L’Unione Europea ha sessant’anni: può la sua architettura attuale superare le crisi degli ultimi anni e quelle prossime?
L’Unione Europea di fronte alle crisi
Negli ultimi anni l’Unione Europea ha dovuto affrontare tre grandi crisi: quella finanziaria ed economica, quella legata ai flussi migratori principalmente da Siria ed Africa, e infine quella della sicurezza con la creazione ai confini dell’UE di zone di instabilità internazionale molto forti, che minacciano prospettive di sviluppi militari di non poco rilievo, pensiamo per esempio alla vicenda russo-ucraina, al Medio Oriente e alla Siria, e con riflessi anche sulla crisi migratoria. Queste crisi hanno pesato negativamente su tutti i paesi della UE, ma è bene ricordarlo l’impatto è stato decisamente più intenso per alcuni.
Si è trattato di tre grandi sfide che si sono poste dall’esterno, aggiungendosi ai problemi che nascono dall’interno dei paesi europei. È importante comprendere che non esistono frontiere che possano salvarci dai problemi che arrivano da fuori. Ogni tanto si invocano barriere più rigide, più forti. Non entro nella discussione se sia bene o meno bene avere muri: constato che ci sono paesi nel mondo che hanno eretto – e alcuni li stanno erigendo – muri, ma che questi non hanno mai isolato definitivamente dalle crisi; forse le hanno deviate per un momento, ma non si sono rivelati mai una soluzione esaustiva ai problemi.
Crisi nazionali
Queste crisi si sono presentate nell’immediato come crisi nazionali. Ciascuno stato nazionale, pur facendo parte del contesto dell’UE, mantiene poteri significativi e un profilo caratteristico, attraverso il quale gli effetti della crisi sono filtrati e percepiti in maniera differente. Noi in Italia percepiamo in un certo modo le crisi dell’economia e dell’occupazione, in maniera diversa per esempio da Germania, Olanda, etc…. Le crisi che provengono dall’esterno non hanno un impatto universalmente omogeneo, hanno un impatto specifico nazionale molto forte: oltre tutto conviene ricordare che la dimensione nazionale è il primo modo in cui percepiamo le crisi, mentre la percezione come crisi europee è un processo molto più mediato e indiretto. Questo avviene perché gli stati europei hanno istituzioni politiche e sistemi mediatici a base fondamentalmente nazionale: si legge prima di tutto quello che avviene nel proprio paese, solo in maniera secondaria e molto più ridotta quanto avviene negli altri paesi. I fatti macroscopici che avvengono fuori dal singolo paese non sono ignorati, ma ce ne si occupa per breve tempo, mentre l’attenzione sui fatti interni è protratta molto più a lungo. Tuttavia, questa volta in maniera più marcata che in passato, queste crisi hanno avuto anche natura di vere e proprie crisi europee, pur se percepirle come tali è più complesso e avviene in maniera parziale, debole, molto meno efficace.
Crisi europee
In che senso sono crisi europee? In parte perché le caratteristiche delle crisi sono legate anche agli sviluppi dell’Europa. Il fatto che l’UE sia cresciuta in estensione e intensità, con allargamento dei suoi confini e accrescimento dei suoi poteri, fa sì che i meccanismi europei di governo e di regolazione del mercato e dei movimenti delle persone e la loro maggiore o minore efficacia incidano sulle conseguenze delle crisi. I paesi membri non sono più stati pienamente autonomi e indipendenti in grado di fronteggiare le conseguenze delle crisi ciascuno nel proprio ambito: le conseguenze sono mediate dall’esistenza dell’UE, così come quando c’è una crisi negli Stati Uniti che colpisce in misura diversa i singoli stati interviene la federazione, con ampi poteri centrali, a mediarne gli effetti. Il fatto che l’Europa sia organizzata come un mercato fortemente unificato con regole comuni, che pongono limiti non piccoli all’azione dei singoli stati che non possono violarle, fa sì che gli stati possano reagire alla crisi solo tenendo conto di un quadro di riferimento che è stabilito a livello europeo. Non c’è libertà assoluta di intervento, l’azione che possiamo grossolanamente definire keynesiana di aumentare la spesa pubblica per rispondere alla crisi incontra tutta una serie di ostacoli (si pensi al divieto europeo di aiuti di stato alle imprese).
L’Europa condiziona i comportamenti degli stati non solo sul versante economico, ma anche su quello dei movimenti delle persone, si pensi ad esempio all’adozione del Trattato di Schengen che consente la libera circolazione delle persone nello spazio dei paesi dell’UE. Le crisi dunque sono oggi diverse proprio perché l’Europa è più significativa, è uno sfondo imprescindibile.
In secondo luogo queste crisi hanno impatto sull’UE in quanto tale, poiché pongono sfide a istituzioni, regole, meccanismi europei. L’UE, in altre parole, oltre a condizionare le modalità della crisi, ne è anche oggetto.
Vediamo ora più in dettaglio le singole crisi.
La crisi economica
La crisi economica ha creato forti tensioni sul funzionamento del mercato comune. Di fronte alle crisi economiche di tipo recessivo una tipica reazione degli stati è quella di intervenire con aiuti diretti a imprese in difficoltà, ma le regole europee oggi prevedono il divieto di aiuti di stato alle imprese del proprio paese, se non entro limiti ben precisi. La capacità di reagire degli stati membri è stata quindi ridotta mentre d’altra parte la UE non mostrava capacità adeguate di intervento. La crisi si è abbattuta anche sulle principali realizzazioni del processo di integrazione europea, in particolare sull’euro: prima della sua istituzione una crisi come quella degli ultimi anni avrebbe avuto conseguenze sulle singole monete, ora riguarda in primo luogo la moneta unica, la cui istituzione è considerata un passo avanti molto importante del processo di sviluppo della UE, anche se molto contestato da alcuni studiosi di scienza economica soprattutto americani.
Crisi migratoria
Il fatto di avere creato uno spazio unificato di mobilità, anche se non proprio per tutti, con frontiere attenuate tra i paesi, ha avuto effetti molto rilevanti sull’immigrazione, che ha sfruttato le porte d’accesso più facili come la Grecia e l’Italia, anche se poi la destinazione finale doveva essere, sfruttando lo spazio aperto europeo, la Germania o altri paesi del Nord-Europa. Ne è conseguito che, di fronte alla crisi, lo spazio di Schengen sia stato messo in discussione e le opinioni si dividano tra quanti ritengono che si debba tenere aperto questo spazio, oppure si debba tornare alle frontiere e qualcuno ha addirittura ventilato l’invio dei carri armati al Brennero…! Certo più parole che fatti, prodotte dalle necessità della propaganda elettorale, tuttavia le proposte di rimilitarizzare le frontiere sono sconvolgenti. Pensiamo al fatto che per noi Italiani grazie all’UE il Brennero, un tempo emblema di guerra, è diventato come un qualunque passo dell’Appennino.
Crisi di politica estera
L’allargamento a est dell’Unione Europea ci ha portato molto più vicini a una zona di instabilità e incertezza politica, in cui è presente una Russia che sta cercando di riconquistare un ruolo mondiale di grande potenza, e pretenderebbe di esercitare una sorta di protezione su un’area allargata come la vecchia Unione Sovietica. L’Europa si è avvicinata a questa zona e si trova di fronte a dilemmi importanti sui destini dell’Ucraina: integrarla nell’Unione o lasciarla alla sfera di influenza russa? La crescita dell’UE trasforma dunque tutti i problemi e le crisi, dando loro caratteri diversi.
Crisi asimmetriche
Si aggiunga che gli effetti delle crisi non sono simmetrici; arrivano da fuori e hanno una loro coerenza, ma il loro impatto non è uguale in tutti i paesi. L’abbiamo visto per la crisi economica, per le crisi delle migrazioni, per le crisi della sicurezza. La crisi economico-finanziaria ha fatto pagare un prezzo molto alto a paesi come la Grecia, l’Italia, il Portogallo, la Spagna, molto minori invece a Germania, Olanda, Svezia. Gli estoni e i polacchi sono molto sensibili al problema dei rapporti tra Russia e Ucraina, i portoghesi e gli italiani molto meno. Gli uni lo vedono come un problema di sicurezza, per gli altri è soprattutto un problema commerciale: se si impongono sanzioni, come cambieranno, in peggio, i rapporti economici con la Russia? Così per la crisi dell’emigrazione: per l’Italia è un problema pressante, si dibatte se accogliere, respingere, redistribuire i migranti. La Repubblica Ceca invece vede il problema come molto lontano e si chiede il motivo per cui debba ospitare una parte di migranti.
L’asimmetria è problema molto importante per un’unione. Se le crisi hanno effetti molto diversi in diversi paesi, come si reagisce alle asimmetrie? Le asimmetrie ci sono anche all’interno degli stati, in Italia ne abbiamo ampie esperienze, ma gli stati hanno sviluppato strumenti se non per eliminarle completamente, almeno per attenuarle e ridurle o comunque per assicurare parità di trattamento ai cittadini anche in zone molto asimmetriche.
Le crisi sono state molto gravi per gli stati, ma questo è stato anche un primo vero periodo di sfida piuttosto radicale all’UE e alle sue istituzioni. Forse questa percezione sfugge un po’. A livello nazionale abbiamo sviluppato capacità di lettura delle crisi, anche se è diverso il discorso sulla capacità di fare le cose necessarie. A livello europeo c’è la capacità di leggere le crisi? È questa una questione molto importante.
Risposte nazionali e risposte europee
Sappiamo che ci sono state risposte nazionali alle crisi, più o meno efficaci e comunque limitate dal fatto di fare parte di una comunità che richiede comportamenti coerenti con le regole comuni. Nel complesso le risposte nazionali sono state inadeguate e insufficienti. E’ stata molto forte la richiesta anche di risposte europee. Qui si è dovuto innovare, inventare; l’UE era molto debole e sguarnita in termini di strumenti per rispondere alle crisi.
Si pensi alla crisi di sicurezza: l’UE agisce attraverso l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, oggi Federica Mogherini, che è succeduta nell’incarico a Catherine Ashton. Si tratta di ottime persone che fanno il loro lavoro nel modo migliore possibile, ma il cui peso o capacità di generare una politica estera comune è minima, dobbiamo riconoscerlo.
Sull’immigrazione la Unione Europea era praticamente sprovvista di ogni strumento effettivo di azione. Sulla crisi economica l’UE era più attrezzata, almeno per difendere e tenere in vita le regole del mercato comune, che è stato il cuore non solo economico ma anche culturale del sistema europeo. E infatti l’UE si è impegnata a fondo, ricorrendo alle procedure di infrazione, per far rispettare queste regole da parte degli stati che non sempre sono lieti di applicarle. Ma questo non era certo lo strumento più adatto per contrastare gli effetti negativi della crisi economica.
La difesa delle regole esistenti
La difesa delle regole esistenti è stata la prima azione europea di fronte alla crisi, messa in atto anche per evitare strappi e violazioni nelle regole del mercato unico, che peraltro ci sono state almeno in parte da parte degli stati per salvare i sistemi bancari. La difesa delle regole esistenti però non è la risposta principale di fronte ad una crisi economico-finanziaria di prima grandezza. Lo si è visto bene negli Usa: quando si è manifestata questa crisi di grandezza inedita, uno dei primi atti già nella fase finale della presidenza Bush è stato un enorme programma, il cosiddetto TARP (Trobled Assets Relief Program), che prevedeva immissione di denaro fino a 700 miliardi di dollari per acquisto di asset di banche e imprese in fallimento. Si è intervenuti dunque con una massiccia immissione di denaro per bloccare la recessione e i drammatici effetti deflazionistici della crisi. L’Europa non aveva strumenti di intervento attivo, come hanno invece i governi degli stati. Ricordiamo che il bilancio dell’UE per tutte le spese ha una dimensione di poco superiore all’1 per cento del PIL europeo, mentre il bilancio medio degli stati europei è superiore al 40 per cento del PIL, dunque l’1% contro il 40%! Un’altra cifra per dare indicazione delle grandezze: il 2 per cento di deficit dell’Italia rispetto al PIL può essere rappresentato in circa 39 miliardi di dollari; se l’UE accettasse di avere un deficit analogo rapportato al proprio PIL si attesterebbe a circa 327 miliardi (quando l’intero bilancio UE nel 2015 era di soli 145 miliardi).
Molti stati in questa fase di crisi, hanno ben ecceduto il limite del 2 per cento del rapporto fra deficit e PIL per cercare di contrastare gli effetti della crisi. L’UE invece non aveva invece strumenti operativi per adottare azioni dirette anti-crisi. Il suo bilancio è in larga parte impegnato in spese per l’agricoltura, fondi regionali, notevoli spese per la gestione di se stessa; si è trovata dunque senza uno strumento significativo per assicurare un proprio intervento nella fase peggiore della crisi.
Le risposte innovative: i fondi provvisori
Tuttavia la crisi mordeva alcuni paesi in maniera drammatica, si pensi alla crisi bancaria di proporzioni enormi dell’Irlanda, alla crisi economica e bancaria in Spagna, e poi soprattutto alla crisi del debito sovrano greco, che si è scoperto molto più alto di quello sino all’epoca misurato, con la conseguenza che la Grecia si è trovata impossibilitata ad avere accesso ai mercati per finanziare il proprio debito. Le crisi si sono manifestate nella loro notevole gravità, coinvolgendo sempre più le economie e minacciando di estendersi e colpire stati come l’Italia, che ha il pregio e difetto di essere una delle economie più rilevanti e di avere il debito pubblico più grosso dell’Europa, oltre che uno dei più grossi del mondo. A quel punto si è dovuta elaborare una risposta europea: dapprima la creazione di un fondo provvisorio chiamato EFSF (European finacial stability facility) e poi di uno più stabile, l’ESM (European stability mechanism), fondi che hanno avuto la capacità di intervenire nelle crisi in Irlanda, Portogallo, Spagna, e soprattutto in Grecia.
Quale è stata la natura di questi fondi? Non sono stati creati attraverso una crescita del bilancio dell’UE, per esempio attraverso nuove tassazioni europee, oppure attraverso un ricorso all’indebitamento emettendo i tanto discussi Eurobond, ma sono stati finanziati dagli stati attraverso un pagamento pro-quota, applicando dunque un meccanismo intergovernativo e non federale. Questo ha provocato polemiche, soprattutto nell’opinione pubblica e sugli organi di stampa tedeschi, perché la Germania ha contribuito ampiamente, ma esattamente nella stessa proporzione (in rapporto al peso della propria economia) con la quale hanno contribuito anche paesi in crisi, come l’Italia e la Spagna. La strada scelta è stata dunque quella della solidarietà fra stati attraverso una soluzione che prescindeva dal diritto comunitario, mentre l’UE è rimasta confinata nel suo ruolo di difesa delle regole.
Il ruolo della Banca Centrale Europea
Nel 2011 la crisi economico-finanziaria ha raggiunto il suo apice quando, di fronte alla prospettiva imminente di un’estensione della crisi all’Italia, è cominciato ad affacciarsi il timore che con un effetto domino potesse essere coinvolta anche la Francia, che in una prima fase, per tanti motivi tra cui il minor debito e la sicurezza che non sarebbe crollata, aveva avuto un trattamento dai mercati molto migliore che l’Italia, pur essendo il suo debito in crescita molto forte, superiore anche a quella del debito italiano. Allora è entrata in gioco la Banca Centrale Europea, sotto la guida di una nuova leadership di grande livello e audacia, quella di Mario Draghi. Questa istituzione, fino ad allora assai timida e incerta nell’azione, come dimostrano le oscillazioni dei tassi di interesse applicati nei primi momenti della crisi, ha cominciato ad adottare iniziative di grande portata. I primi provvedimenti hanno riguardato l’immissione di abbondanti quantità di liquidità nel sistema economico: uno dei primi tra i più importanti programmi, il Long Term Refinancing Operation (LTRO) ha immesso mille miliardi di euro, somma paragonabile a quelle messe in gioco negli USA. Questa azione continuerà poi in diverse forme per tutto il periodo della crisi.
Il pareggio di bilancio e le nuove regole europee
La significativa azione della BCE ha suscitato reazioni molto forti che ne hanno messo in discussione la legittimità sia dall’interno, con le dimissioni nel 2011 del membro tedesco del consiglio direttivo, sia dall’esterno, con la contestazione sollevata dalla Corte costituzionale tedesca. Probabilmente per bilanciare questo rischio è stato introdotto un altro meccanismo, il cosiddetto Fiscal Pact, di nuovo un trattato intergovernativo che, in sintesi, ha introdotto regole molto austere nei confronti delle politiche di bilancio degli stati, imponendo loro un percorso di riduzione del deficit verso il 60% del debito pubblico. Questo percorso ha richiesto anche l’inserimento del pareggio di bilancio nella costituzione dei paesi membri, una scelta politica certo molto stringente. È probabile che si sia trattato di una sorta di scambio tra l’accettazione del fatto che la BCE intervenisse massicciamente con acquisti in titoli di debito pubblico, di tutti i paesi peraltro e non solo dei paesi in crisi, e regole più dure di austerità e di severità nei bilanci. Vorrei ricordare l’introduzione anche di nuove regole europee, il cosiddetto Six pack, che prevede per gli stati membri precisi obblighi in materia di bilancio e automatismi sanzionatori per chi non li rispetta, e il cosiddetto Two pack che riguarda la procedura del semestre europeo e l’esame preventivo e correttivo dei singoli bilanci da parte della commissione europea. La gabbia regolativa, che ha ulteriormente vincolato le capacità di azione dei governi, è stata molto rafforzata e questa era probabilmente la sola possibilità per convincere i paesi nordici meno indebitati e meno in deficit ad accettare il ruolo più attivo giocato dalla BCE. Si tratta di una “gabbia” buona? Gli effetti sono stati certo significativi; è cresciuto il potere regolatorio della Commissione, ma si sono rafforzati anche i poteri di regolazione intergovernativi degli stati e si è rafforzata l’influenza di alcuni singoli stati più importanti (in particolare la Germania che ha dettato la linea del rigore di bilancio anche in tempi di crisi); sull’altro versante, si è verificata la crescita dei poteri della BCE.
Lo Juncker plan
Va segnalato infine che, dopo le elezioni europee del 2014, con lo Juncker plan c’è stata anche un’azione basata sul bilancio europeo. Questo programma a sostegno degli investimenti promosso dal presidente della Commissione si configura come una tipica azione di sostegno allo sviluppo economico attraverso un’accelerazione degli investimenti. La dimensione di questo programma finanziato con il bilancio europeo attraverso lo spostamento di alcuni capitoli, tra cui quelli per la ricerca, è però di soli 16 miliardi di euro, rispetto ai 1000 miliardi del già menzionato programma LTRO della BCE. La capacità del potere federale dell’Europa di intervenire con risorse nuove è stata dunque molto modesta. Meglio che niente, considerato che aumentare il potere del bilancio dell’UE è finora stato praticamente impossibile. Del resto per aumentare il bilancio federale, se non si vuole far salire troppo la pressione fiscale sugli abitanti dell’Europa, occorrerebbe ridurre i bilanci degli stati e destinare all’UE le risorse che si liberano, scelta che i governi non sono disponibili a compiere, ovviamente.
Un lungo inverno economico
Dunque le risposte ci sono state, ma lente e faticose; sono state anche adeguate? Una valutazione è tuttora difficile. La lentezza della ripresa dell’economia europea è stato piuttosto marcata. E’ stato un lungo inverno economico, soprattutto per alcuni paesi, durante il quale è cresciuta la povertà e in alcuni paesi addirittura sono cresciuti i tassi di mortalità: in Grecia le statistiche demografiche di questo periodo sono veramente terribili. Lo stato greco porta certo ampie responsabilità di tutto ciò, ma la lentezza della UE nell’affrontare questa crisi ha contribuito ad aggravare la situazione. Ci potremmo chiedere quale sia la ragione di questa lentezza. La risposta è abbastanza semplice, se pensiamo alla struttura istituzionale dell’UE e a come si è sviluppata.
L’Ue: una struttura complessa costruita per aggiunte
Dobbiamo da un lato sottolineare che l’UE è una costruzione straordinaria, unica nel suo genere, la cui realizzazione non può non suscitare un enorme rispetto; dall’altro lato non possiamo ignorarne tutti i difetti e le inefficienze. Non è affatto banale che questi 6, poi 15, 21, 27 e infine 28 stati abbiano accettato di abolire frontiere garantendo libere mobilità interne, di assoggettarsi a una Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) e a regole decise dal Consiglio e dal Parlamento europeo. È stata dunque una realizzazione straordinariamente significativa di ingegneria politica.
Però quella che è emersa è una struttura molto complessa, in parte proprio per la natura incrementale del suo sviluppo, avvenuto non secondo un disegno preordinato, ma con aggiunte progressive, controbilanciate da altri provvedimenti, con il rafforzamento di certi poteri centrali e a seguire dei poteri di controllo, secondo una prospettiva non proprio lineare, in cui si è dovuto salvaguardare il massimo consenso possibile di tutti gli stati, accontentando le esigenze dell’uno e dell’altro, difendendo la sovranità degli stati ma nello stesso tempo creando una sorta di sovranità europea. E poi si poneva la questione esecutiva: una volta che i Consigli europei fossero riusciti a raggiungere accordi complicati per raggiungere gli obiettivi individuati, era necessario un potere centrale capace di mettere in atto le decisioni, dal momento che il Consiglio europeo, che ha la preminenza politica delle scelte fondamentali, non era dotato di strumenti diretti per tradurle in pratica. Si è trattato di stabilire un equilibrio tra Consiglio europeo e Commissione. Insomma, la UE è emersa come una costruzione complessa, essenzialmente regolatoria e orientata alla “integrazione negativa”, cioè a togliere gli ostacoli all’integrazione piuttosto che a promuoverla con azioni positive. Se pensiamo a come si erano sviluppati gli stati nazionali, troviamo in questi dei processi di segno opposto, nel senso che si sono costruite innanzitutto delle grandi amministrazioni, capaci di drenare risorse in misura via via più forte dalla società, è stata creata una massa d’urto di risorse finanziarie, di personale amministrativo e, infine, anche di regole. L’UE invece ha acquisito moltissime capacità regolatorie, ma tutto sommato una piccola amministrazione, e soprattutto scarsissimi mezzi.
In questo contesto, una delle principali realizzazioni degli ultimi anni l’euro, è stata messa sotto attacco per effetto della grande recessione e dalle sue conseguenze, al punto che nel 2011 si è arrivati ad interrogarsi molto seriamente sulle sue capacità di resistere e si sono affrontate scuole di pensiero contrapposte. Da un lato chi sostiene che l’uscita dal sistema della moneta unica non comporterebbe gravi conseguenze e anzi libererebbe le economie nazionali da una gabbia troppo rigida, e dall’altra coloro che temono che una crisi dell’euro aprirebbe la strada ad una crisi complessiva della stessa Unione. D’altra parte che le spinte centrifughe abbiano acquistato in questi tempi una forza inedita in Europa, lo abbiamo visto col fatto che per la prima volta un paese, il Regno Unito, ha deciso di uscire dall’UE.
L’azione tecnocratica ha prevalso sulla politica
In conclusione, le crisi hanno costretto sì ad agire, ma per il momento senza intervenire in maniera forte sui meccanismi di governo. Il mutamento più importante ha riguardato la BCE, che ha sviluppato una capacità di intervento che prima si pensava che essa non si dovesse e non si potesse prendere. Questo l’ha resa, nella realtà attuale, lo strumento federale più importante. Si tratta di uno strumento tecnocratico naturalmente, che impronta le sue azioni non solo alla difesa dell’euro ma anche alla promozione dell’economia, andando oltre la sua funzione primaria. Poi sono stati sviluppati strumenti intergovernativi, come il fiscal compact e gli altri fondi di cui abbiamo parlato, molto meno vincolati ai controlli democratici che competono all’assemblee elettiva europea e alla commissione. La crisi, in particolare quella economica, ha rafforzato metodi e strumenti di intervento tecnocratici, ma il panorama è in movimento perché credo ci sia un riconoscimento abbastanza ampio che gli strumenti adottati non sono sufficienti e sollevano qualche dubbio di legittimità. Non a caso il presidente della BCE ha continuamente ripetuto in questi anni che l’azione della Banca centrale è un’azione di supplenza dal momento che spetterebbe ai governi nazionali ed europeo di occuparsi del buon andamento dell’economia.
Negli altri ambiti di crisi, come la sicurezza e le immigrazioni, non si sono realizzati strumenti altrettanto significativi di quelli adottati per la crisi economica. Il riconoscimento che la questione dell’immigrazione non interessa solo i paesi che la ricevono in prima battuta, ma interessa tutti e richiede delle politiche comuni fatica enormemente ad affermarsi; ci sono stati che su questo piano non intendono sentire ragioni, tanto è vero che l’unica modesta politica europea di re-localizzazione di una parte dei rifugiati è finora fallita clamorosamente: avrebbe dovuto riguardare 60-70 mila rifugiati, le ricollocazioni sono state sinora poche migliaia.
Il deficit di democrazia
Il deficit avvertito come più forte in questa fase riguarda l’organo che ha le più spiccate caratteristiche sovranazionali, cioè la Commissione europea, che non ha potuto sviluppare risposte dirette, in parte perché questo richiederebbe cambiamenti dei trattati e della politica di bilancio, con l’introduzione di forme di indebitamento europeo di cui pure si parla, ma tra grandi contrasti. Da qui deriva l’assenza di politiche comuni sulla disoccupazione, ad esempio, e in generale di azioni veramente efficaci per fronteggiare le crisi. Il problema di fondo consiste nella vocazione ancora troppo improntata alla dimensione nazionale dei meccanismi di rappresentanza europei: manca la capacità di elaborare degli interessi comuni o, meglio, di incorporare i vari interessi in una visione comune dei problemi, perché le elezioni europee restano la somma delle elezioni nazionali, non c’è una vera presenza di partiti, programmi e leader europei che siano spinti a elaborare e a presentare ai cittadini europei delle visioni europee dei problemi. Manca il rapporto più diretto col demos europeo: mi pare che questo resti il limite fondamentale, che ha conseguenze non solo sul grado di democraticità, ma è anche fattore di squilibrio, perché impedisce la necessaria armonia fra il potere tecnocratico, oggi prevalente, e quello politico. Serve, all’UE, un potere capace di costruire una visione capace di superare le dimensioni nazionali e di affermarsi come autenticamente europea. Questa è la sfida del domani.