Sviluppo, benessere, crisi: l’Europa dal 1930 agli anni 2000
Partiamo dalla periodizzazione proposta dalla Scuola: se nelle giornate precedenti l’arco temporale è stato, nella prima, l’Otto-Novecento, e, nella seconda, la prima metà del secolo, 1905-1947, quello previsto nel titolo di questa terza giornata è il 1930- 2000. È una periodizzazione interessante che si unisce a un titolo che suggerisce un andamento progressivo: Verso una società civile europea: istituzioni economia e società (anche se poi compare il termine ‘crisi’ nel titolo di questa specifica sezione).
In effetti, come sappiamo, quell’andamento progressivo ha incontrato seri ostacoli nel corso dell’ultimo decennio, a seguito di due eventi paralleli: da un lato l’abbandono nel 2007 (formalmente, da parte del Consiglio europeo) della cd. Costituzione europea (ossia il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa approvato dai paesi membri, allora 25, nel 2004, ma bocciato tramite referendum nel 2005 da Francia e Olanda) e dall’altro – subito dopo – per l’impatto della grave crisi economico finanziaria globale scoppiata nel 2008. A seguito di quell’evento la collocazione stessa dell’Europa nel mondo ha subito (e provocato) tensioni di tipo economico, politico e militare (per esempio, con i paesi ex colonizzati) che hanno prodotto o accentuato spinte opposte in senso identitario.
Una strada per tornare all’Europeismo
È questo il contesto mutato in cui ci troviamo oggi; ritengo, tuttavia, che, come storici e come insegnanti, il nostro compito sia quello di collocare questi eventi in una storia più lunga che includa i progressi che si sono compiuti e che ancora speriamo si possano compiere grazie ai legami che uniscono i paesi europei (27, dopo la Brexit), lasciando alla fine il capitolo delle lacerazioni del tessuto europeo provocate dai più recenti eventi globali: economici, demografici, ambientali. In questo ci aiuta la periodizzazione suggerita: riflettere su come si è arrivati così avanti nella costruzione europea partendo dalla guerra mondiale scatenata dall’Europa negli anni ’30 ci può servire a ragionare anche sulle possibilità della ripresa di quel disegno nel contesto odierno.
Come si sa, per gli storici vale l’insegnamento ribadito ancora da ultimo da T. Judt: “Il passato non ha una forma narrativa propria. Assume un significato solo in riferimento alle numerose e spesso contrastanti inquietudini del presente” (concetto analogo a quello già espresso da Croce: “tutta la storia è storia contemporanea”). Ma Judt lo ha osservato in un saggio di bilancio sul Ventesimo secolo e dopo aver scritto una ponderosa storia dell’Europa della seconda metà del ‘900 (pubblicata nel 2003) per indurci a non dimenticare i tratti unificanti di questa comune storia europea. Per Judt il rischio di oblio riguarda soprattutto la seconda guerra mondiale come spaventosa guerra civile combattuta dentro i nostri paesi, i costi della lunga ricostruzione e i tratti peculiari di un successo europeo basato su una comune aspirazione a una società più equa (il welfare) e sul ruolo dello Stato nel favorirlo. È su questa combinazione che Judt insiste: quella combinazione di diritti civili e di diritti sociali che ha trovato nelle costituzioni europee del dopoguerra – e in particolare nella nostra – una esplicita normazione.
È dunque nella prospettiva di Judt che mi propongo nella prima parte di ricostruire le specificità del convinto europeismo italiano e di conseguenza le peculiari difficoltà del nostro paese nel posizionarsi in un contesto europeo mutato, dopo lo scoppio della crisi suscitata dal caso Lehman.
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Come si costruisce un racconto: il passato dell’Europa.
L’Europa come grande potenza mondiale si è affermata a partire dal XVII sec. incarnandosi volta a volta nella Spagna, nell’Olanda, nella Francia e infine nell’Inghilterra, prima che il primato, non più dell’Europa ma dell’Occidente, passasse nel ‘900 agli Stati Uniti. In tutti i casi, fin dal ‘600, il primato è assicurato dalla combinazione di potenza economica e potenza militare (P. Kennedy) ed è strettamente connesso alle rivoluzioni scientifiche e filosofiche di quei secoli: sono queste che hanno fatto del continente europeo la sede di una civiltà che si considera superiore.
Dunque sono le idee che hanno guidato la storia: e la storia è il racconto di come l’Europa abbia scoperto e inventato se stessa riconoscendo, volta a volta, i tasselli di una condizione comune: da «lo spirito delle leggi» di Montesquieu, a «lo spirito delle nazioni» di Voltaire (si parlava allora di una Europa ‘stretta’), al ruolo della «società» (e del mercato) per gli scozzesi (Ferguson, Robertson, A. Smith). Una prima sintesi di questo percorso si trova in Storia della civiltà in Europa di F. Guizot (1829-32), nutrimento della cultura liberale ottocentesca, ma ancora ben presente nel ‘900 (cfr. M. Verga, Storie d’Europa. Secoli XVIII-XXI, Roma, Carocci, 2004).
Due colpi di pistola, dieci milioni di morti: la frattura della Grande guerra
Sappiamo, tuttavia, che questa storia d’Europa come storia di civilisation lascia spazio nel corso dell’Ottocento alle nazioni e con le nazioni quell’Europa è destinata a soccombere, non solo a parole ma con i fatti (come si vide con il crollo dell’internazionalismo socialista).
Sulla copertina di un recente libro di E. Gentile si legge: “Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo”, per sintetizzare la frattura rappresentata dalla Prima guerra mondiale, cioè la fine della civiltà europea. Muore un mondo che era il frutto di un meccanismo ben oleato che nell’800 aveva visto l’equilibrio di alta finanza internazionale, base aurea, stato liberale e mercato autoregolato (K. Polany, La grande trasformazione, ediz. or. 1944): un meccanismo che aveva consentito la durata di una civiltà di cui potè usufruire per 100 anni la borghesia degli stati europei occidentali e di cui parlano da testimoni e con rimpianto sia Freud che Keynes, già nel 1915 (Considerazioni attuali sulla guerra e la morte) e nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace).
Era anche un mondo che si considerava pienamente legittimato a dominare gli altri continenti grazie alla superiorità della propria civiltà. È stato in particolare M. Weber che ai primi del ‘900 si è posto il compito di spiegare – attraverso il confronto con il diverso corso delle grandi civiltà orientali – l’eccezionale sviluppo europeo, a suo avviso caratterizzato dal progresso del razionalismo e dello spirito di libertà. Weber è l’unico grande scienziato sociale che fonda nelle origini della “modernità” la nozione stessa di Europa.
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Tra le due guerre: due idee di Europa si confrontano e si combattono
Ai fini del nostro ragionamento, dopo il crollo dei grandi imperi, e la nascita della Società delle Nazioni, due cambiamenti meritano di essere segnalati.
L’Europa allargata
Una nuova geografia. Il primo cambiamento è che dopo la Prima guerra mondiale l’idea di Europa si afferma allargandosi verso est, abbandonando quella nozione «stretta» che Voltaire aveva teorizzato nel secolo dell’illuminismo: è l’Europa delle piccole nazioni e dei pan movimenti, ma anche della Mitteleuropa, con i suoi forti contrasti tra città e campagna, tra intellettuali e contadini, l’Europa crogiolo di religioni. Questo passaggio verso una diversa geografia dell’Europa è cruciale, essenziale per capire la storia del ‘900 (l’Europa del ‘900 va guardata da Odessa, ha scritto Dan Diner nel 1999): è da lì che va ricostruita la storia della Shoah, la storia del fallimento delle democrazie apparentemente vincitrici dopo la Prima guerra mondiale, ed è da lì che occorre partire per comprendere il successo della seconda costruzione europea nella seconda metà del secolo.
La Società delle Nazioni come laboratorio
Il secondo elemento da sottolineare per questa fase è il fatto che un tentativo di costruire organizzazioni capaci di arginare le pulsioni distruttive che la rottura di civiltà aveva provocato, ci fu (è l’argomento dello scambio di lettere tra Freud e Einstein su Perché la guerra nel 1932 sotto l’egida della Società delle Nazioni). Si è soliti leggere la storia dei tentativi democratici tra le due guerre soprattutto come una storia di fallimenti (il che è indubbio), ma una storiografia attenta al lungo periodo ha rintracciato nella Società delle Nazioni un luogo di elaborazione di una visione ‘regionale’ della crescita economica europea e un luogo di formazione delle classi dirigenti: Europa monetaria (organismi di regolazione finanziaria), Europa sociale, (elaborazione di una collaborazione corporativa in funzione della stabilità – OIT), ricerca di una collaborazione per settori produttivi (anticipando la Ceca). Si pensi al progetto di Stati uniti di Europa presentato da Briand nel settembre 1929 alla Società delle Nazioni, alla collaborazione che si mantenne in questi organismi tra i vari paesi, Italia compresa, fino al 1934-35, a figure come Albert Thomas o a Coudenhove-Kalergi, il primo che ha l’idea di unire il carbone tedesco e quello francese (v. P. Bertella Farnetti e il numero di “Memoria e Ricerca”, 14, 2003). Dunque anni in cui la crisi economica del 1929 blocca il memorandum sugli Stati uniti d’Europa, ma nasce anche il New Deal, si affermano le tendenze neo corporative ma anche Keynes, scoppia la ‘guerra civile europea’ ma è ancora viva la Società delle Nazioni.
L’Europa unita come speranza di salvezza dalla guerra
Cresce anche una organizzazione internazionale degli storici europei, che affrontano nei loro congressi una storia plurale e «larga» d’Europa sotto l’egida della Società delle Nazioni, si moltiplicano anche i progetti di educazione alla pace, grazie anche alla collaborazione con gli organismi pacifisti delle donne (E. Guerra, Il dilemma della pace. Femministe e pacifiste sulla scena internazionale. 1914-1939, Roma, Viella, 2014).
L’idea di Europa negli anni ‘30, ricorda Verga, assume tanto il volto della nozione di crisi (dominata dal panico e dalla paura: la definizione è di Marc Bloch nel 1935) quanto (e basterà citare, tra gli altri, i nomi di Croce, Huizinga, Dawson) di rifugio: “un’ulteriore speranza di salvezza”, come ricorderà Febvre chiudendo il ciclo delle sue lezioni nel 1944. Febvre aggiungeva però: “Ma come farla, quest’Europa, che non poggia su alcuna realtà?”.
E’ a questa domanda, come già a quella degli “apocalittici” del primo dopoguerra, che, fra le due guerre, rispondono idealmente quegli storici che, scegliendo di parlare di spazi, città, fiumi, al crocevia dei confini degli Stati allora belligeranti nel cuore del Nord-Europa, come luoghi di comunicazione, anziché di scontro (si pensi alle città medievali di Pirenne, al Reno di Febvre, o ai saggi di storia comparata di Bloch), intendono esplicitamente coltivare negli uomini la speranza di uno spiraglio di luce per la convivenza franco-tedesca del futuro.
Volpe, Croce e Chabod: lo scenario italiano negli anni ’30 e ‘40
In Italia due idee di Europa si confrontano negli anni tra le due guerre: da un lato, una idea della storia d’Europa come Europa delle nazioni, storia di guerre tra Stati, o nella migliore delle ipotesi, ricerca dell’equilibrio (una concezione alla quale offrì un ampio contributo la scuola romana di Gioacchino Volpe) e, dall’altro, un’idea, quella di Croce (la sua Storia d’Europa nel secolo XIX è del 1932), che vedeva la salvezza della civiltà europea nell’affermazione di un progetto di pace e di cooperazione. Poi c’è soprattutto Chabod e il suo ristabilire le origini dell’idea di Europa nell’illuminismo. Nella premessa al suo corso sull’idea di Europa dato all’università di Milano nel 1943-1944, polemizzando amichevolmente con Carlo Morandi che si era fermato all’800, dichiara di non condividere la ricostruzione storica dell’allievo perché questa si era fermata all’800 e non era risalita al 700: infatti, se l’obiettivo delle lezioni era quello di chiarire la funzione storica del concetto di Europa in passato, era solo guardando al ‘700 che, a suo avviso, si rendeva possibile conciliare l’idea di Europa con quella di nazione, l’unità della civiltà europea con la molteplicità dei toni nazionali, spiegare cioè: – “il suo divenire da semplice «concetto», «idea», il suo trasformarsi … da pura nozione in aspirazione e volontà, da mero acquisto dell’intelletto in fattore sentimentale e volitivo, da «conoscenza» in «valore»” .
Il nazismo e la “guerra civile” europea
Nel frattempo è l’Europa nazista che si afferma: la Germania estende all’intero continente europeo il suo Nuovo Ordine militare e razziale: dalla Francia all’Europa scandinava e danubiano-balcanica fin dentro la Russia. Tuttavia sarà proprio la dominazione di tipo ‘coloniale’ e razzista della Germania nazista a provocare nel corso della seconda guerra mondiale una rivolta spirituale e culturale nell’Europa occupata: è la cosiddetta “guerra civile” europea che sarà combattuta tra fazioni opposte di cittadini della stessa nazione con l’obiettivo di rifondare non solo il proprio paese, ma appunto l’Europa, su principi comuni di libertà e di cittadinanza (dei 55 milioni di morti che si calcolano per la seconda guerra mondiali, 40 furono europei).
Solo allora l’Europa da comunità costruita sulla idea di eccezionalità e che su tale superiorità scientifica e culturale aveva basato per secoli la legittimità del proprio dominio politico-militare extraeuropeo, diventa una realtà istituzionale, strumento di benessere per il più vasto numero dei suoi cittadini e modello di governo per i non europei: alla base vi è un accordo, un compromesso tra una pluralità di storie nazionali diverse, al quale la politica nazionale sa di doversi sottomettere, rinunciando a una parte della propria sovranità per non ricadere nel tunnel dell’imperialismo razziale (Bobbio).
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Il secondo dopoguerra
Oltre la costruzione identitaria
La vittoria di questa visione dell’Europa durante la Seconda guerra mondiale consente l’emergere di un’idea d’Europa che potremmo chiamare di tipo “funzionalista” e che è ben rappresentata, per il nostro paese, da A. Spinelli: l’Europa come funzione da scoprire e non come idea da affermare, un’Europa che è tutta da costruire, perché è più della somma della sue parti. Si pensi alla consapevolezza nei suoi scritti postbellici dello stretto legame tra prospettiva europea e soluzione del problema Germania o all’interesse di una concezione che, secondo quanto osservato da E. Di Nolfo, dava rilievo “con grande anticipo, al primato che le questioni dell’ordine internazionale avrebbero acquistato rispetto a quelle dell’ordine interno”.
Dopo il crollo della Seconda guerra mondiale, è solo abbandonando ogni desiderio di costruzione identitaria che i padri fondatori dell’Europa unita elaborano il linguaggio di un possibile terreno democratico-istituzionale di convivenza e di solidarietà, quello che era mancato fra le due guerre. Questo terreno democratico costituzionale condivide i principi fondamentali dei testi costituzionali: le costituzioni di Francia Germania e Italia nel dopoguerra si connotano per la combinazione di diritti civili (di libertà) e diritti sociali.
Oltre la volontà di potenza militare
Sul terreno dei rivolgimenti culturali vorrei anche richiamare l’attenzione su un aspetto importante e connesso all’estendersi già dal primo dopoguerra – ma soprattutto nel secondo – del riconoscimento del lavoro come valore fondativo della legittimazione dello Stato (si vedano i testi preparatori dell’AC nel 1946).
In questa fase l’Europa, come è stato detto, svolge per l’Italia un ruolo di àncora: àncora, in quanto solido aggancio al contesto europeo che consente anche la riammissione del nostro paese nel nuovo equilibrio delle potenze mondiali. In questa prospettiva si sottolinea il prevalere degli aspetti funzionali su quelli, diciamo così, ideali della istituzione Europa.
Per la prima volta dopo Westfalia l’Europa guarda dentro se stessa e cerca una sua collocazione nel mondo (il mondo occidentale) a partire non dalla volontà di potenza militare (il turno di questa passaggio di testimone, come ha spiegato vent’anni fa P. Kennedy, teorico del nesso tra potenza economica e potenza militare, è passato in questa fase agli Stati Uniti) ma di ricostruzione materiale e morale della propria comunità. In un certo senso è proprio questa disgiunzione tra potenza industriale e potenza militare che spiega il grande successo della ricostruzione postbellica europea; sono i cittadini europei che conoscono una vera età dell’oro (anche in virtù del loro essere baluardo e vetrina rispetto alla sfida del comunismo): l’economia gira in funzione della crescita di un PIL che non prevede spese militari per ciascun paese ma solo per la partecipazione della comunità europea alla più vasta comunità occidentale (NATO). Questo aspetto non dovrebbe essere sottovalutato: certo l’Europa non sarà più una grande potenza, nel senso di P. Kennedy, e gli storici degli anni ‘60-‘70 si affanneranno a spiegare le cause del suo dwarfing, del suo diventare nana. Eppure, scindendo le sue sorti dal possesso di una potenza militare ma collocandosi dentro il vasto mercato occidentale, l’Europa si garantisce una nuova forma di esistenza nel mondo in quanto modello di benessere economico e civile. E questo, come vedremo, avrà riflessi sui confini di questo continente, sia metaforici che reali.
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Le àncore in funzione
Il termine àncora ha un intuitivo valore per l’Italia uscita dal ventennio fascista su un doppio e congiunto terreno: a) àncora rispetto alla instaurazione e mantenimento della democrazia e b) àncora rispetto all’economia di mercato. L’Italia esce da un ventennio di regime fascista e con una forte componente popolare di sostegno a un partito comunista che era stato il protagonista militare del movimento di liberazione dal fascismo. Il paese si trova al di qua della cortina di ferro: dunque, democrazia e economia di mercato sono in qualche modo acquisiti, ma potrebbero anche essere variamente interpretati (problemi analoghi si pongono anche per la Francia che ha tuttavia tutt’altra storia alle spalle). La modalità di costruzione dell’Europa è appunto una di queste ‘interpretazioni’ non previste, anche se caldeggiata dagli Stati Uniti. È opportuno cioè operare qui una distinzione tra Europa e Occidente, per evidenziare, rispetto al terreno dei valori che connota la collocazione occidentale, il ruolo istituzionale e funzionale che accompagna invece la presenza dell’Italia in Europa, un ruolo attivo nella costruzione dell’Europa che non era affatto scontato in partenza.
Repubblicanesimo e cattolicesimo responsabile
Se pensiamo per esempio a De Gasperi europeista come a una figura isolata, ciò che in parte fu, rischiamo di sottovalutare il fatto che fu lui stesso un’ancora a cui si aggrappò una parte europeista dell’élite del paese. Voglio dire che la metafora dell’àncora funziona nei due sensi in Italia: è un’àncora esterna a cui ci si aggancia quando si apre un baratro, ma è anche un’àncora interna che si contribuisce a costruire in vista di futuri bisogni. L’Italia non solo usa passivamente l’Europa come àncora in momenti cruciali ma contribuisce consapevolmente a costruirla in previsione dei rischi che il paese può correre. E questo lo si deve alla presenza di una cultura europeista che in Italia era risalente ed era rimasta viva negli anni trenta non solo in esilio o nella prigione di Ventotene ma anche nel paese, con personalità come Croce e Chabod (e che si avverte persino in un certo europeismo antigermanico che si fa strada durante la guerra fascista, in alcuni convegni istituzionali – vi abbiamo accennato con Chabod – e che certamente non è lontana dalle motivazioni di Grandi, notoriamente filo britannico, il 25 luglio).
Sono comunque due i filoni culturali principali che ispirano l’europeismo postbellico: un repubblicanesimo di ascendenza risorgimentale, ma che si rafforza nell’antifascismo arrivando poi al Partito d’Azione, e una cultura di cattolicesimo responsabile: due culture diverse (illuminista e liberale la prima, comunitaria e cristiana l’altra) ma culture attive, presenti nel paese e sensibili all’importanza del momento. Testimonianza di questa singolare concordia è lo splendido discorso di de Gasperi alla conferenza per la pace di Parigi il 10 agosto 1946.
1946: le tre correnti
Vediamo intanto i primi, e per noi più importanti, passi della costruzione europea. Possiamo distinguere tre correnti in questa fase: quella “confederalista” (accordi fra Stati per una cooperazione estesa) che raccoglie il favore dei due grandi leader De Gaulle e Churchill; quella “federalista” (una federazione di europei e non di stati) che ispira figure come Spinelli, Olivetti o lo svizzero Denis de Rougemont, o i francesi André Voisin e Alexandre Marc; quella “funzionalista” (variamente intrecciata con le prime due correnti), secondo cui l’obiettivo dell’unità europea poteva essere raggiunto mediante integrazioni settoriali. Sono proprio quest’ultimi ad avere la meglio.
Il congresso dell’Aja e la Dichiarazione di Schumann
Maggio 1948, L’Aja, Congresso d’Europa: si riuniscono i rappresentanti di 17 nazioni. Per l’Italia, tra gli altri, De Gasperi, Spinelli, Olivetti, Silone, Visentini, Adenauer per la Germania, Monnet, Mitterand e Blum per la Francia, Churchill, Eden, MacMillan per l’Inghilterra. Nessuna decisione spettacolare emerge dall’incontro, ma il clima del tempo (lo Zeitgeist) è cambiato. Per esempio in aprile del 1948 nasce l’Oece (Organizzazione europea di cooperazione economica) fondamentale per accelerare la ricostruzione in Europa, poiché gli stati europei si impegnarono ad amministrare congiuntamente gli aiuti americani in Europa del Piano Marshall.
È questo un passaggio cruciale nell’attuarsi di una Europa-funzione di cui il grande prodotto sarà naturalmente la nascita della CECA (1952), un capolavoro che si deve in Francia alla élite della pubblica amministrazione, a Jean Monnet, commissario al Piano nel Governo francese e al ministro degli Esteri Schuman che riuscì a farla approvare a uno scettico Consiglio dei ministri. Era del resto diffusa la convinzione che i rapporti interstatali non potessero essere ristabiliti nelle forme e nelle consuetudini dell’anteguerra. Chiarissima la Dichiarazione di Schumann del 9 maggio 1950: “la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e viva può apportare alla civiltà è indispensabile al mantenimento delle relazioni pacifiche [..] L’Unione delle Nazioni europee esige che l’opposizione secolare tra la Francia e la Germania sia eliminata; l’azione intrapresa deve rivolgersi in primo luogo alla Francia e alla Germania”.
La CECA
Molta attenzione è stata posta alla filosofia che sta dietro alla dottrina europea, in particolare di Monnet: vi era la persuasione che l’Europa si sarebbe fatta modificando le condizioni economiche che determinano il comportamento umano. Come è stato osservato:
“L’affermazione che il processo di integrazione nasceva dalla messa in comune delle risorse rovesciava i criteri del metodo di unificazione che aveva presieduto in Europa la formazione degli Stati nazionali anteponendo l’integrazione economica a quella politica…In tale quadro si innesta una intuizione centrale delle proposizioni di Monnet. Le istituzioni indipendenti dagli Stati hanno una funzione quasi demiurgica nella concezione comunitaria che emerge dalla Dichiarazione Schuman. È infatti la debolezza degli Stati-Nazione che ha provocato le tragedie europee. Le nuove istituzioni debbono essere il cuore dell’invenzione comunitaria, e sono esse, insieme all’impulso politico degli ‘interessi’ che debbono guidare la trasformazione delle relazioni tra gli Stati, secondo una gradualità segnata dai Trattati, verso gli obiettivi proposti”.
La Dichiarazione e la Comunità carbo-siderurgica “indicarono un ‘metodo’ nuovo nei rapporti internazionali dell’Europa occidentale del dopoguerra, destinato non soltanto a provocare rompicapi ai giuristi tradizionali a causa della difficoltà di adattarvi le concezioni classiche del diritto internazionale, ma soprattutto a produrre iniziative successive, come quella che dette vita alla Comunità economica europea e alla Comunità europea dell’energia atomica” (ivi, p. 24).
La novità era sottolineata con prontezza da A. Spinelli che intitola il suo articolo sul “Mondo” (1-7-1950) Dal carbone all’Europa, spiegando che la Ceca era una grande occasione per l’unificazione europea, paragonabile al Piano Marshall: “E ciò perché il ferro è alla base dell’armamento moderno, sia perché è la materia prima essenziale dell’industria meccanica, la quale costituisce l’ossatura stessa dell’industria nazionale. Sottrarre alla competenza degli Stati nazionali il controllo sull’industria siderurgica e carboniera significa perciò o nulla o né più né meno che sottrarre loro la possibilità di organizzare in modo autonomo l’economia nazionale e la difesa nazionale”.
In maniera sorprendente l’Italia di De Gasperi aderisce subito alla Ceca, con l’obiettivo esplicito di ancorare un paese ancora fragile e diviso all’Europa occidentale, anche se sono contrari in quel momento non solo i partiti di sinistra ma anche gli industriali del settore.
Dalla CED alla CEE
Diverso era il caso dei paesi di piccole dimensioni, la cui adesione era il solo modo per conquistare uno spazio politico. Infatti sono proprio questi paesi insieme all’Italia i promotori del secondo “rilancio europeo” nella seconda metà degli anni 50, dopo il tentativo fallito di costruire la CED (Comunità europea di difesa), che porta alla costituzione della Cee nel 1957. E anche questo è frutto di una decisione prima procedurale, e poi settoriale. Quella procedurale è la decisione, presa al termine della conferenza dei ministri degli esteri dei Sei convocata a Messina dal ministro italiano Gaetano Martino (1-2 giugno 1955), di costituire un Comitato intergovernativo di esperti di alto rango incaricati di studiare la possibilità di integrazione in alcuni settori economici e di esaminare l’eventualità di una preparazione progressiva di un mercato comune generale. I negoziati (guidati da un altro convinto federalista europeo, il ministro belga Spaak) proseguirono a Venezia e a Bruxelles. Si era nel pieno della crisi di Suez, il che convinse la Francia della necessità di schierarsi per il rafforzamento del quadro europeo, se voleva continuare a svolgere un ruolo guida in Europa e nel mondo. Per l’Italia l’accettazione incondizionata delle regole della CEE apparve sul momento temeraria, almeno quanto l’accettazione della dichiarazione Schuman nel 1950, anche se ora l’industria era favorevole e così pure una parte socialista, mentre cresceva il consenso dell’opinione pubblica.
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Minoranze culturali all’opera
Il peso dell’azionismo nella linea funzionalista dell’Europa
Vorrei ora riflettere sull’élite italiana che contribuisce a costruire o che interpreta nel paese questa linea ‘funzionalista’ dell’Europa. Stabilita la doppia matrice, repubblicana e cattolica, si può intanto osservare che è una élite tutta antifascista, ma, in particolare per la componente azionista o ex azionista, anche con un forte senso delle istituzioni e dello Stato: lo si era visto del resto già nell’Assembla Costituente dove ex azionisti e repubblicani rivolgono la loro attenzione soprattutto al funzionamento concreto delle istituzioni statali e sono meno interessanti per esempio al dibattito sui partiti o sui diritti sociali. Per gli azionisti l’antifascismo implica un giudizio molto critico dei guasti provocati dal fascismo e dunque una linea di intervento riformatore soprattutto in materia di economia e di istituzioni amministrative; d’altra parte nel filone cattolico, oltre alla figura particolare di De Gasperi, esiste una forte apertura in senso sociale e di particolare sensibilità per il divario Nord Sud di ispirazione dossettiana e sturziana (Saraceno).
Il Mezzogiorno italiano
Sul Mezzogiorno, l’incontro tra i due filoni consente anche una apertura verso i socialisti riformatori. Si tratta di un élite politica ma anche amministrativa (direzione di enti pubblici, di istituti di credito; forte è l’ammirazione per l’amministrazione pubblica francese e per il Commissariat au Plan di Monnet) composta da personalità di alto valore e competenza che interpretano in maniera originale la linea europeista in Italia. La discussione che nel nostro paese si svolge in giornali e riviste come “Il Mondo”, “Tempo presente”, “Nord e sud”, “Passato e presente” fino a “Mondo operaio” degli anni 70, è da un lato dettata dai temi e dai tempi della guerra fredda, ma dall’altro mostra anche il contributo offerto da quella cultura alla elaborazione di una linea che affida allo Stato un ruolo attivo nel comporre le disuguaglianze sociali e che è tipicamente europea e europeista (ruolo anche dei Newdealisti americani, v. la tesi di Elisa Grandi sul modello Tennessee Valley Authority in Colombia).
L’europeismo e la spinta al riformismo
L’àncora europeista, per riassumere, dà forza all’ala riformatrice e pragmatica della nostra élite politica in entrambi gli schieramenti contrapposti, in particolare rispetto al Mezzogiorno: quelli che erano stati gli eroi dell’antifascismo si trasformano in tecnici prudenti e tenaci con una visione simile al ‘funzionalismo” europeista: la combinazione cioè di decisione procedurale che consente poi la decisione settoriale, in un quadro di necessario ricorso allo Stato. Nel lungo periodo l’Europa consente di dare spazio e forza alla corrente riformatrice, in tal modo aprendo la strada anche al riformismo del Pci: esemplare il caso di Antonio Giolitti che interprete del Pci alla Camera nella opposizione al piano Marshall, elabora proprio in quella occasione un suo specifico interesse per la programmazione economica di cui sarà l’ispiratore nei governi di centrosinistra. Lo stesso pragmatismo innovativo lo guida dal 1977al 1985 allorché fu commissario presso la Comunità economica europea, con la responsabilità della politica regionale europea. Come si legge nello studio recente fatto da G. P. Manzella sul suo operato a Bruxelles, “si deve, infatti all’azione di Giolitti se una politica fortemente ancorata sulle preferenze nazionali sia divenuta una politica ‘europea’. E’ in quegli anni che si supera la concezione di rigide “quote nazionali” per suddividere le risorse; che si afferma il metodo della programmazione, attraverso il quale si sarebbe influenzato il modo di ‘fare sviluppo’ dei diversi soggetti partecipanti alla funzione; che l’amministrazione comunitaria si attribuisce ed amplia i propri spazi di intervento diretti attraverso il “Fuori Quota”; che le amministrazioni regionali passano dall’essere osservatori del processo di distribuzione ad avervi un ruolo; che l’amministrazione comunitaria comincia a concettualizzarsi come una controparte contrattuale nei confronti degli Stati, con tutte le implicazioni che ne discendono in termini di condizionalità, controllo e valutazione”.
Interessante anche quanto emerso in quella giornata relativamente all’attenzione posta alla creazione di un corpo di funzionari altamente competenti.
Lo Stato sociale: un risultato “trasversale”
E’ su queste premesse che T. Judt, lamentando che ai giorni nostri si è soliti liquidare lo Stato sociale del ventesimo secolo come europeo e ‘socialista’, ricorda che in realtà esso nacque da un consenso trasversale del ventesimo secolo. Inoltre, aggiunge, e qui il ricordo della guerra giocava un ruolo importante, “gli stati assistenziali ‘socialisti’ del ventesimo secolo non vennero creati come avanguardia di una rivoluzione egualitaria, ma come una barriera contro il ritorno del passato: contro la depressione economica e il suo violento esito polarizzante della politica estrema del fascismo e del comunismo. Gli Stati assistenziali erano quindi Stati preventivi. [..] Grazie a mezzo secolo di prosperità e sicurezza, in Occidente abbiamo dimenticato i traumi politici e sociali dell’insicurezza di massa… E, di conseguenza, non ricordiamo per quale motivo abbiamo ereditato questi Stati sociali e cosa portò alla loro creazione”.
Vi è in queste parole l’esigenza di una narrazione storica dell’Europa che sappia sottolineare, in analogia con quanto è stato fatto per la nazione (negli anni ’80 escono libri innovativi come quelli di Mosse, Anderson, Gellner, Hobsbawm), l’importanza di un processo di costruzione identitaria dell’Europa legata allo spazio comunicativo, all’opinione pubblica, al tramite culturale, al ruolo delle élites amministrative e intellettuali.
Spunti storiografici e pedagogici per una storia dell’Europa
Segnali in questo senso esistono e andrebbero valorizzati. Penso a una storia dell’Europa vista attraverso le élites che si impegnano nella costruzione europea, o il racconto della politica per la storia svolta dal Consiglio d’Europa dall’anno della sua istituzione (1949) in poi: un’opera complessa, sia a favore di un progressivo avvicinamento e incontro tra le diverse storiografie nazionali, sia dal punto di vista pedagogico, per la ricerca dei temi dell’insegnamento della storia nelle scuole secondarie in forme non identitarie: se ne parla a lungo nell’opera di Verga ma è questo un tema su cui sono in corso ricerche anche da parte di giovani studiosi italiani. Così come un caso interessante di studio è quello delle politiche di cooperazione allo sviluppo da parte della CEE, uno degli ambiti, assieme alle politiche commerciali, più importanti dell’attività delle istituzioni europee sulla scena internazionale. Esse hanno consentito e richiesto alla CEE di individuare per la sua azione sul versante esterno degli obiettivi precisi, degli strumenti e dei metodi, dei principi da rispettare e dei valori da promuovere. Per queste ragioni, le politiche di cooperazione allo sviluppo hanno rivestito un ruolo significativo nel processo di evoluzione dell’integrazione europea, una occasione di riflessione sul significato e sugli obiettivi della presenza della CEE sulla scena internazionale e di elaborazione del suo profilo internazionale: come gestire il rapporto con le vicende passate, e in particolare con le vicende coloniali. Da quanto si intuisce da queste ricerche risulta interessante studiare come le élites di questi paesi (in particolare le ex colonie) abbiano guardato alla comunità europea e come d’altro canto siano cambiati i paradigmi della Unione nella promozione della stabilità regionale e nella integrazione, ricorrendo ai temi della democrazia, dei diritti umani, della buona amministrazione.
Nella politica con i paesi del Sud l’Europa costruisce se stessa e la propria immagine. Quale immagine?
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Dopo Maastricht: l’Italia e l’Europa nel mondo
Siamo così entrati nell’ultimo ventennio, il dopo Maastricht. È in questo decennio che le motivazioni che stavano alla base della nascita della comunità europea nel dopoguerra mutano di natura. Il 1989 e il crollo dell’Urss fanno improvvisamente venir meno le ragioni che avevano consentito all’Unione europea di nascere, consolidarsi e allargarsi: motivazioni comunemente rintracciate dalla storiografia nel contrasto tra capitalismo e collettivismo, tra democrazia e comunismo. Si torna dunque a interrogarsi su che cosa tiene insieme l’Europa. Una risposta (che troviamo anche in Judt) sembra imporsi: il ruolo dell’elaborazione della memoria storica che, declinata diversamente nei singoli Stati, ha tuttavia trovato ovunque un terreno comune, il rifiuto delle guerre civili infra-europee.
Gli anni Novanta e la globalizzazione
Il momento è ben messo a fuoco, in un articolo del 1999 dal titolo L’Europa del sangue versato, da Giuseppe Sacco: due fenomeni hanno caratterizzato la storia degli anni Novanta, l’europeismo (cioè un disegno politico che mira a conservare e rafforzare alcune delle funzioni degli Stati europei) e la globalizzazione (cioè un evento che sfugge al controllo politico e che prefigura, anzi, la fine degli Stati nazionali). In effetti, si osservava, la globalizzazione rischia di snaturare l’identità europea, di danneggiare il significato profondo dell’Unione europea così come si è venuta costruendo. Una identità che non è fatta di frontiere, a parere di Sacco, ma di volontà di associazione tra popoli che in comune hanno non solo obiettivi economici (l’interdipendenza economica, il mercato comune) ma anche e soprattutto politici: la pace. I due tipi di obiettivi, come ben sapevano i padri fondatori, sono strettamente intrecciati: l’Europa è dunque un gruppo di ex nemici coperti di gloria e di infamia, che hanno scoperto nelle rovine della guerra che cosa sia essere uniti dal sangue versato e da un cambiamento politico e morale profondo. In virtù di questo segno distintivo l’europeismo è il solo grande progetto politico che non solamente sia sopravvissuto alla tragedia del XX secolo, ma che da lì ricavi la sua forza.
Il ruolo della società civile
Un progetto politico porta con sé il problema del soggetto politico, che ora è rintracciato non tanto nel popolo europeo ma nella società civile, nella opinione pubblica, cardine della democrazia. Soprattutto in Germania, nel decennio successivo alla riunificazione, si dibatte attorno al tema della ‘società civile’, sia nelle scienze sociali che nella storiografia. In questa discussione su che cosa sia la società civile e in quali parti d’Europa essa già esista, la categoria assume significati diversi, spaziando tra l’ascendenza habermasiana e la valenza anglosassone. La discussione sulla vitalità della società civile quale perno della democrazia accompagna sia la nuova prospettiva storiografica di un’Europa allargata a Est che la riflessione sul futuro politico dell’Europa unita. Al centro si colloca la nozione di cittadinanza come forma di solidarietà di tipo completamente nuovo rispetto a quella, originariamente ‘ascrittiva’, di popolo, mentre si cerca nel succedersi delle modifiche dei Trattati della Comunità europea e dell’Unione una forma di progressiva costituzionalizzazione, fino all’approvazione della Carta dei diritti fondamentali al vertice di Nizza del dicembre 2000.
La nazione di cittadini: homo europaues vs. civis europaeus
Dal nostro punto di vista, può essere ancora interessante sottolineare l’intreccio che questo processo apparentemente tecnico-giuridico rivela con la discussione sulla identità europea e sulla sua storia, in particolare la dicotomia tra homo europaeus e civis europaeus. Come è stato osservato da Habermas, la nazione di cittadini non deve essere confusa con una comunità di destini prepolitica, plasmata da una discendenza, una lingua e una storia comuni. Confondere i due concetti significa non cogliere il carattere volontario di una nazione di cittadini, la cui identità collettiva è inscindibile da quel processo democratico dal quale essa stessa scaturisce.
In questa prospettiva, che Habermas si augura di poter estendere alla formazione dell’opinione pubblica europea, il problema dell’identità non può essere allora affrontato andando alla ricerca dei ‘precedenti’ storici dell’idea d’Europa, una strada tutta interna, non dissimile da quella battuta dagli storici ‘nazionalisti’ dell’Ottocento. Piuttosto, ha osservato P. Costa, “il problema dell’identità europea può essere impostato storicamente soltanto in quanto si cerchi nel passato non una realtà univoca e consolidata, ma uno sterminato repertorio di possibilità”.
E tra queste possibilità vi è il richiamo, enunciato nel Trattato sull’Unione europea, alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, il che significa riconoscere “l’esistenza di un modello costituzionale europeo di fatto venutosi a determinare nella effettività delle pratiche costituzionali operanti nei diversi paesi europei, al di là delle evidenti differenze pur esistenti tra quei paesi e tra le loro rispettive costituzioni positivamente vigenti”.
Da allora, nelle speranze di alcuni politici, giuristi, e intellettuali ‘illuminati’, la nozione di cittadinanza sembra poter sostituire quella di nazione. L’Europa salva se stessa e la propria presenza sulla scena mondiale grazie alla costruzione delle istituzioni europee.
Crisi economica e crisi della cittadinanza sociale
Torniamo alle prime battute, là dove abbiamo ricordato che questo andamento ha incontrato seri ostacoli nel corso dell’ultimo decennio, a seguito di due eventi paralleli: da un lato l’abbandono nel 2007 (formalmente, da parte del Consiglio europeo) della Costituzione europea (o meglio del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa approvato dai paesi membri, allora 25, nel 2004, ma bocciato tramite referendum nel 2005 da Francia e Olanda) e dall’altro – subito dopo – per l’impatto della grave crisi economico finanziaria globale scoppiata nel 2008. A seguito di quell’evento la collocazione stessa dell’Europa nel mondo ha subito (e provocato) tensioni di tipo economico, politico e militare (per esempio, con i paesi ex colonizzati) che hanno prodotto o accentuato spinte opposte in senso identitario.
E’ in quest’ultimo decennio che il quadro sembra essersi rovesciato: la crisi finanziaria globale mette in crisi quella promessa di cittadinanza sociale che era la base comune del civis aeuropeus; la divisione nord/sud sta sostituendo quella est / ovest.
“Oggi in Europa la crisi della legittimità democratica è dovuta al tempo stesso al fatto che gli stati nazionali non hanno più né i mezzi né la volontà di difendere o di rinnovare il ‘contratto sociale ‘ e il fatto che le istanze dell’Unione europea non hanno nessuna predisposizione a cercare le forme e i contenuti di una cittadinanza social superiore” (E. Balibar, Crisi e fine dell’Europa?, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, p.134).
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Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
Approvata dal Parlamento europeo nel novembre 2000, è stata sottoscritta dal presidente di turno dell’Unione Europea (UE) nel 2007. Come stabilito nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (versione risultante dal Trattato di Lisbona del 2007), pur non essendo integrata nel Trattato, la Carta ha lo stesso valore giuridico di quest’ultimo.
La Carta enuncia i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini europei e di tutte le persone che vivono sul territorio dell’Unione. Si compone di 54 articoli e di un preambolo, in cui sono richiamati i valori spirituali e morali dell’UE.
Il contenuto della Carta.
Il capo I enuncia l’inviolabilità della dignità umana e il diritto all’integrità della persona, che implica il rispetto del ‘consenso libero e informato’ del paziente, impone il divieto di esperimento sugli esseri umani, di clonazione e di fare del corpo umano o delle sue parti una fonte di lucro, e la proibizione della tortura, delle pene inumane o degradanti, della schiavitù, del lavoro forzato e della tratta degli esseri umani.
Il capo II è dedicato alle libertà: personale, privata e familiare, di pensiero, coscienza o religione, di espressione e informazione, di riunione e associazione, delle arti e delle scienze, professionale. A esse si affiancano i diritti all’obiezione di coscienza e alla protezione dei dati personali e l’estensione del diritto di proprietà alle opere intellettuali. È garantito il diritto d’asilo e sono vietate le espulsioni collettive o le estradizioni verso Stati nei quali vige la pena di morte (Estradizione. Diritto internazionale).
Il capo III afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, da cui derivano il divieto di ogni forma di discriminazione, il rispetto di ogni diversità culturale, religiosa e linguistica e le pari opportunità tra uomini e donne. Una parte rilevante è dedicata ai bambini, agli anziani e ai disabili.
Il capo IV concerne la solidarietà: si riconoscono i diritti dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa, alla negoziazione e al ricorso ad azioni collettive (compreso lo sciopero), alla protezione contro il licenziamento ingiustificato, a una efficace tutela della salute e della sicurezza sul lavoro; si proibisce inoltre il lavoro minorile; si riconosce il diritto alla protezione giuridica, sociale ed economica delle famiglie e la tutela della maternità; si stabiliscono il diritto all’assistenza sociale e sanitaria per tutti e, in particolare, la tutela sociale e l’assistenza abitativa per i bisognosi, l’accesso ai servizi di interesse economico generale, la tutela dell’ambiente e la protezione dei consumatori.
Il Capo V, relativo alla cittadinanza, afferma che ogni cittadino può votare ed essere eletto al Parlamento europeo e ai comuni, e può circolare e soggiornare liberamente negli Stati membri (Libera circolazione delle persone).
Il Capo VI, concernente la giustizia, stabilisce, tra l’altro, il diritto a un giudice imparziale, i principi di ‘presunzione di innocenza’ e di proporzionalità tra pena e reato, il diritto di non essere giudicati due volte per lo stesso reato.
Infine, il Capo VII contiene disposizioni generali relative all’ambito di applicazione e alla portata dei diritti garantiti dalla Carta.