maggiormente hanno inciso su questo fronte possiamo trovare innanzi tutto il diverso ruolo che la donna ha assunto nelle società contemporanee; ciò è determinato anche da un accesso sempre maggiore all’istruzione, che comporta un più facile ingresso nel mondo del lavoro extradomestico e dunque una riduzione del tempo da destinare alla cura della prole.

Nel contempo è intervenuto un cambiamento anche nella composizione dei nuclei familiari, con una evidente crisi dell’istituto del matrimonio. Negli ultimi decenni in Europa, infatti, è cresciuto il numero delle coppie conviventi (con corrispettivo calo dei matrimoni) e conseguentemente è aumentato il numero dei bambini nati da coppie non sposate.

La scelta o meno di sposarsi incide anche sui tassi di natalità, giacché nelle società maggiormente ancorate all’istituto del matrimonio (quelle più profondamente influenzate dalla morale cattolica) si assiste ad una dilazione nel tempo delle nozze. In Europa l’età media del matrimonio, tra il 2004 e il 2013, è passata per le donne dai 29 ai 31 anni e per gli uomini dai 32 ai 34. Di conseguenza si è dilazionata anche l’età della procreazione.

Tre Europe: Nord, Sud e Est

Laddove invece le coppie decidano di non sposarsi, l’età media in cui inizia la convivenza cala sensibilmente e di conseguenza anche la scelta di avere dei figli avviene ad un’età inferiore; ciò è particolarmente evidente nei paesi del Nord, dove, in effetti, si registra un tasso di natalità più alto, legato anche a politiche sociali di sostegno alle famiglie più efficaci rispetto ai paesi del Sud. A ciò si associa, inoltre, la questione della permanenza dei giovani nel nucleo familiare originario: più prolungata nei paesi del Sud Europa, meno in quelli del Nord.

Per quanto riguarda gli Stati dell’Est europeo, la decrescita della natalità segue un percorso in parte difforme. Se in Occidente. dagli anni ’80, vi è un generale calo dei tassi di natalità, nei paesi dell’Est questa tende prima a risalire per poi (dopo gli anni ’90)  cadere bruscamente fino a toccare i tassi minimi sul finire del XX secolo. Nel nostro secolo riprende leggermente quota, ma comunque a livelli bassi. In questo processo intervengono, com’è ovvio, diversi fattori: l’adozione di modelli sociali tipici del mondo occidentale (famiglie numericamente più ridotte), problemi di sicurezza e garanzie sociali venute meno con il crollo dei regimi comunisti, crisi economica che ha messo in crisi diverse fasce sociali (senza la sicurezza di poterli mantenere, si tende infatti a non generare figli).

Vecchi e bambini

Al calo dei tassi di natalità corrisponde poi un allungamento dell’aspettativa di vita. Il calo dei tassi di mortalità ha radici piuttosto profonde; se nel Regno Unito verso la metà del XVIII secolo esso raggiungeva i 30 morti per 1000 abitanti, due secoli dopo era già sceso a 11‰; stesso andamento si registra nel resto del Nord Europa, mentre il Sud arriva ancora una volta in ritardo; resta il fatto che anche in paesi come l’Italia il tasso di mortalità si dimezza nella prima metà del XX secolo.

A beneficiare del miglioramento sono in primo luogo i bambini: è infatti la mortalità infantile quella che decresce prima e più rapidamente; successivamente comincia a calare anche quella delle altre fasce d’età. Un’analisi comparata dei dati, comunque, rivela una certa difformità tra la situazione dei paesi occidentali rispetto a quelli orientali, dove il processo appare più lento nell’arco del XX secolo. Se poi confrontiamo il paese dove l’aspettativa di vita è maggiore (Svezia per gli uomini, con 78,4 anni, e Spagna per le donne, con 83,9 anni) e quello con aspettativa minore (Lituania per gli uomini, con 65,4 per gli uomini, e Ungheria per le donne, con 76,9 anni), ci si rende conto delle forti diseguaglianze ancora presenti nel nostro continente.

Il crollo dei regimi comunisti, in questo senso, ha creato non pochi disagi; si pensi solo al fatto che nella federazione russa l’aspettativa di vita tra il 1987 e il 1994 si è ridotta di ben 7,7 anni per gli uomini e di 4 anni per le donne, a causa della crisi del sistema sanitario, dell’aumento del fenomeno dell’alcolismo, ecc.

Di fronte a questo quadro è chiaro che la popolazione europea sta rapidamente invecchiando (fenomeno analogo si verifica in Giappone), così oggi in Italia e Germania oltre il 20% della popolazione supera i 65 anni di età, mentre in altre realtà come Irlanda, Slovenia e Cipro la quota si abbassa al 12%. Se il trend non dovesse essere invertito (ossia se non dovesse riprendere slancio il tasso di natalità), possiamo aspettarci che in Europa nel 2050 il numero degli anziani sarà il triplo dei giovani, con ovvie ripercussioni sulla tenuta dello stato sociale (pensioni e sanità). Un elemento che potrà invertire il processo appena delineato può essere rappresentato dalle migrazioni.

Migrazioni e demografia: la lunga storia dell’umanità

“L’umanità si è diffusa rapidamente sulla faccia della terra e si è trovata esposta nel corso delle sue incessanti migrazioni alle più diverse condizioni di vita. Gli abitanti della Terra del Fuoco, del Capo di Buona Speranza o della Tasmania in un emisfero, e delle regioni Artiche, nell’altro, debbono essere passati per molti climi ed aver cambiato le loro abitudini molte volte, prima di raggiungere le loro dimore attuali”[1].

Sulla quota complessiva della popolazione non agiscono, ovviamente, solo i saldi naturali fra natalità e mortalità, ma anche quelli determinati dagli spostamenti: le migrazioni, appunto. Storicamente intrecciati, i tre fattori hanno avuto un peso diverso nelle diverse epoche storiche.

Le migrazioni sono una componente fondamentale della storia insegnata

Dopo quelle preneolitiche, cui si deve il popolamento del pianeta, si ebbero le migrazioni lente e graduali che nel corso del lungo neolitico diffusero l’agricoltura. Successivamente quelle che consentirono sia la colonizzazione di spazi interni (come accadde in Europa fino alle soglie dell’Ottocento), sia gli spostamenti e l’occupazione di spazi esterni, vuoti o semi-popolati. Tra i casi rilevanti didatticamente, ricordiamo la migrazione-colonizzazione greca nel Mediterraneo antico, quella tedesca nell’Europa centro-orientale, quella europea nelle Americhe e poi in Australia, quella russa oltre il Caucaso e quella cinese in Mongolia[2].

In molti casi furono migrazioni spontanee. In tanti altri, furono spostamenti organizzati e diretti dal potere politico, talora con successo (come in alcuni dei casi sopra citati), talaltra con effetti fallimentari (come ad esempio gli spostamenti forzati di indios da parte degli spagnoli, o il tentativo di ripopolamento della Maremma tra XVI e XVII secolo).

Rispetto alle regioni di provenienza, le percentuali dei migranti, nei tempi passati, erano molto basse. Per  questo motivo, il flusso migratorio ebbe carattere autopropulsivo, dovuto alla forte crescita demografica dei coloni, grazie alle favorevoli condizioni ambientali dei territori da essi via via colonizzati, e alla loro grande fitness, o “capacità adattativa”[3].

La storia straordinaria delle migrazioni europee

Per venire a epoche a noi più vicine, va sottolineata l’eccezionalità delle migrazioni europee del “lungo Ottocento”. Soprattutto nel periodo 1870-1914, quella “prima globalizzazione”, questa eccezionalità consistette in un’enorme accelerazione degli scambi di notizie, merci, capitali e persone: i 50 milioni di europei che migrarono in America consentirono all’Europa di riversare all’esterno il 20% del suo surplus demografico.

Nel trentennio 1914-45 quella prima globalizzazione si bloccò e così pure i flussi migratori europei, frenati o distorti dalle tragiche vicende di quel trentennio: il blocco delle migrazioni provocato dalle due guerre mondiali e dalle politiche restrittive attuate prima e dopo la crisi del ’29; le migrazioni forzate dovute agli spostamenti dei confini e alle espulsioni di massa dopo la Seconda guerra mondiale; la divisione Est-Ovest, che bloccò l’emigrazione dall’Europa orientale nel dopoguerra.

L’Europa meta di migrazione

Dal secondo dopoguerra ripresero, ma su nuove basi, sia il processo di internazionalizzazione economica (sotto il segno del primato americano), sia i processi migratori, non più orientati prevalentemente sull’asse Nord-Nord (dall’Europa alle Americhe), ma su quello Sud-Nord.

In questo contesto, l’Europa smise, dopo oltre mezzo millennio, di esportare migranti e ridivenne meta di immigrazione: prima dal sud al nord del continente (dall’Europa mediterranea e balcanica a quella nord-occidentale), poi anche dal sud del Mediterraneo e, dagli anni ’90, dall’Europa orientale e dall’Asia.

Dopo il primo trentennio post-bellico (la cosiddetta “età dell’oro” per l’Occidente), caratterizzato da politiche di promozione attiva dell’immigrazione da parte dei paesi del Nord, la situazione è cambiata dagli anni ’70 al presente: si è passati a opposte politiche progressivamente sempre più restrittive nei confronti dell’immigrazione, in un contesto socioculturale segnato dal riemergere di forme più o meno aperte di xenofobia, localismo, razzismo. Pertanto, a differenza di quella ottocentesca, quella attuale è una globalizzazione parziale, assai più di merci, capitali e notizie che di persone.

Migrazione reale e migrazione percepita

Mentre, come detto sopra, l’Europa d’inizio Novecento poté scaricare verso le Americhe il 20% del proprio surplus demografico, l’emigrazione verso l’Europa è molto più contenuta, per effetto di tali politiche restrittive: circa 3 milioni di emigranti l’anno, cioè solo il 3% del surplus demografico del Sud. L’immigrazione recente e attuale è relativamente modesta, nonostante la percezione comune, secondo la quale il mondo occidentale sta per essere travolto da un’ondata migratoria. L’Europa occidentale aveva “esportato” tra il 1870 e il 1913 circa 15 milioni di persone: è lo stesso numero di immigrati che essa ha assorbito dal 1960 al 2000, ma con una popolazione europea più che raddoppiata (e dunque con una consistenza percentualmente molto minore). Allo stesso modo, il Nord America che accoglieva un milione di immigrati all’anno nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, accoglie lo stesso numero oggi, quando la popolazione americana è triplicata.

Migrazione e seconda transizione demografica

Tutto questo avviene, lo si deve tenere presente, in un contesto nel quale la migrazione mette in relazione i paesi che vivono la seconda transizione demografica con quelli che vivono “lo sviluppo minimo” (o prima fase della prima transizione demografica).

Questa relazione produce due conseguenze, molto “dure” da accettare oltre che paradossali per il senso comune.

  • le migrazioni, oggi e nel prossimo futuro, non possono in alcun modo risolvere i problemi demografici del Sud del mondo, a causa dell’entità trascurabile delle emigrazioni rispetto all’aumento naturale delle popolazioni (a differenza di quanto accadde all’Europa nel “lungo Ottocento”);
  • le migrazioni in entrata sono, viceversa, necessarie – e in misura ben più consistente dei ritmi attuali – per gran parte dei paesi del Nord, e in primo luogo per quelli dell’Europa mediterranea, Italia in testa.

Da questo punto di vista, il raffronto tra le migrazioni del lungo Ottocento e quelle attuali è improponibile, e in larga misura fuorviante, a causa delle enormi differenze demografiche, socio-economiche e geopolitiche tra le due fasi storiche.

La fitness e le migrazioni

Tale raffronto diventa, al contrario, molto utile in un’altra prospettiva, sottolineata con forza da Livi Bacci: quella della “capacità adattativa” (fitness) dei migranti, e della loro flessibilità. Le emigrazioni europee d’inizio Novecento furono infatti le prime, nella storia mondiale, rivolte verso mete urbane e industriali, proprio come quelle attuali: e dimostrarono come chi proveniva dalle campagne abbandonò ben presto i modelli familiari tradizionali, per adottare quelli urbani, passano rapidamente da una fertilità altissima a ritmi riproduttivi simili a quelli delle popolazioni locali.

Migrazione attuale: i fattori

A partire dal secondo dopoguerra. le ex potenze coloniali cominciarono a trasformarsi da paesi di emigrazione a paesi di immigrazione. Il Regno Unito, ad esempio conobbe un crescente flusso di immigrati provenienti dai paesi del Commonwealth (Pakistan, India, Nigeria, Sudafrica, Australia, ecc.). Dalle zone maghrebine si costituì un flusso verso la Francia, così come Belgio e Paesi Bassi videro giungere molti immigrati da Congo, Suriname, Indonesia e Antille. Fenomeno analogo conobbe pure il Portogallo.

A determinare la direzione dei flussi intervengono sicuramente vari fattori. In primo luogo, la storia dei rapporti tra Paese ospitante e Paese di origine del migrante, ma anche le politiche di accoglienza attivate nei Paesi di arrivo, la maggiore o minore facilità di accesso ai permessi di soggiorno, la permeabilità delle frontiere, le vie di comunicazione. Poi intervengono anche fattori di altra natura come l’affinità culturale o linguistica (albanesi e rumeni sono chiaramente più attratti dall’Italia, con cui condividono percorsi linguistici e storici, che da altre nazioni).

Un grande impulso a questi spostamenti massicci fu determinato dalle condizioni economiche, ossia il grande sviluppo che l’Europa conobbe nei tre decenni che seguirono la fine della Seconda guerra mondiale. Alcuni di questi trasferimenti furono dettati però anche da fattori politici. Ad esempio la Germania si trovò ad accogliere una notevole quantità dei 12 milioni di persone di origine tedesca espulsi o in fuga dai paesi dell’est (Russia, Polonia, Ucraina, Cecoslovacchia). E tuttavia questo stesso Stato, a partire dagli anni Sessanta, si trovò ad importare lavoratori dal sud Europa (in particolare Italia, Grecia, Portogallo, Spagna e Turchia).

Se guardiamo ai dati Eurostat, la percentuale di persone nate in un altro Paese che nel 2014 risiedevano in Stati europei scopriamo che Svezia e Svizzera sono quelle che registrano i dati più elevati (10-10,1%). Relativamente alla caratterizzazione di genere, poi, le situazioni si presentano piuttosto variegate. Da Romania, Albania e Marocco, ad esempio, giungono in Europa soprattutto uomini, mentre da Filippine, Ucraina, Moldavia il flusso è costituito prevalentemente da donne, che si impiegano prevalentemente nel campo della cura degli anziani.

In generale, quando i flussi migratori sono dettati da ragioni economiche, i migranti puntano ad una permanenza temporanea: accumulato un certo capitale (ciò che li spinge a risparmiare oltremodo sul denaro che riescono a guadagnare), cercheranno dunque di rientrare in patria. Si tratta di un fenomeno che anche gli italiani conoscono bene: nei decenni passati, molti nostri connazionali emigrati ad esempio in Germania e nel resto d’Europa, hanno scelto, magari alla conclusione della loro vita lavorativa, di rientrare in patria. In alcuni casi, invece, il trasferimento da temporaneo si trasforma in definitivo.

Migranti e rifugiati

Oltre a ragioni economiche, altre motivazioni possono spingere all’emigrazione: molti migranti sono, in realtà, profughi in fuga o persone espulse dal proprio paese d’origine per ragioni etniche, politiche o religiose. Basti pensare all’afflusso di Bosniaci, Kosovari, Macedoni, Iraniani, Irakeni, Afghani, Siriani, Libici ecc. Attualmente oltre un milione e mezzo di persone ha ottenuto il riconoscimento di rifugiato entro i confini di paesi dell’Unione europea (ma anche paesi non UE, come Norvegia e Svizzera, sono stati interessati dal fenomeno negli ultimi anni), un numero relativamente alto considerando che in tutto il mondo si stimano in circa 16 milioni i rifugiati politici.

Tra i Paesi dell’UE, il trend nella concessione del riconoscimento di rifugiati a richiedenti asilo ha subito un innalzamento negli ultimi anni: nel 2012, ad esempio, furono 116.200, 135.700 nel 2013 (oltre ¼ siriani, il 60% dei quali accolti in Germania e Svezia): in questo stesso 2013, il 70% dei richiedenti asilo in UE hanno visto accogliere la propria domanda da Svezia, Germania, Francia, Italia, Regno Unito.

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Migrazione e cittadinanza

Un problema connesso all’arrivo di migranti è quello relativo alla possibilità di concedere i diritti di cittadinanza. Se il trattato di Maastricht (1992) riconosce una cittadinanza europea a tutti i cittadini membri dell’UE, diverso è il discorso per quanti siano originari di altre parti d’Europa e del mondo.

Com’è noto, sono due i criteri fondamentali per attribuire una cittadinanza: lo ius sanguinis e lo ius soli. Se, ad esempio, in Francia vige lo ius soli per cui la cittadinanza è riconosciuta a tutti coloro che nascano nel suolo nazionale (compresi i territori d’oltremare), in Italia vale lo ius sanguinis, per cui l’acquisizione della cittadinanza deve passare attraverso altri percorsi regolati dalla legge. La tormentata vicenda della concessione della cittadinanza ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, che si siano formati nelle scuole italiane (il cosiddetto “ius soli temperato”), dimostra, tuttavia, quanto sia difficile affrontare oggi tali questioni.

Il problema della cittadinanza e dei diritti si innesta, negli ultimi dieci anni, nel problema della crisi economica che ha alimentato paure e tensioni, alle quali si aggiunge il timore che una crescita incontrollata delle comunità di stranieri possa di fatto snaturare la cultura autoctona.

Tuttavia, non possiamo non tenere conto del fatto che, se tra 1970 e 1990 il guadagno migratorio netto (ossia il rapporto tra emigranti ed immigrati) per il nostro continente si era attestato sui 9 milioni, tale guadagno è addirittura giunto a 28 milioni nel successivo ventennio. Sembra che la lunga fase (durata ben 500 anni) in cui l’Europa è stata esportatrice di risorse umane sia definitivamente chiusa. Oggi il vecchio continente è luogo di immigrazione. “L’Europa – scrivono Cavalli e Martinelli –, che lo si voglia o no, sarà una società multiculturale, multireligiosa, multinazionale”[4]: Deve imparare ad affrontare, anche dal punto di vista della legislazione, questa nuova situazione.

La storia demografica ci impone di riformulare abitudini, sistemi di convivenza, modi di leggere il mondo e i rapporti con gli altri, che – elaborati nel corso del mezzo millennio che è alle nostre spalle – oggi non funzionano più.

Focus didattici

1. Il problema generale della demografia e delle migrazioni

Per quanto riguarda le dinamiche demografiche generali, occorre tenere presente che è bene accompagnare la lettura e lo studio dei modelli (esposti nella parte precedente) con analisi e ragionamenti sui dati. La rete ne offre di vari genere. Abbiamo raccolto i più significativi.

Se volete dei suggerimenti per trattarli, anche con le tecnologie, li trovate su Novecento.org: https://www.novecento.org/didattica-in-classe/lavorare-con-i-dati-e-la-tecnologia-1410/. Nella stessa rivista, trovate due studi di caso, di Cesare Grazioli, sulle transizioni demografiche  https://www.novecento.org/dossier/mediterraneo-contemporaneo/le-transizioni-demografiche-nel-mondo-e-nel-mediterraneo/ e sulle migrazioni  https://www.novecento.org/dossier/mediterraneo-contemporaneo/gli-stereotipi-sulle-migrazioni/

Tutto dedicato al tema dell’integrazione, il testo Migrazioni e cittadinanza mondiale a scuola. Manuale per insegnanti di scuola secondaria, citato in bibliografia, offre numerose unità di apprendimento di “educazione alla cittadinanza” pronte all’uso. Infine, Historia Ludens ha pubblicato vari lavori “già pronti per l’uso”, e diversi materiali, che troverete sotto la voce: www.historialudens.it.

Dati demografici in rete:

Andamenti demografici in Europa (1950-2015)

Fonte: United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division (2015). https://esa.un.org/unpd/wpp/DataQuery/

Aspettativa di vita nei paesi dell’Europa. Uomini e donne (2006-2015)

Fonte: Eurostat, http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_mlexpec&lang=en

Aspettativa di vita nel mondo. Uomini (1950-2050)

Fonte: Nazioni Unite, dipartimento per gli affari economici e sociali, https://esa.un.org/unpd/wpp/Maps/

Aspettativa di vita nei paesi dell’Europa. Uomini (2006-2015)

Fonte: Eurostat, http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_mlexpec&lang=en

Aspettativa di vita nel mondo. Donne (1950-2050)

Fonte: Nazioni Unite, dipartimento per gli affari economici e sociali, https://esa.un.org/unpd/wpp/Maps/

Aspettativa di vita nei paesi dell’Europa. Donne (2006-2015)

Fonte: Eurostat, http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_mlexpec&lang=en

Tassi di natalità in Europa (2006-2015)

Fonte: Eurostat, http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_frate&lang=en

Nati vivi in Europa (2006-2015)

Fonte: Eurostat, http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_fmonth&lang=en

 Morti totali in Europa (2006-2015)

Fonte: Eurostat, http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=demo_magec&lang=en

 Tasso di fertilità nel mondo (1950-2020)

Fonte: Nazioni Unite, dipartimento per gli affari economici e sociali, https://esa.un.org/unpd/wpp/Maps/

Sitografia:

  • Ufficio statistico europeo: http://ec.europa.eu/eurostat/web/population-demography-migration-projections/ (si vedano anche le proiezioni statistiche per gli anni fino al 2081: http://ec.europa.eu/eurostat/web/population-demography-migration-projections/statistics-illustrated)
  • Istituto di statistica italiano: http://noi-italia.istat.it/, dal quale sono scaricabili le tavole statistiche relative all’Europa, con calcoli di variazione della popolazione nel decennio 2005-2015, per tutti i paesi dell’UE, Italia compresa
  • Il Centro studi sull’immigrazione di Verona rimanda a moltissimi altri siti e materiali per percorsi didattici nelle scuole: http://www.cestim.it/
  • Sito dell’Unione europea: rielaborazioni grafiche dei dati statistici 2015 sulla popolazione europea, sulla quota di popolazione europea sul totale mondiale, sul reddito pro-capite, sono scaricabili sotto forma di .pdf dal sito dell’Unione europea: https://europa.eu/european-union/documents-publications/slide-presentations_it

Mappe e mappe interattive

Bibliografia generale:

  • Pietro Basso, Fabio Perocco (a cura di), Immigrazione e trasformazione della società, Milano, Franco Angeli, 2000
  • Paola Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2003
  • Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2014
  • Massimo Livi Bacci, La popolazione nella storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 1988
  • Oecd, International Migration Outlook 2012, Paris 2012, consultabile in rete all’indirizzo https://books.google.it/books?id=VcjLIEtsLLcC&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false
  • United Nations, World Population Prospects. The 2012 Revision, New York 2013, consultabile all’indirizzo https://esa.un.org/unpd/wpp/Publications/Files/WPP2012_Volume-II-Demographic-Profiles.pdf
  • parlez-vous global, Migrazioni e cittadinanza mondiale a scuola Manuale per insegnanti di scuola secondaria scaricabile dal sito del Cestim: http://www.cestim.it/sezioni/materiali_didattici/2014-12-parlezvousglobal-Migrazioni-cittadinanza-mondiale-manuale-insegnanti-scuola-sec.pdf

Bibliografia sull’Italia

  • Centro studi e ricerche idos, Immigrazione 2017: dossier statistico, Roma, Centro Studi e ricerche Idos, 2017
  • fondazione leone moressa, Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione. Edizione 2016. L’impatto fiscale dell’immigrazione, Bologna, Il Mulino, 2016
  • fondazione ismu, Ventiduesimo rapporto sulle migrazioni 2016, Milano, Franco Angeli, 2017
  • e i due numeri della rivista Limes dedicati a questa tematica:
  • Il mondo in casa, “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, n. 4/2007
  • Chi bussa alla nostra porta, “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, n. 6/2015
2. Le migrazioni italiane transoceaniche

Trattate spesso anche nei manuali scolastici, sono disponibili numerosi studi (classici i volumi di Emilio Franzina e, con piglio giornalistico-divulgativo, ma molto documentato, quelli di Gian Antonio Stella). Su questo aspetto è stato pubblicato anche il laboratorio didattico di Grazia Martinelli e Marisa Spallanzani, Sulla scia dei bastimenti. Emigrazione italiana fra Ottocento e Novecento, in Novecento.org, n. 3, 2014, https://www.novecento.org/didattica-in-classe/sulla-scia-dei-bastimenti-emigrazione-italiana-fra-ottocento-e-novecento-881/.

Per chi voglia problematizzare la tematica in chiave controversiale, si può stabilire un parallelismo fra le migrazioni di ieri e di oggi, confrontando la situazione degli emigranti italiani nel passato con quella dei migranti che approdano ora nel nostro paese.

Attuano un confronto diretto, per esempio:

Negano la possibilità di confrontare i due fenomeni:

Poiché il confronto si basa spesso su fonti iconografiche, può essere utile la lettura di:

  • Paola Corti, Emigranti e immigrati nelle rappresentazioni di fotografi e fotogiornalisti, in I Quaderni del Museo dell’Emigrazione, n. 11, Foligno 2010.

Chi volesse, infine, confrontare la comunicazione a mezzo stampa, può attingere, per la parte della migrazione transoceanica italiana, alla bella appendice che Gian Antonio Stella ha dedicato a questo aspetto nel suo libro L’orda: quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002, appendice 1, pp. 263-285, con quanto va pubblicando ora la stampa italiana (si veda al successivo punto 5).

Biliografia:

  • Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., Roma, Donzelli, 2001-2002
  • Emilio Franzina, Gli Italiani al nuovo mondo: l’emigrazione in America 1492-1942, Milano, Mondadori, 1995
  • Gian Antonio Stella, L’orda: quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002

Sitografia:

  • Diversi i musei dedicati in Italia al tema dell’emigrazione; oltre al museo nazionale di Roma, si possono visitare i siti di:
  • Genova: http://www.memoriaemigrazioni.it/
  • Lucca: http://www.museoemigrazioneitaliana.org/
  • Gualdo Tadino: http://www.emigrazione.it/
  • San Marino: http://www.museoemigrante.sm/on-line/home.html
  • Visionabile online anche la mostra di ada lonni, Macaroni e vu’ cumpra’: l’Italia degli emigranti e l’Italia degli immigrati, Milano, Teti, 1994: http://www.calendariodelpopolo.it/Macaroni-e-Vu-cumpra-emigrazione-e#.WiW5ajfSLIU

Film:

A proposito di rovesciamenti di punti di vista, ancorché in lingua francese, è assolutamente da vedere il film di Sylvestre Amoussou “Africa Paradis” (2006), vincitore nel 2007 del Festival del Cinema Africano, che immagina un futuro  in cui sono i cittadini di un’Europa in decadenza economica a cercare di emigrare illegalmente in un’Africa in pieno sviluppo; su youtube visibili i trailer (sufficienti ad avviare la discussione in classe), ma anche la versione integrale del film: https://www.youtube.com/watch?v=ZMZtMZ8qMIk

3. Migrazioni italiane in Europa

Sono migrazioni tanto di breve, quanto di lungo periodo. Appartengono alla prima categoria le migrazioni stagionali transfrontaliere nelle regioni alpine. Per quanto riguarda le migrazioni di lungo periodo, può essere interessante, per ragazzi nati nell’Europa della libera circolazione delle persone, scoprire quanto a lungo, nel nostro continente, siano stati strettamente controllati gli spostamenti di lavoratori all’interno dei paesi europei e come questi spostamenti fossero oggetto di attente contrattazioni bilaterali fra gli Stati.

La fine della libera circolazione

Se fino alla Prima guerra mondiale non si segnalano particolari problemi di controllo degli spostamenti dei migranti, soprattutto se provenienti dal continente europeo, la Grande Guerra segna la fine della libertà di movimento. Il dirigismo statalista, che investe tutti gli ambiti della vita nazionale, impone il controllo della forza lavoro e dei suoi spostamenti.

Nel 1915 in Italia viene introdotto l’obbligo del passaporto per espatriare a scopo di lavoro e ne viene subordinato il rilascio al nulla osta del Commissariato generale dell’emigrazione. Quest’ultimo, che ha facoltà di richiedere l’esibizione dei contratti di lavoro e di accordarsi direttamente con imprese straniere o organi esteri a carattere nazionale, ottiene praticamente il controllo dell’emigrazione. Si chiude allora il capitolo della (tendenziale) libera circolazione e si apre quello dell’attenta pianificazione dei flussi in ingresso da parte dei paesi di immigrazione e degli accordi bilaterali con i paesi di emigrazione, con conseguenze di vasta portata sulla natura delle migrazioni internazionali.

Le migrazioni clandestine e gli accordi bilaterali

Nel nuovo e difficile contesto politico, economico e sociale, i paesi importatori di manodopera pongono sempre più attenzione ai volumi di ingresso, all’idoneità degli immigrati (politica, sanitaria, professionale e finanche etnica) e in Europa anche alla durata dell’immigrazione. Con la chiusura delle frontiere e la pianificazione dei flussi ha inizio peraltro anche un fenomeno nuovo, quello delle migrazioni clandestine, talvolta tollerate se non addirittura incentivate dai paesi di immigrazione per tagliare fuori i paesi di emigrazione da ogni possibilità di gestione degli espatri.

Il processo di crescente pianificazione dei movimenti migratori conosce il suo apice verso la fine degli anni Trenta, in occasione della firma di un accordo di emigrazione italo-tedesco, (l’“Accordo italo-germanico relativo all’arruolamento, al collocamento e all’impiego di lavoratori agricoli stagionali italiani” del 28 luglio 1937), che diverrà prototipo per analoghi accordi bilaterali che verranno firmati fra paesi “esportatori” e “importatori” di manodopera anche nel secondo dopoguerra.

Le migrazioni nel dopoguerra

Già nel corso del 1946 l’Italia stipula accordi di cooperazione migratoria con la Francia, il Belgio, la Svizzera e la Gran Bretagna, in parte rivisti o sistematizzati successivamente. Trattati di emigrazione vengono firmati negli anni immediatamente successivi anche con l’Olanda, la Svezia, la Cecoslovacchia e il Lussemburgo e con stati extraeuropei come l’Argentina e il Brasile. Nel 1955 viene siglato l’ultimo di questi accordi con la Germania federale.

Queste esperienze pianificatorie presentano molti elementi comuni: programmazione dei contingenti migratori da parte del paese importatore di manodopera; l’organizzazione statale e congiunta degli espatri; la partecipazione di funzionari del paese di immigrazione alle selezioni nei luoghi di partenza; l’emigrazione come fattore di scambio; la tendenziale inferiorità del paese di emigrazione nelle trattative bilaterali; il collocamento effettuato in base alle esigenze del paese di immigrazione e non alla libera scelta degli emigranti; gli ostacoli alla mobilità spaziale e professionale degli emigranti una volta giunti a destinazione; il legame contratto-emigrazione; il trattamento salariale e assicurativo paritario rispetto agli autoctoni; l’esclusione di persone inattive dall’emigrazione. Nell’evidente intento di sottolineare gli aspetti positivi dell’irreggimentazione degli espatri, vale a dire il ruolo di accompagnamento e tutela assunto dallo Stato, i governi democratici postbellici ribattezzano questo fenomeno “emigrazione assistita”.

Torna la libera circolazione

L’approdo ad una libera circolazione di lavoratori si affaccia timidamente con l’istituzione della Ceca nell’aprile del 1951, ma riguarda solo il settore carbo-siderurgico ed unicamente i lavoratori qualificati. Nel 1953 la libera circolazione si estende anche ad altri settori – sebbene l’impiego debba essere dato sempre, prioritariamente, a “lavoratori nazionali” – e solo con l’istituzione del Mercato Comune Europeo (Mec), nel 1957, se ne sancisce definitivamente la legittimità. Se ne stabilisce tuttavia anche, contestualmente, il raggiungimento posticipato e per tappe, che verranno effettivamente attuate fra il 1961 ed il 1968.

L’accordo di Schengen del 1985 ha progressivamente condotto all’istituzione di un’area di libera circolazione di tutti i cittadini europei all’interno dei confini dei paesi aderenti. La caduta delle frontiere interne ha tuttavia prodotto, per corollario, il rafforzamento delle frontiere esterne dello spazio Schengen. Gli Stati membri che si trovano ai suoi confini hanno la responsabilità di organizzare controlli rigorosi alle frontiere e assegnare all’occorrenza visti di breve durata alle persone che vi fanno ingresso. Esattamente il compito che sta ora creando enormi difficoltà all’Italia, principale frontiera esterna meridionale.

Documenti:

Accordi bilaterali fra Italia e altri paesi europei nel secondo dopoguerra

Fonte: Elia Morandi, Governare l’emigrazione, Lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino, Rosenberg&Sellier, 2011 pp. 49-55

Trattato italo-belga del 1946

Fonte: Camera de Deputati, http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/ddl/42nc.pdf

Bibliografia:

  • Pier Paolo Viazzo, La mobilità nelle frontiere alpine, in  paola corti, matteo sanfilippo (a cura di), Migrazioni, Annali della Storia d’Italia n. 24, Einuadi  2009, pp. 91-105.
  • Elia Morandi, Governare l’emigrazione. Lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino, Rosenberg&Sellier, 2011 (riporta anche i dati dell’emigrazione di lavoratori italiani verso gli altri paesi europei fra il 1945 e il 1976)

Sitografia:

Hanno sezioni dedicate all’emigrazione verso i Paesi europei alcuni dei musei dell’emigrazione già citati al punto precedente

4. Le migrazioni forzate nella storia europea contemporanea

Questo argomento è molto meno conosciuto rispetto al precedente. La storiografia ha iniziato solo di recente ad occuparsi delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso del Novecento, sono state costrette a trasferirsi, per effetto di eventi bellici o ridefinizioni di confini, all’interno dell’Europa.

A dare il via ai primi esodi forzati è stata la progressiva estensione degli Stati nazionali sulle rovine dei grandi imperi ottocenteschi. Già con le guerre balcaniche, la definizione di nuovi Stati-nazione implica lo spostamento indotto di centinaia di migliaia di persone, ma il fenomeno esplode con la Prima guerra mondiale: l’invasione del Belgio da parte della Germania induce 1.400.000 persone ad abbandonare il paese, Nel corso dell’intero conflitto, poi, lo spostamento dei fronti provoca lo sradicamento violento di milioni di civili.

Né il fenomeno si arresta con la fine della guerra. I trattati di pace e la costituzione di nuovi Stati-nazione producono nuovi spostamenti: lo “scambio” fra musulmani della Grecia e i greci residenti in Turchia, la fuga dei tedeschi che abbandonano i territori orientali persi, ma prima ancora il genocidio armeno e la guerra civile in Russia, danno luogo a schiere imponenti di profughi. Si stima che verso la metà degli anni Venti fossero almeno 9 milioni e mezzo le persone vittime di trasferimenti forzati.

La Seconda guerra mondiale

Più tardi, le persecuzioni razziali e politiche inducono oltre 300.000 ebrei ad abbandonare la Germania e mezzo milione di spagnoli la Spagna franchista post guerra civile. Durante la Seconda guerra mondiale il numero totale di persone deportate, evacuate e costrette ad abbandonare il proprio paese raggiunge la cifra di quasi 50 milioni, pari al 10% dell’intera popolazione europea: ai 40,5 milioni di civili vanno infatti aggiunti gli 8,5 milioni di “lavoratori forzati” nella Germania nazista. Un fenomeno imponente, che finisce con l’avere un effetto psicologico profondo.

Finita la guerra, l’Europa devastata è attraversata in tutte le direzioni da milioni di profughi in cerca di un ritorno a casa o costretti a spostarsi sulla base delle politiche di omogeneizzazione etnico-nazionale seguite al ridisegnarsi della carta geopolitica europea. “Il programma pan-europeo di espulsioni etniche che si sarebbero compiute dopo la guerra fu reso possibile solo perché il concetto di comunità stabili, immutate per generazioni, era stato distrutto una volta per tutte. La popolazione d’Europa non era più una costante fissa. Ora essa era instabile, volatile: passeggera” (cit. da Lowe, p. 36).

Su questa tematica è possibile inserire in classe riferimenti:

  • all’esodo istriano-dalmata (letto nel contesto più ampio accennato sopra);
  • alle guerre nell’ex Jugoslavia, col riproporsi dei modelli di omogeneità etnico-territoriale ancora a chiusura del secolo scorso.

Documenti:

Il secolo dei “rifugiati” (brano storiografico)

Fonte: Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 9-11

Il caso esemplare di Georg Ratkovsy, di incerta nazionalità al termine della seconda guerra mondiale

Fonte: Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Il Mulino 2008, pp. 23-24

Carta geografica dei cambiamenti territoriali in Europa dopo la seconda guerra mondiale

Fonte: Keith Lowe, L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Laterza 2013, p. XIV

Carta geografica degli spostamenti forzati di popolazione (1944-1956)

Fonte: Guido Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli 2008, p. X

Bibliografia:

  • Guido Crainz, Raoul Pupo, Silvia Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Roma, Donzelli, 2008
  • Keith Lowe, L’Europa alla fine della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013
  • Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008

Film:

  • Steven Spielberg The Terminal (2004), incentrato sul tema delle cosiddette “displaced persons”
5. Le migrazioni nel racconto pubblico

Un altro percorso interessante può essere l’analisi della trattazione del tema delle migrazioni da parte della stampa. Suggeriamo due possibili declinazioni del percorso:

  • l’utilizzo in classe del dossier compilato dall’Associazione Lunaria, che ha analizzato tutta la stampa italiana, anche locale, del 2016 con riferimento al problema dell’accoglienza; nell’allegato al dossier sono citati tutti i singoli articoli analizzati, con rimandi alle fonti (sono fra i documenti allegati);
  • un’analisi puntuale del lessico utilizzato nel racconto delle attuali migrazioni; in particolare, potrebbe essere interessante confrontare la descrizione dei migranti volontari che in questo periodo lasciano l’Italia per raggiungere gli altri paesi europei o gli Stati Uniti – soprattutto i giovani, descritti generalmente come “cervelli in fuga”, come ci spiega Lorena Gazzotti nel saggio posto fra i documenti allegati –, con le modalità con cui la stampa tratta invece l’argomento “immigrati” nel nostro Paese, anche quando di “cervelli in fuga” si tratta (si vedano Khalid Koser, ma anche il caso del medico siriano che ha visto annegare in mare la propria famiglia, riportato sulle pagine di Repubblica del 12 maggio 2017). Sui giovani “stranieri” in raffronto ai coetanei italiani, interessanti le conclusioni dell’indagine sociologica Itagen2, condotta da Gianpiero Dalla Zuanna dell’Università di Padova (in allegato, fra i documenti, il link per reperirne la sintesi);
  • un’analisi del recente dibattito sulla modifica relativa all’acquisizione del diritto di cittadinanza in corso di approvazione in Parlamento (in allegato, fra i documenti, la rassegna stampa della prime pagine del 16 giugno 2017 di alcuni fra i principali quotidiani nazionali)

 

Documenti:

Dossier di Lunaria: raccolta e commento di articoli apparsi sulla stampa, anche di carattere locale, nel 2016 e relativa appendice

Fonte: Lunaria, Accoglienza. La propaganda e le proteste del rifiuto, le scelte istituzionali sbagliate http://www.lunaria.org/wp-content/uploads/2017/03/0FOCUS1_DEFINITIVO_13marzo.pdf

La fuga dei cervelli (“brain drain”)

Fonte: Khalid Koser, Le migrazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 65-67

Raccontare le nuove migrazioni

Fonte: Lorena Gazzotti, Raccontare le nuove migrazioni. Le mobilità italiane del XXI secolo nella stampa nazionale: il caso di Repubblica, in Alberto Sorbini (a cura di), Racconti dal mondo. Narrazioni, memorie e saggi delle migrazioni, Foligno, Editoriale Umbra 2017, pp. 348-361

Il medico del naufragio: “Così l’Italia ha lasciato annegare i miei bambini”

Fonte: La Repubblica, http://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/12/news/migranti_il_medico_del_naufragio_cosi_l_italia_ha_lasciato_annegare_i_miei_bambini-165222594/

Insieme. Scuola, famiglie, integrazione. L’immigrazione mette radici. Sintesi dell’intervento di Gianpiero Dalla Zuanna

Fonte: Miur, http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/e998ebab-01f3-4d44-b53f-61892964bc5e/dalla_zuanna.pdf

Rassegna stampa dei quotidiani del 16 giugno 2017: dopo l’inizio del dibattito in Senato per l’approvazione della proposta di legge n. 2092 sul diritto di cittadinanza

Fonte: La Repubblica, la stampa, corriere della sera, il giornale, libero, la verità, avvenire

Bibliografia:

6. Cittadinanza e migrazione

Un ultimo suggerimento didattico riguarda proprio l’approfondimento del tema delle modalità di acquisizione del diritto di cittadinanza. Può apparire banale, ma è la disciplina relativa alla cittadinanza che determina la quota di “stranieri” presenti nel paese. La Svizzera, per esempio, che ha una disciplina molto restrittiva, conta qualcosa come il 24,2% di popolazione straniera (che non gode della cittadinanza svizzera).

Lo straniero (ovvero il residente che ha cittadinanza straniera, anche se nato nel Paese di residenza) è diverso dall’immigrato, ovvero il residente nato all’estero con cittadinanza straniera, anche se successivamente ha acquisito la cittadinanza del paese di residenza.

Le due fattispecie giuridiche di base che regolano l’acquisizione della cittadinanza sono lo ius soli e lo ius sanguinis. Ma i percorsi di acquisizione della cittadinanza nei diversi paesi europei sono molto più differenziati e ricchi di sfumature di quanto le fattispecie di base lascino pensare.  Considerato che una volta acquisita la cittadinanza del paese di residenza, un immigrato o un figlio di immigrati diviene, a tutti gli effetti, anche cittadino europeo, molti dei problemi che stanno sorgendo in Europa in questi ultimi tempi dipendono proprio da questa variabilità legislativa.

Utile, dunque, un confronto fra le diverse legislazioni – almeno nei principali paesi europei – e un approfondimento del disegno di legge alla discussione nella legislatura che sta ora volgendo al termine.

Un quadro dettagliatissimo sulla legislazione relativa alla cittadinanza non solo nei paesi UE, ma a livello mondiale, è ricavabile esplorando il sito dell’European Union Democracy Observatory on Citizenship (http://eudo-citizenship.eu/). Vi si trova, in “country profiles”, la situazione legislativa di ogni Stato. Il sito è, tuttavia, solo in inglese.

Di maggior fruibilità la pagina web del governo italiano, “Unione europea e quadro comparato” (al link: http://www.integrazionemigranti.gov.it/Attualita/Approfondimenti/approfondimento/Pagine/Partecipazione%20e%20Cittadinanza/Unione%20Europea%20par.aspx

La proposta di legge in discussione nella legislatura ora in scadenza ed i dossier di approfondimento della tematica sono consultabili sui siti istituzionali del Parlamento (per es.: http://www.camera.it/leg17/465?tema=integrazione_cittadinanza)

Per una trattazione più agevole, possono essere utili anche le sintesi che la stampa italiana ha pubblicato a commento della discussione parlamentare sul disegno di legge riguardante la modifica delle norme sull’acquisizione della cittadinanza italiana (si vedano gli esempi del Corriere della sera e di Repubblica fra i documenti allegati)

Documenti: dove non cì+ il riferimento internet, riportare il testo (dove c’è il link ho tolto i numeri, sono numerati solo i documenti da allegare dalla cartella)

Disegno di legge n. 2092

Fonte: sito del Senato della Repubblica: http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00940816.pdf

L’acquisizione della cittadinanza in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna

Fonte: sito della Camera dei Deputati: http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/MLC17004.htm

Cittadinanza. Nota sull’A.S. 2092 trasmesso dalla Camera dei deputati

Fonte: sito del Senato della Repubblica: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/941909/index.html

Corriere della Sera, Ecco La proposta sui nuovi italiani

Fonte: Corriere della sera, 16 giugno 2017, p. 3

La Repubblica, Scheda di legislazioni comparate

Fonte: la Repubblica, 21 giugno 2017, p. 4


Note:

[1] Charles Darwin, L’origine dell’uomo, Roma 1983.

[2] Si veda anche Peter N. Stears, Atlante delle culture in movimento, edizione italiana a cura di Carlo Fumian e Giovanni Gozzini, Milano, Bruno Mondadori, 2005

[3] Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 8

[4] A. Cavalli, A. Martinelli, La società europea, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 193.

Dati articolo

Autore: and
Titolo: Andamenti demografici e fenomeni migratori nell’Europa contemporanea. Sintesi storica e focus didattici
DOI: 10.12977/nov228
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.9, febbraio 2018
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
and , Andamenti demografici e fenomeni migratori nell’Europa contemporanea. Sintesi storica e focus didattici, in Novecento.org, n. 9, febbraio 2018. DOI: 10.12977/nov228

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