Come si costruisce l’Europa nella storia globale del Novecento?
Prima parte
Successo relativo e successo mancato
Il percorso di costruzione dell’Europa è stato dinamico, frammentato, contradditorio, assolutamente non lineare, con una serie continua di rotture, di ricostruzioni, di tensioni all’interno tra i singoli stati, o tra le varie aree regionali. Oggi, nel mondo della scuola, tutti gli studenti – e anche alcuni insegnanti, quelli più giovani – sono nati negli anni ’90 o dopo, in un’Europa caratterizzata dal fatto di essere unita, democratica e con più o meno gravi contraddizioni illiberali (v. Tommaso Detti, Perché l’Europa? Ascesa e declino del primato europeo tra Otto e Novecento). Il successo dell’unione economica è relativo, iniziale, accompagnato poi da una serie di limiti; non è stato accompagnato da un analogo successo politico, anche se l’ampliamento dell’Europa è un dato che comunque rimane, con tutto il lascito pesante o negativo che ha avuto. Negli ultimi tempi sono usciti dati secondo cui la maggiore comunità non italiana che vive nel nostro paese è la comunità romena, cioè una comunità oggi pienamente europea da tutti i punti di vista. Se però guardiamo al modo in cui i media trattano la Romania, vediamo che i romeni sono considerati spesso alla stregua dei magrebini o dei pachistani. Questo vuol dire che in realtà il processo di unificazione politica, essendo rimasto a un livello così primitivo, ha lasciato una serie di strascichi molto forti.
Usare il romanzo per ricostruire la storia dell’Europa?
Potremmo fare la storia dell’Europa nel Novecento seguendo la storia dei mutamenti dei confini. E’ qualcosa che noi troviamo spesso nella letteratura, nella grande letteratura che insegna e parla di storia. Forse nella prossima Summer School sarebbe interessante parlare della letteratura che, a volte, insegna la storia meglio dei libri di storia. Io penso che per raccontare la complessità di quel mondo orientale – la cui espansione Tommaso Detti ci ha raccontato – forse più di tanti libri noiosi sul mondo orientale si potrebbero leggere due o tre romanzi di Amitav Ghosh e avere di conseguenza una visione di che cosa ha significato l’eredità, l’incrocio, l’intreccio con l’Occidente. Parlo di Il fiume dell’oppio, Mare di papaveri e Diluvio di fuoco, tutti editi in Italia da Neri Pozza.
La precarietà dei confini nel Novecento
Nel 1900, per dare qualche semplicissimo riferimento geografico, Varsavia era una città russa, Trieste era una città austriaca, Salonicco era una città ottomana, Dublino era una città britannica, Algeri era una città francese e Dar es Salaam era una città tedesca. Dopo 50 anni il mondo era completamente cambiato, anche se in quel Novecento sembrava che la pace fosse stata finalmente raggiunta e non ci sarebbe stata più, o quasi, alcuna guerra.
La prima grande trasformazione: il primo dopoguerra
Dopo la prima guerra mondiale c’è stata la prima grande trasformazione dei confini, per il crollo dei tre grandi imperi, russo, ottomano e austroungarico, per la nascita di quei nuovi stati-nazione che hanno frammentato, ma anche in parte riunificato l’Europa. In quel momento nasce e si impone il mito dello stato-nazione omogeneo, che deve essere tale per poter essere anche forte, autorevole e governabile; contemporaneamente sorge la questione più rilevante che continuamente viene messa in discussione nel dibattito del diritto internazionale tra le due guerre, alla ricerca di soluzioni: quella delle minoranze. L’affermazione degli stati-nazione lascia quindi irrisolto un tema che poi avrà delle eredità diverse, ancora in qualche modo attualissime. Tra il ’38 e il ’40-42 l’Europa è stata sostanzialmente nazista: un cambiamento che dura pochi anni e che noi spesso dimentichiamo, che fu la riproposizione di una forma imperiale, diversa dai precedenti imperi tramontati e finiti, che fortunatamente è stata poi sconfitta, ma che costituisce il discorso attorno a cui il nazismo trova in Germania un motivo della sua forza e del suo consenso.
Il secondo dopoguerra: le migrazioni forzate
Dopo la seconda guerra mondiale, proprio a causa della sconfitta di quel progetto imperiale nazista, ci sono nuovi confini accompagnati da mutamenti territoriali estremamente forti, di cui nei libri di testo di scuola si parla pochissimo, che riguardano la popolazione della Polonia, della Germania, della Russia, dei paesi baltici, dove si registra un movimento incredibile di milioni di cittadini costretti o a scegliere di andarsene dai luoghi dove erano nati e cresciuti o ad accettare delle soluzioni di vita che non erano probabilmente quelle che speravano nel corso di una guerra che si pensava liberasse tutta quanta l’Europa. Fenomeno che, per quello che riguarda l’Italia, si concentra nell’Istria e nelle zone del nostro confine orientale. Non si può dimenticare che la fine della guerra comporta una riorganizzazione territoriale dell’Europa che per metà avviene portando o riportando regimi illiberali, mentre l’altra metà ritrova invece la democrazia. La divisione dell’Europa è stata vista quasi sempre sotto la prospettiva della guerra fredda, cioè del conflitto tra le due super potenze e dei rispettivi campi d’influenza che si contrappongono. La storia dei singoli paesi e delle singole popolazioni, per esempio, nei paesi dell’Europa orientale, quelle che avevano soprattutto una tradizione democratica o liberale precedente abbastanza radicata, è qualcosa che noi siamo riusciti a conoscere in minima parte attraverso le testimonianze dopo la fine del comunismo. Era un mondo che prima era visto in un modo compatto, omogeneo dietro i propri governi ma che non sembrava avere una propria vita autonoma.
L’Europa si unisce, l’Europa si divide: un’incredibile coesistenza
Questo tema della divisione dell’Europa, che viene semplificata nel 1961 con la costruzione del muro di Berlino, che durerà fino all’89, credo sia uno dei temi che meglio consentono di vedere nel tempo presente, cioè nel periodo almeno dalla fine della guerra in poi, che cosa ha significato l’Europa. A vedere cioè l’esistenza di un controcanto al percorso che noi in genere conosciamo, cioè la creazione della Comunità Europea Carbone Acciaio nel ’52, la Cee dei primi 6 paesi fondatori, l’allargamento quasi alla fine del periodo dei 30 anni gloriosi, nel ’72, quando entrano Inghilterra, Irlanda e Danimarca, ancora poi negli anni ’80 quando entrano le ex dittature europee, Grecia, Spagna e Portogallo e infine, dopo il 1989, la lunga serie di ingressi che porterà a 28 il numero dei paesi, ultima la Croazia nel 2013.
Gli stati aderenti all’Unione europea nel 2017. Di Alexrk2 – Natural Earth 1:50m (http://www.naturalearthdata.com), CC BY-SA 3.0, Link
Quattro temi per seguire le vicende europee del Novecento
Tralasciando i temi economici, ampiamente trattati altrove (v. Tommaso Detti, Perché l’Europa? Ascesa e declino del primato europeo tra Otto e Novecento), ve ne sono altri quattro che possono costituire i filoni principali attraverso cui seguire le vicende europee per tutto l’arco del 900 e attraversarlo completamente.
- Un tema è quello della guerra. In genere si sostiene che in Europa ci fu la guerra nella prima metà del secolo, mentre nella seconda metà del secolo ci fu nel cosiddetto Terzo mondo; però nella seconda metà del secolo ci fu la guerra fredda che perlomeno nominalmente richiama il concetto di un conflitto continuo che per il carattere globale si svolge spesso fuori dal nostro continente, ma in cui l’Europa è fortemente coinvolta.
- Un altro è il tema degli imperi. Benché sembri dopo la fine della prima guerra mondiale che gli imperi spariscano dall’Europa, in realtà c’è una continuità di costruzione di imperi sotto forme diverse. Si va dall’impero nazista a quello staliniano, che da un punto di vista territoriale riesce ad ampliare i confini dell’impero zarista, all’affermazione di una visione imperiale sotto il profilo culturale e di egemonia psicologica, che accompagna il modo in cui l’Europa affronta la grande esperienza della decolonizzazione, che costituisce certamente uno dei principali eventi della storia del ‘900.
- Il terzo tema è quello della democrazia. La definizione è troppo ampia, difficile ed anche dispersiva, deve essere declinata attraverso la riflessione sulle costituzioni e i diritti. E questo è un modo per cercare di fare i conti con quel rapporto, quella identificazione di regimi democratici in base a cui, come ricordava Tommaso Detti, per alcune tipologie che vengono stabilite a priori dagli studiosi, ce n’erano una decina all’inizio del secolo e invece oltre 100, quasi 130-150 alla fine del secolo. Analizzare le costituzioni e i diritti permette di entrare dentro il rapporto delle influenze internazionali che ne derivano, così come nelle eredità che rimangono, pensiamo alla grande questione dei diritti sociali e economici. Mi è capitato recentemente di ascoltare dei personaggi di rilievo della inteligencja pubblica dire che il “welfare state” noi tutto sommato lo dobbiamo allo stalinismo, perché è da lì che l’abbiamo imparato e tratto.
- Ultimo tema è quello delle ideologie. Questa stagione in cui si parla di fine delle ideologie, ma nella quale in realtà tornano ad intrecciarsi ideologie di stampo nazionalista che si definiscono sovraniste viene dopo un secolo caratterizzato da ideologie che hanno avuto una grande forza di attrazione, spesso malefica, nei confronti delle masse. L’ingresso delle masse nella storia, fin dall’inizio del secolo, ha messo in evidenza i limiti di un liberalismo storico che era strutturalmente inadeguato per pensare al coinvolgimento dell’intera società. Riprendere i temi delle ideologie è utile anche per comprendere come difficilmente la democrazia sia stata un’ideologia capace di entusiasmare e di mobilitare, se non quando veniva conculcata e quindi solo nelle guerre e nella battaglia per recuperarla. Ma, una volta recuperata, di nuovo non riesce a stimolare quella partecipazione che invece è la sua essenza: credo che questo possa costituire un tema forte su cui discutere.
Seconda parte
La storia del tempo presente
Confrontandosi e discutendo con i docenti, emerge distintamente come sia estremamente difficile parlare dell’Europa in modo chiaro, coerente e senza contraddizioni, perché da una parte la storia dell’Europa è la storia che ha sempre avuto funzione di contorno e di riferimento al nostro insegnamento, anche in versione a scala più ridotta quando era collocato sul versante italiano o a scala più ampia sul versante mondiale. Ma soprattutto perché una grossa spinta adesso viene dalle domande che pongono gli studenti, che riguardano molto il tempo presente. È una situazione in cui viviamo una trasformazione profonda della storia, una cesura abbastanza netta che ha aperto una fase nuova, sia pure per certi aspetti ricollegandosi addirittura a prima della rivoluzione industriale o alla fase comunque iniziale di essa. Certamente la difficoltà di raccontare la storia del ‘900 in modo estremamente utile a rispondere alle domande sul presente è qualcosa che è sotto gli occhi di tutti. Non di meno le domande che si fanno oggi sono domande che ci devono orientare a cercare di capire come raccontare il ‘900 e l’Europa del ‘900 in un modo che sia al tempo stesso interessante e quindi possa avvincere chi ci ascolta, ma anche trasmettergli informazioni, conoscenze utili per l’elaborazione che ogni giovane della scuola fa sul mondo che lo circonda.
Un mutamento senza conflitto
I grandi cambiamenti che ci sono stati nella storia europea sono stati a seguito delle due guerre mondiali, mentre il cambiamento che viviamo adesso, iniziato da un punto di vista politico nell’89-’91, cioè con la fine del mondo comunista, è invece una trasformazione che non ha un legame con un conflitto esplicito, avviene nella pace, avviene senza violenza quasi dappertutto e avviene però anche con delle diversità importanti rispetto ai risultati della prima e della seconda guerra mondiale. Intanto i risultati della prima e della seconda guerra mondiale erano caratterizzati da due aspetti forti.
Il dopoguerra: un mondo frutto delle regole dei vincitori
Innanzitutto furono i vincitori a stabilire le regole, o almeno certe regole fondamentali, quelle della divisione territoriale dei nuovi stati che avevano diritto a essere chiamati tali, mentre ad altri tale diritto non fu riconosciuto. All’avvio della Conferenza di Parigi, si dava per certo che sarebbero stati riconosciuti come stati il Kurdistan e l’Armenia, due realtà che hanno continuato nel tempo a costituire un problema. Alla fine della conferenza di pace di questi due stati non si è più parlato per motivi che si possono sommariamente ricordare e cioè che a un certo punto la situazione militare internazionale nella zona in cui si trovavano cambiò e le potenze vincitrici non vollero rimettersi nuovamente in guerra per fare rispettare i desideri delle popolazioni curde e armene, accettando come un fatto compiuto l’estensione territoriale della repubblica turca.
L’importanza delle istituzioni sovranazionali: Società delle nazioni e ONU
In secondo luogo ci fu la nascita di istituzioni sovranazionali, la Società delle nazioni nel primo dopoguerra e le Nazioni unite nel secondo. Le scelte del primo dopoguerra, benché qualcuno già all’epoca mettesse in guardia, furono scelte sciagurate che avrebbero favorito l’avvento di fascismi e regimi autoritari in Europa. Come ricordò in modo estremamente chiaro Keynes, del tutto inascoltato, le conseguenze della vendetta economica nei confronti della Germania sarebbe stata poi pagata dall’intera Europa e questo accadde con la vittoria del nazismo, che certo non ci sarebbe stata se contemporaneamente non ci fosse stata anche la crisi del ’29 con gli effetti di disoccupazione di massa che comportò, però certamente la volontà di ricostruire una identità nazionale tedesca che si sentiva calpestata e umiliata fu un elemento estremamente importante.
La grande trasformazione del ‘46: il ritorno delle democrazie
Nel secondo dopoguerra, in gran parte, non dappertutto, o meglio dappertutto ma in tempi diversi, sono i meccanismi democratici che favoriscono la trasformazione. Nell’Europa occidentale è la rinascita di regimi di tipo liberale più o meno avanzato che riporta la democrazia, riporta una vita comune opposta a quella dei regimi fascisti autoritari che avevano dominato nel decennio precedente e gli stessi meccanismi democratici sono quelli che favoriscono nell’89, accanto a motivazioni già presenti, la fine del comunismo. La grande trasformazione politica che avviene in Europa nel secondo dopoguerra è, sia pure in tappe diverse, segnata dal prevalere di istanze democratiche.
Il patto di Varsavia: eccezione e contraddizione?
C’è una contraddizione di fondo che non si può ignorare, cioè che per 40 anni circa metà dell’Europa vive sotto governi illiberali totalitari e questo per una parte dell’Europa libera non costituisce un problema perché, come sappiamo, nel corso della guerra fredda ci sono paesi dove la presenza dei partiti comunisti è talmente forte che una parte considerevole delle società occidentali europee si schierano, con il cuore sicuramente, e in gran parte per lungo tempo anche con la mente e con la ragione, con quel mondo illiberale che rappresenta il modello che avrebbero voluto raggiungere. La realtà è piuttosto complessa, perché lo stesso mondo comunista con la morte di Stalin nel ’53 cambia, e nello stesso tempo questo non significa che i partiti comunisti non siano stati fra gli artefici, in alcune situazioni fondamentali ed anche con ruolo egemone, di quella battaglia per la libertà o per la riconquista della libertà che avviene con la seconda guerra mondiale e con la Resistenza.
L’Europa unita: una “visione” minoritaria in un mondo diviso
Vedere questo tipo di contraddizione ci permette di capire come l’idea di Europa, alla fine della seconda guerra mondiale, sia nella mente di poche persone. È nella mente di alcuni politici intellettuali che sono gli europeisti, pensiamo in Italia ad Altiero Spinelli, che saranno fautori di quel tentativo che avverrà in modo estremamente più ridotto e riduttivo di quello che loro avrebbero voluto, ma che nell’immediato dopoguerra sono forze ultraminoritarie, non solo minoritarie. Noi oggi pensiamo all’Europa come un percorso che in qualche modo ha abbracciato tutto, ma nello stesso momento in cui si costruì prima la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e poi la CEE, Comunità Economica Europea, la ostilità nei confronti di queste istituzioni europee fu propria di tutte le forze di opposizione, fondamentalmente quelle socialiste e comuniste. Da noi socialisti e comunisti erano all’opposizione come in Francia; ma erano ostili all’unione europea anche forze di altra natura, cioè di destra. Domina in quel periodo non la scelta tra Europa sì o Europa no, ma la scelta su come schierarsi all’interno della guerra fredda, o come riuscire a vivere in un campo che non si era scelto, ma che era stata la geopolitica militare della seconda guerra mondiale a stabilire e che faceva sì che chiunque vivesse nei territori che erano stati liberati o conquistati dall’Armata Rossa rientrava automaticamente nel campo socialista e, viceversa, chi era stato liberato dagli angloamericani rientrava nel campo occidentale capitalista. Questa è una realtà che noi facciamo fatica oggi a raccontare, a spiegare la forza che aveva a quell’epoca e che era molto più solida e radicata di qualsiasi discorso d’altro tipo.
Come le cose cambiano: l’esempio di Boris Pasternak
Le cose cominciano a cambiare solamente con gli anni ’60, ma pensiamo alle lentezze e alle contraddizioni con cui si vive il 1956, la prima grande crisi del mondo comunista in seguito alle rivelazioni del XX congresso fatte da Kruscev e poi all’invasione dell’Ungheria nell’ottobre dello stesso anno, una crisi che esplode dappertutto e i cui esiti sono molto più ridotti di quanto tutti quanti immaginavano, compresi gli stessi comunisti, perché la realtà della guerra fredda, cioè la divisione in due campi è talmente forte che entra nella vita di tutti i giorni. Per scegliere un terreno non direttamente politico ma più culturale (che credo sia uno di quelli che possono permetterci di ricostruire la storia del dopoguerra molto bene), prendo ad esempio una trasmissione televisiva che mi capitò di vedere – c’era solo un canale alla Rai all’epoca, nel 1958 – dopo che era stato dato a Boris Pasternak il premio Nobel per la letteratura. Ci fu una discussione in televisione, fantastica da tanti punti di vista, tra un liberale, un repubblicano, un socialista, un comunista, un democristiano che erano prima di tutto dei grandi intellettuali, non solo dei rappresentanti politici; grandi uomini di cultura che appartenevano ognuno ad un proprio mondo politico e che discutevano sul caso Pasternak – che fu un caso clamoroso. Si potevano così ascoltare giustificazioni nei confronti del governo dell’Unione sovietica accanto ad accuse di comportamenti esagerati nei confronti dello scrittore, ma anche l’uso di etichette quali “scrittore controrivoluzionario” a lui affibbiate. Vent’anni dopo, non tanto di più, tutti quelli che appartenevano al mondo culturale comunista riconoscevano in Pasternak uno dei più grandi scrittori della Russia e dell’Unione Sovietica. Ma all’epoca risentivano del clima culturale della guerra fredda che negli anni ’50 era veramente qualche cosa che si fa fatica a rappresentare, ma che occorre ricostruire per riuscire a districarsi anche nelle eredità che sono rimaste di quel periodo e a capire come la grande trasformazione che in Italia, per esempio, avviene negli anni ’60, abbia alle spalle un lungo periodo di ingessamento della realtà economica, sociale e culturale, che ha bisogno poi di esplodere, come farà in quel decennio, e che permetterà tante cose diverse.
Le costituzioni nazionali: entità isolate in un Europa più vasta
Un altro aspetto che credo sia importante da tenere presente nel dopoguerra è quello delle costituzioni europee. Sono fra loro spesso simili, dal momento che rispondono alle medesime esigenze e allo stesso insieme di valori che le riformano, però sono costituzioni nazionali che non vengono recepite nemmeno dai giuristi, se non da pochissimi all’epoca, come parti di un mondo più vasto. Se noi andiamo a sfogliare giornali di allora non si riescono a trovare fattori di contatto tra la Costituzione italiana e la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che alla fine dello stesso anno sarà promulgata dalle Nazioni unite, sulla base di valori che sono esattamente gli stessi. Manca cioè in quel momento, di nuovo per questa cappa della guerra fredda che ha cominciato a dividere proprio da allora, l’idea di una sorta di circuito internazionale per cui bisogna riconoscersi in qualcosa che vada al di là della divisione politico ideologica dominante nel breve periodo.
Il caso eccezionale della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
Tra l’altro, proprio la dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre del ’48 deve essere vista come una sorta di miracolo più ancora che la Costituzione italiana. Spesso gli storici hanno giustamente ricordato come la Costituzione italiana sia un prodotto unitario di una stagione in cui si è appena inaugurata la rottura di governo, quando il partito comunista e il partito socialista vengono espulsi dal governo De Gasperi, nella quale però la volontà di mantenere l’unità sulla carta fondamentale aveva prevalso su divisioni politiche che pure erano così aspre dal punto di vista della battaglia ideologica. A maggior ragione appare eccezionale che la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo venga promulgata quando la guerra fredda non solo è cominciata, ma si è sviluppata al massimo con la crisi di Berlino proprio nell’estate del ’48. Grazie soprattutto alla capacità di Eleanor Roosevelt che guidava la commissione per i diritti umani delle Nazioni unite si riuscì ad arrivare a un testo comune che fu rifiutato solamente da due paesi: dall’Arabia Saudita per questioni legate al diritto di cambiare religione (per l’Arabia Saudita l’apostasia era il peccato maggiore, con valenza anche politica, tale da configurarlo come il delitto più grave di tutti quanti) e dal Sudafrica che aveva appena approvato le sue leggi razziali (e perciò non poteva veder scritto, né riconoscere e firmare, un documento che diceva invece che non esistevano differenze di razza tra le persone). Queste istituzioni, a livello nazionale la costituzione, a livello internazionale le Nazioni Unite e il sistema di diritti messo in piedi, per un bel po’ di anni sono state in qualche modo ingessate: un giurista inglese, parlando della dichiarazione dei diritti umani, disse che era stata messa in frigorifero per più di vent’anni. La Costituzione italiana un po’ meno, per almeno dieci sì, e poi con difficoltà ha cominciato ad essere attuata con una serie di resistenze, a partire dalla Corte costituzionale e di tanti altri aspetti che è inutile ricordare qui uno per uno – ma basti pensare alle regioni, che solo nel 1970 saranno messe in funzione.
Eleanor Roosevelt,
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La guerra fredda: un confronto tra potenze extraeuropee
Nel contesto della guerra fredda abbiamo avuto l’esistenza di istituzioni che incarnavano dei forti valori che sono gli stessi a cui ci rifacciamo noi oggi e sono gli stessi che nell’89 furono riconosciuti da tutti e che però, pur essendo esistenti, erano stati messi da parte perché il contesto della guerra fredda non permetteva all’Europa di scegliere sé stessa, intanto perché le due superpotenze non erano europee. Qui sorge la questione se considerare la Russia come Europa o no. Certamente l’Unione Sovietica si riteneva europea in quanto controllava una parte dell’Europa. Ma fu la mancanza di un soggetto politico europeo che rese la guerra fredda, soprattutto nel primo periodo, così rude, difficile, terribile per tanti aspetti, una guerra che, sia pur ideologica e non militare, poneva in alternativa il maccartismo e lo stalinismo che, anche se in modo più leggero, erano posizioni che si riproponevano anche in Europa. L’Europa che, bisogna dire, ha retto complessivamente questa doppia imposizione che veniva dalle superpotenze e alle spinte di divisione che ne derivavano.
Comunità (europea) economica, culturale e sociale
Allora anche il percorso che possiamo fare attraverso le costituzioni, pur all’interno di compromessi che le lasciano spesso incomplete, incompiute, inadeguate, fa capire come esistesse già allora una realtà europea che è quella che poi, un po’ alla volta, con il processo messo in piedi attraverso le diverse tappe, riesce a realizzarsi successivamente. Un processo che non è direttamente politico, ma culturale, che vede, per esempio, in quegli anni, che sono gli anni del grande boom europeo, la creazione del modello di welfare anglo-tedesco-scandinavo, che si realizza in tutta Europa e anche in Italia, dove il percorso è più difficile perché c’è l’eredità del welfare fascista, che bisogna cercare di mettere da parte; le vicende che accompagnano la nascita e lo sviluppo dell’Iri, grande istituzione fascista, spiegano la difficoltà di accettare fino in fondo una logica di intervento statale che richiamava il tipo di organizzazione statale del fascismo. Però sia pure con ritardi, lentezze e contraddizioni, negli anni ’70 si riuscirà a raggiungere un moderno livello di welfare sulle politiche familiari, sui grandi diritti civili, dal divorzio all’aborto, alla fine del decennio, al sistema sanitario nazionale. Tutto questo è parte di un processo in cui, pur nella divisione in cui sembra non contare nulla sul piano politico, l’Europa riesce a suggerire invece dei modelli di coesistenza, di comunità economica, culturale e sociale di un certo tipo.
Le spinte all’unificazione: socialdemocrazia ed eurocomunismo
Non dobbiamo dimenticare che dentro questo contesto della guerra fredda, in minoranza, c’è un grande mondo socialista che trova due momenti politici diversi ma simili tra di loro. Nel ’59 il congresso della socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg, abbandona per sempre l’idea che socialismo significhi alternativa radicale al capitalismo e si accetta l’idea che il capitalismo non si può distruggere se non cadendo nel totalitarismo di tipo sovietico e che quindi bisogna muoversi su un forte terreno di riforme e di democratizzazione progressiva. E un discorso assolutamente analogo è quello che fa quindici anni dopo l’eurocomunismo, che dura poco per una serie di motivi congiunturali e anche di conflitti personali che hanno sempre caratterizzato la vita della sinistra, con una scelta non così coerente come avevano fatto i socialdemocratici tedeschi che porta di fatto a rendere esplicita la fine della idea di poter pensare a abolire il capitalismo. Questo è un altro elemento importante nella storia dell’Europa, perché significa che nell’Europa occidentale, sia pure non immediatamente, prevale alla fine l’idea che l’Europa deve diventare democratica e deve spingere anche perché l’altra parte dell’Europa che è sotto il blocco comunista riesca ad arrivare alla stessa soluzione.
L’implosione del sistema sovietico
L’obiettivo inizierà a concretizzarsi a partire dalla fine degli anni ’70 e negli anni ’80, in un percorso a proposito del quale, soprattutto nei libri di storia che si utilizzano, spesso non si cerca di andare a fondo sulle cause scatenanti. Intanto si spiega poco perché questa crisi nei suoi aspetti più profondi nasca nei paesi dell’Europa, in Polonia, in Cecoslovacchia, come in parte era nata in Ungheria precedentemente; e poi perché anche in Unione Sovietica trovi spazio con l’avvento al potere di Gorbaciov la possibilità di immaginare un socialismo diverso, quello che era stato a Praga nel ’68 un socialismo dal volto umano cancellato dai carri armati sovietici. Tutti i tentativi di riforma che vengono fatti, favoriscono l’implosione del sistema sovietico e del sistema comunista. Certo una piccola mano verrà anche dall’esterno: ci sono state all’epoca molte interpretazioni secondo le quali il comunismo è crollato grazie a Reagan e a Papa Wojtyla. Reagan, attraverso la nuova corsa agli armamenti e allo scudo stellare, ha spinto l’Unione Sovietica a continuare ad investire nel settore bellico impedendole di dare un minimo di soddisfazione ai consumi, come la sua società e i suoi cittadini chiedevano da decenni. Papa Wojtyla ha sicuramente avuto una forte influenza ideologica in generale, politica in particolare in Polonia. Ma la causa profonda del crollo del comunismo è nata e si è sviluppata al suo interno.
By George Bush Presidential Library (ID: P13385-08)http://bushlibrary.tamu.edu/image.php?id=1185, Public Domain, Link
Jaruzelski, Gorbaciov e la fine della dottrina Breznev
Nei paesi dell’Europa orientale è il generale Jaruzelski (che non era certo né liberale né democratico visto che nel 1981 in Polonia aveva proclamato lo stato di assedio) ad accettare di dar vita alla “tavola rotonda”, in conseguenza della denuncia della fine della dottrina Breznev da parte di Gorbaciov, che implicava la rinuncia ad interventi militari dell’Urss nei paesi dell’Europa orientale per questioni di ordine interno. Si accodava così alle spinte che provenivano dalle società. Da militare, Jaruzelski si rese conto che si poneva un’alternativa fra il bagno di sangue contro i cittadini polacchi o la ricerca di un’uscita concordata, che sarebbe sfociata nella convocazione di una tavola rotonda. Questa è l’implosione maturata nell’Europa orientale, cioè la fine del ricatto della minaccia dell’intervento sovietico, che permise alle forze riformatrici, una volta aperto il varco verso forme di democrazia, di modificare il sistema e di introdurre il pluripartitismo.
Il notaio della fine dell’Unione sovietica
All’interno dell’Unione sovietica si verificarono l’esplosione dei nazionalismi nelle diverse repubbliche, la contrapposizione delle repubbliche al centro, la volontà di indipendenza di molti territori. Gorbaciov capì che avrebbe potuto controllare questi fenomeni solo con una forte violenza, ma dal momento che la sua politica fin dall’avvio era andata in direzione esattamente contraria, ad un certo punto preferì fare il notaio della fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Questa scelta non permise di attuare l’ipotesi politica da cui era partito, cioè che fosse possibile una riforma del socialismo reale, lasciando questo processo sospeso tra storia, utopia o speranza, secondo le valutazioni che ciascuno vuole darne.
Sarajevo crocevia dei fallimenti dell’unione europea
All’Unione europea oggi manca un progetto politico e ideologico. C’è un continuo adattamento alla realtà più o meno pragmatico, che in alcuni momenti sembra poter funzionare, ma che in altri momenti dà invece esiti catastrofici come in occasione della guerra dell’ex Jugoslavia. L’intervento politico europeo è immediato: la Germania riconosce immediatamente Croazia e Slovenia, seguita poi da altri paesi, e alla fine dall’insieme dell’Unione. Questo non fa che accentuare il conflitto e soprattutto rende impossibile una tempestiva presenza europea armata di pacificazione. Fin dagli anni ’50 si era registrato il fallimento di una politica di difesa comune, tema ancora di forte attualità. I fondamenti dell’unità politica sono costituiti dalla centralizzazione di alcuni aspetti fondamentali, come l’esercito e la finanza. In quest’ultimo settore si è operato, più o meno bene, più o meno male, ma la totale mancanza di coordinamento sul terreno militare, che avrebbe sicuramente impedito in Jugoslavia i massacri che ci sono stati nel corso di quattro anni di guerra, avrebbe potuto essere un momento di forza dell’Europa che raggiunse invece lì, paradossalmente proprio a Sarajevo dove aveva avuto la prima drastica sconfitta alla vigilia della prima guerra mondiale, il nuovo riconoscimento del proprio fallimento. Il fallimento successivo riguardò il progetto di Costituzione europea nel 2003: l’Europa già allora era estremamente debole, anche perché c’era stato un allargamento senza criteri stringenti. Per esempio, proprio a causa della guerra nella ex Jugoslavia, erano stati tenuti fuori tutti i nuovi paesi, come la Croazia che sarebbe stata ammessa per ultima, o il Montenegro e la Serbia le cui domande di adesione sono in fase di negoziato.