La Shoah nell’Europa orientale: testi, immagini, luoghi. Una riflessione e un progetto.
Ghetto di Varsavia (1940-1943), durante l’occupazione tedesca della Polonia: costruzione del muro del ghetto attraverso la via Świętokrzyska vicino all’incrocio con la via Marszałkowska.
Di sconosciuto – “Warszawskie getto” Warszawa 1988 – United States Holocaust Memorial Museum, Fotografia #37295 (Photograph description based on discussion at Kolejka Marecka Forum (Post # 7)), Pubblico dominio, Collegamento
Abstract
Malgrado le sue evidenti dimensioni e la sua significanza dal punto di vista storico, lo sterminio degli ebrei sul fronte orientale e, in particolar modo, nei territori occupati dell’Unione Sovietica è rimasto per lungo tempo l’aspetto meno indagato dell’annientamento della popolazione ebraica europea. Sono almeno tre gli elementi che, avendo condizionato la raccolta delle fonti, sono stati alla base di tale ritardo: in primo luogo il divieto, per oltre quarant’anni, di accedere alla vastissima documentazione che l’Armata rossa sottrasse ai tedeschi, nel corso e alla fine delle ostilità, e a quella, non meno ampia, che le commissioni militari d’inchiesta sui crimini di guerra produssero durante il lavoro di accertamento delle responsabilità; in secondo luogo la sottovalutazione della Shoah come evento sterminazionistico distinto e la tendenza a “universalizzare” lo sterminio; infine la difficoltà per le comunità sopravvissute di costituire un corpus di fonti sulle esperienze vissute dagli ebrei in quanto ebrei.
È con la liberalizzazione degli accessi agli archivi e l’acquisizione di un inedito patrimonio di materiali che si è dato impulso alla ricerca. In Russia e in tutti i paesi post-comunisti si sono potute avviare serie indagini, che hanno spesso avuto – al di là degli obbiettivi di carattere propriamente storico – forti ricadute dal punto di vista dell’uso pubblico della storia. Se, da un lato, hanno infatti fatto riaffiorare la percezione ebraica dello sterminio, dall’altro, hanno spinto ad affrontare i nodi irrisolti delle relazioni tra nazionalità, che implicavano a loro volta questioni delicate quali: il sostegno locale alle truppe di occupazione e le ragioni del collaborazionismo; la responsabilità personale delle popolazioni locali nel massacro dei concittadini ebrei; la natura pubblica del genocidio e la sua funzione esemplare; la persistenza di un antisemitismo spesso alimentato dalla convinzione che i “giudei” siano stati il principale supporto
dell’oppressione comunista; realtà e difficoltà del soccorso.
L’articolo riflette sui nuovi approcci adottati nella storiografia della Shoah a partire dal momento in cui si sono iniziati a riconsiderare i “luoghi” del genocidio sul fronte orientale, ricollocando l’evento in uno spazio che è stato il più delle volte sfigurato, se non addirittura cancellato durante la guerra.
Omissioni
Già alla fine degli anni Novanta, Shari J. Cohen – con riferimento alla Slovacchia – definiva «oblio organizzato» la rimozione di Stato della Shoah, compiuta nel paese attraverso un processo di “degiudaizzazione” del genocidio a favore di una visione di tipo “nazionalistico” (conversione delle vittime ebree in vittime afferenti ad una più ampia comunità “nazionale”) o “universalistico” (riduzione del conflitto ad uno scontro tra fascismo e antifascismo)[1]. Questo modello ha condizionato a lungo la ricezione dell’Olocausto in tutti i paesi dell’Europa orientale, ma è in Unione Sovietica che ha iniziato a svilupparsi e ha preso forma compiuta.
Alla vigilia dell’invasione almeno cinque milioni di ebrei vivevano in Urss. Stando ai dati di un censimento del 1939, 3.100.000 erano stanziati all’interno dei confini propriamente sovietici (Russia, repubbliche socialiste d’Ucraina e Bielorussia); circa 1.900.000 risiedevano invece nei territori annessi nel 1939-40 in seguito al patto Molotov-Ribbentrop: 1.300.000 nella Polonia orientale, 255 mila negli stati baltici, circa 330 mila in Bessarabia e Bucovina settentrionale. Molti di loro, in particolare quelli che si trovavano nelle provincie situate più a Oriente, riuscirono a essere evacuati o a fuggire verso l’interno del paese; altri, pur senza essere soggetti alla leva obbligatoria, si arruolarono come volontari nell’Armata rossa e ne seguirono la ritirata; altri ancora erano già stati deportati in Asia centrale e in Siberia, dai territori annessi, sotto l’accusa di sionismo o nazionalismo borghese. Ma la maggior parte (2.750.000-2.900.000) restò nelle località finite sotto controllo tedesco e fu quasi totalmente sterminata. Il numero complessivo delle vittime della Shoah in Unione Sovietica, soprattutto a ragione della complessa realtà geopolitica delle zone occupate, resta difficilmente quantificabile. I dati variano infatti sensibilmente a seconda che si considerino i confini prima o dopo il 1939, che si calcoli o meno la popolazione deceduta nei campi di concentramento, oppure in relazione alla diversa valutazione dei movimenti di popolazione. Stando alle stime più attendibili, circa 1.500.000 cittadini sovietici di nazionalità ebraica che vivevano entro i confini fissati prima del 1939 furono trucidati dai tedeschi, il più delle volte a colpi d’arma da fuoco e in prossimità delle proprie case. Probabilmente oltre 200 mila perirono in combattimento come soldati o partigiani. Le rimanenti vittime (300-400 mila) abitavano nelle regioni annesse dopo il patto Molotov-Ribbentrop: nei tre stati baltici (Lituania, Lettonia, Estonia), nella Polonia orientale (zone occidentali dell’Ucraina e della Bielorussia), nella Bessarabia e Bucovina settentrionale (zone sottratte alla Romania nell’estate del 1940). Stando ad altre valutazioni, gli ebrei in territorio sovietico periti durante il conflitto sarebbero 2.733.000, compresi i decessi per cause non immediatamente riconducibili a fatti militari o per le privazioni subite anche nelle regioni non occupate; secondo altri dati ancora, il totale oscillerebbe tra 2,5 e 3,3 milioni: almeno la metà delle vittime della Shoah[2].
Lo sterminio degli ebrei nei territori sovietici occupati è però rimasto per lungo tempo l’aspetto meno studiato dell’annientamento della popolazione ebraica europea. Sono almeno tre gli elementi che, avendo condizionato la raccolta delle fonti, sono stati alla base del ritardo: in primo luogo, il divieto, per oltre quarant’anni, di accedere alla vastissima documentazione che l’Armata rossa sottrasse ai tedeschi, nel corso e alla fine delle ostilità, e a quella, non meno ampia, che le commissioni militari sovietiche d’inchiesta sui crimini di guerra produssero durante il lavoro di accertamento delle responsabilità; in secondo luogo, la sottovalutazione della Shoah come evento “sterminazionistico” distinto e la tendenza a “universalizzare” lo sterminio, dando mandato a storici e pubblicisti di non menzionare l’identità dei perseguitati; infine, la difficoltà per i sopravvissuti di costituire un corpus di fonti sulle esperienze vissute dagli ebrei in quanto ebrei, che rimasero confinate all’ambito familiare o strettamente comunitario.
L’inclinazione a cancellare gli ebrei in quanto ebrei dall’elenco delle genti massacrate dai tedeschi è, nel corso del conflitto, una strategia comune alle potenze del fronte alleato contro l’Asse. Essa prende forma pubblica, nell’ottobre del 1943, nella Dichiarazione di Mosca sottoscritta congiuntamente da Churchill, Roosevelt e Stalin[3]. Dopo la guerra, pur con oscillazioni notevoli e sotto l’influenza di motivazioni contraddittorie, il modello alleato decade progressivamente nella storiografia occidentale. In Urss, invece, il quadro d’interpretazione rimane inalterato e il discorso pubblico sulla Shoah viene subordinato al racconto della “Grande guerra patriottica” come mito di legittimazione della resistenza del popolo sovietico contro l’aggressore; una lettura che ha ampiamente influenzato il modo di scrivere la storia dell’Olocausto in tutti i paesi satelliti.
A partire dall’inizio degli anni Novanta, la liberalizzazione dell’accesso agli archivi e l’acquisizione di un inedito patrimonio di fonti ha dato un grande impulso alla ricerca, mutando ovunque in modo profondo conoscenze, rappresentazioni e interpretazioni. Non ho la possibilità di entrare nel merito dei singoli apporti. Mi limiterò ad un’osservazione generale intorno allo stato e al trattamento della documentazione resasi disponibile in quel periodo. Le pratiche di omissione hanno infatti avuto conseguenze importanti, spesso sottovalutate, sulla classificazione del materiale, visto che decine di migliaia di dossiers non erano mai stati collocati in collezioni appropriate. In altri termini, l’“universalizzazione” del genocidio ha lasciato tracce profonde anche ai differenti livelli degli archivi nazionali e locali. È diventato di conseguenza più difficile individuare e raggruppare, nella massa delle carte, i fondi che avevano relazione diretta con l’Olocausto, tanto più che, in assenza di riconoscimento della specificità della vittima, lo stesso termine “ebrei” era spesso assente negli atti (è il caso, ad esempio, dei materiali della Commissione straordinaria sovietica d’inchiesta sui crimini di guerra tedeschi). Per non parlare della manipolazione deliberata dei testi al momento della loro redazione[4]. Resta il fatto che il lavoro sulle “memorie nazionali dell’Olocausto” è stato così intenso negli ultimi trent’anni da consentire di superare «l’uso indiscriminato delle fonti di lingua tedesca per descrivere eventi che avevano avuto luogo fuori dalla Germania e che avevano colpito non tedeschi», ciò che Timothy Snyder ha definito un «episteme coloniale»[5]. Uno dei principali risultati della ricerca è stato proprio quello di fare riemergere e mettere a disposizione i “testi locali”, ovvero la documentazione in lingua yiddish, polacca, russa, ucraina, ecc., ridando così centralità alle vittime.
Testi e immagini
Le nuove indagini avviate negli anni Novanta hanno avuto forti ricadute dal punto di vista della società civile. Se infatti, da un lato, hanno permesso di ampliare le conoscenze sulla percezione ebraica dello sterminio, dall’altro, hanno spinto ad affrontare nodi irrisolti quali la natura pubblica del genocidio e la sua funzione “esemplare”; il sostegno locale alle truppe di occupazione e le ragioni del collaborazionismo; la persistenza di un antisemitismo spesso alimentato dalla convinzione che i “giudei” fossero stati il principale supporto dell’oppressione comunista; la realtà del soccorso e le difficili relazioni intercomunitarie.
Cadute le barriere imposte dal modello storiografico comunista, il processo d’introspezione storica è stato soprattutto traumatizzante quando l’opinione pubblica ha iniziato a confrontarsi con i dati sulle implicazioni personali nei massacri di concittadini ebrei, sulla realtà di una resistenza meno compatta di quanto non fosse stato tramandato, sugli interessi tangibili alla spoliazione totale delle comunità. In una delle prime importanti opere di sintesi, che raccoglieva contributi da tutta l’Europa postcomunista, John-Paul Himka e Joanna Michlic proponevano di distinguere due fasi nel processo restitutivo della storia e memoria dell’Olocausto: una prima fase, iniziata subito dopo la caduta del comunismo, che aveva assunto «forma (etno)nazionalista»; una seconda fase, a partire dalla fine degli anni Novanta, che poteva invece essere definita «progressiva, pluralistica, e civile»[6]. Era prevalsa dapprima una «visione etnica», contraddistinta da atteggiamenti difensivi riguardo al tema delle responsabilità, ma anche dall’emergere (o riemergere) di narrazioni a sfondo antisemita, ben diffuse tra politici, giornalisti e storici, in cui l’immagine dell’ebreo “oppressore” durante il periodo comunista agiva da sostituto di quella del “giudeo-bolscevico”[7]. In verità, molto si era già scritto sull’«antisemitismo senza ebrei» nell’Europa centro-orientale, espressione utilizzata all’inizio degli anni Settanta da Paul Lendvai per la Polonia[8].
Dopo la fine del comunismo, si è però sviluppata una nuova forma d’intolleranza che ha fortemente condizionato il modo di guardare alla realtà storica dell’Olocausto. Al centro di molte letture e commenti troviamo quello che Denise Rosenthal ha definito l’«ebreo mitico», figura immessa nel sistema di comunicazione di paesi dove le comunità ebraiche erano state quasi per intero sterminate. In un contesto spesso segnato da una profonda crisi economica, politica e culturale, essa è servita come strumento di mobilitazione sia a livello popolare che a livello intellettuale. Ha contribuito (ovviamente insieme ad altri fattori interni od esterni) alla formazione di comportamenti elettorali antipolitici, orientati verso proposte illiberali e verso l’“autoctonismo”. Si è avuta, insomma, una sorta di “reificazione” dell’ebreo che è andata di pari passo con una “feticizzazione” della storia nazionale, importante principio di legittimazione dell’identità collettiva in un periodo di complessa transizione. È stato come se la dignità collettiva della nazione potesse essere recuperata solo a spese di gruppi etnici minoritari. Da qui il riaffiorare di simboli etnocentrici, di miti a sfondo nazionalistico, accompagnati da un attivismo antidemocratico e da attese salvifiche che sono sempre state componenti di base dell’antisemitismo. L’«ebreo mitico» è diventato così l’epicentro di una complessa narrazione che includeva «nostalgia, teorie cospirative, capro espiatorio; che portava alla percezione di sé come “maggioranza-vittima” e faceva rivivere positivamente la mitologia […] del periodo tra le due guerre»[9].
La “produzione” di antisemitismo si è rivelata subito piuttosto intricata per motivazioni ideologiche, strati temporali e formazioni discorsive, come suggerisce una distinzione proposta da Michael Shafir, certamente non esaustiva ma suggestiva, tra un «antisemitismo nostalgico e autogiustificativo», orientato verso il passato; un «antisemitismo autopropulsivo», volto verso il futuro; un «antisemitismo utilitaristico», posizionato sul presente, e un più ambiguo «antisemitismo reattivo», che mescola tutti i precedenti e soprattutto è caratterizzato dalla recriminazione[10]. Per rimuovere l’omissione del “contesto” e realizzare un “testo” sottratto all’ideologia della nazione, le storiografie dovevano riuscire ad affrontare temi spinosi quali il riconoscimento dei crimini e della collaborazione fattiva delle popolazioni locali agli eccidi; la commemorazione delle vittime; l’identificazione e, in alcuni casi, l’incriminazione dei responsabili di crimini di guerra; la documentazione degli eventi; l’introduzione della didattica della Shoah nei curricula e la preparazione di adeguati materiali didattici; la restituzione delle proprietà.
La prima risposta è stata l’ambivalenza tra silenzio, minimizzazione e persino giustificazione del genocidio, nel tentativo di promuovere la storia della nazione tramite la costruzione di un potente mito interno, che poteva funzionare e preservare la propria plausibilità solo nella misura in cui erano oscurati gli aspetti più negativi del passato. In caso contrario, l’attore principale della narrazione – la nazione – avrebbe perso il suo monopolio sulla vittimizzazione. Tra le principali strategie discorsive adottate troviamo la relativizzazione dei crimini; il tentativo di equiparare i crimini nazisti a quelli comunisti; la marginalizzazione del concorso negli eccidi a livello locale; l’enfatizzazione dell’aiuto concesso agli ebrei dai gentili; la minimizzazione, quando non addirittura la negazione, degli eventi e persino un rovesciamento della colpa. Spesso agli ebrei è stata attribuita la responsabilità di aver favorito, anche solo indirettamente, l’ascesa dell’estrema destra nel periodo interbellico e, di conseguenza, di aver preparato il terreno per le persecuzioni, in quanto sostenitori e fiancheggiatori dell’ideologia comunista e, soprattutto, dell’occupazione sovietica dopo il patto russo-tedesco (oltre che nel primo periodo postbellico).
Una delle più significative tendenze nell’Europa postcomunista è stata poi il tentativo di creare una “simmetria” tra i crimini del nazismo e quelli del comunismo, classificando questi ultimi come genocidio; un’operazione visibile soprattutto nelle repubbliche baltiche, dove si sono subito istituite speciali commissioni storiche incaricate d’indagare sulle occupazioni tedesca e sovietica, con lo scopo esplicito di suggerire un’equivalenza delle tragedie e, dunque, delle responsabilità. Al contempo, si è enfatizzato il ruolo degli ebrei comunisti sotto il potere sovietico al fine di controbilanciare e anche giustificare il collaborazionismo. Posizioni simili, per quanto all’inizio più sfumate, le ritroviamo in altri paesi[11].
La seconda fase di reintegrazione della storia dell’Olocausto è stata caratterizzata, limitatamente al problema che stiamo affrontando, da un’adozione sempre più estensiva della nozione di “restituzione” (o “riparazione”), in quanto inclusiva di tutte le modalità, materiali e simboliche, di giustizia e storia compensativa[12]. Lo dimostra, in modo significativo, il lacerante dibattito intorno al massacro di Jedwabne promosso in Polonia dalle ricerche di Jan T. Gross, che per primo ha esaminato un caso di violenza collettiva antiebraica introducendo elementi fattuali in forte contrasto con l’autorappresentazione dei polacchi eroi e martiri[13]. Si produsse in quel frangente una frattura netta tra la posizione “autocritica” promossa dall’autore, che metteva in discussione un intero canone rammemorativo, e quella “autodifensiva” di chi respingeva le responsabilità interne nel massacro, accusando Gross di divulgare idee ostili alla nazione e persino d’incitare all’odio razziale[14]. Il dibattito è stato paragonato, a giusto titolo, a quanto avvenne in Francia nel 1981, dopo la pubblicazione dell’opera di Michael Marrus e Robert Paxton sul regime di Vichy e gli ebrei[15]. La ricerca sviluppatasi in seguito in Polonia ha conosciuto una forte accelerazione nel corso degli anni: monografie scientifiche e raccolte documentarie, creazione di centri di studio specializzati con specifici progetti, implementazione di musei e siti commemorativi. Oggi tutto ciò potrebbe apparire superato di fronte alle più recenti evoluzioni della polityka historyczna nel paese, di cui non possiamo qui tracciare il percorso. Ciò che conta però, è che, di fronte alle dispute e lacerazioni, di cui quella su Jedwabne rappresenta solo il punto di partenza[16], appare degna di nota la relativa rapidità con cui, pur tra molte resistenze, si è colmato il divario prodotto dall’«oblio organizzato» di Stato[17].
i fronte alle crescenti difficoltà che il processo d’integrazione dell’Olocausto nella storia nazionale ha incontrato, si sono moltiplicate le dichiarazioni di scetticismo intorno alla possibilità di trasmettere le acquisizioni della ricerca dalla cerchia ristretta degli studiosi all’opinione pubblica e all’intera società[18]. Non condividiamo tale pessimismo, pur nella consapevolezza che lo schema istituzionale di occultamento od omissione nella storia dell’Olocausto è la trasformazione di un discorso che affonda le sue radici nelle profondità delle culture nazionali, che riproducono di continuo i loro miti e pregiudizi. A nostro avviso, non bisogna infatti sottovalutare la componente perlocutoria intrinseca alle diverse forme di rappresentazione dell’Olocausto, tali da rafforzare obblighi etici e promuovere identità solidaristiche. Ecco perché occorre guardare con interesse a quel fenomeno importante della contemporaneità che consiste nella crescente “ibridazione” tra forma narrativa, testimonianza o cronaca in prima persona, memoria collaborativa, storia orale e ricerca storica propriamente intesa.
Negli ultimi decenni, il modo di concepire la ricerca su guerra e conflitto, violenza e genocidio, si è profondamente modificato anche per effetto di una straordinaria espansione delle tradizionali “zone d’archivio”, comprese quelle orali, narrative, visuali, materiali, archeologiche. Si sono sviluppate originali forme di negoziazione tra estetica, etica, politica e storia, nuove tipologie di “memoria culturale” delle collettività, che risultano sempre più indispensabili per la costruzione sociale del passato. L’impressione generale che si può ricavare dall’analisi del lavoro compiuto nelle diverse storiografie è proprio quella di una consapevolezza storica sempre più diffusa, spesso raggiunta con l’aiuto della letteratura, del cinema, dell’arte, del teatro, della musica, vale a dire grazie a «mediatori di deposito e pratiche culturali» che rappresentano una condizione indispensabile per la costruzione sociale del passato e senza il cui sostegno, come afferma Aleida Assmann, «non è possibile dar vita ad alcuna memoria generazionale o epocale»[19]. Questa memoria non ereditaria «non si perpetua automaticamente, ma deve essere sempre riplasmata, sancita, comunicata e adattata. Individui e culture la ricostruiscono interattivamente attraverso la comunicazione linguistica, le immagini e la ripetizione rituale»[20].
Uno spazio senza ebrei
Il 29 settembre 1944, lo scrittore di lingua yiddish Itzik Kipnis pronunciò a Kiev una orazione funebre in occasione del terzo anniversario del massacro di Babij Jar – la profonda e larga voragine dove, fra il 29 e il 30 settembre 1941, le truppe tedesche sterminarono, a colpi d’arma da fuoco, 33.771 ebrei. Il locutore manifestava molte e contrapposte emozioni: ad esempio, il desiderio di rappresaglia nei confronti dei responsabili della strage e la pietà per le vittime ebree, disperse in un’immensa fossa comune o ridotte in ceneri sparse sul terreno. Ma ciò che più turba nelle sue parole è una difficoltà di orientamento racchiusa in due domande poste all’arrivo nello spazio aperto in cui si è consumato l’eccidio: «Dirupi sabbiosi franano sotto i nostri piedi e ci trascinano giù … Grandi burroni ricoperti, profondi fossati, boscaglia. “Dove siamo?” – “È questo qui il luogo?”»[21].
Nell’attraversare l’Ucraina liberata alla fine del 1943, lo scrittore Vasilij S. Grossman visitò centinaia di villaggi e di borghi. Incontrò gli abitanti, che gli raccontarono delle atrocità subite:
il lavoro schiavistico, […], i bambini portati in Germania, le case incendiate, i granai svuotati, le forche nelle piazze e nelle strade, i fossati dove si fucilava per il più piccolo sospetto di contatto con i partigiani, gli insulti, i maltrattamenti, le imprecazioni, la corruzione, l’ubriachezza e la prepotenza, la selvaggia dissoluzione dei criminali che, per due anni, avevano disposto del destino, della vita, dell’onore, dei beni di milioni di ucraini.
Tra quei milioni di ucraini, Grossman non trovò però un solo ebreo superstite. Non fu accolto da nessun pianto e lamento, non sentì né una voce né un rumore. «Dov’erano centinaia di migliaia di ebrei, vecchi e bambini? Dov’erano milioni di persone che, tre anni prima, vivevano pacificamente insieme agli ucraini, lavorando in questa terra?» – si chiedeva nel saggio L’Ucraina senza ebrei. Le conclusioni, alla fine dell’attraversamento della regione, in cui era peraltro nato, erano state desolanti:
Non ci sono ebrei in Ucraina. In nessun luogo – Poltava, Char’kov, Kremenčug, Borispol’, Jagotin –, in nessuna delle grandi città, delle centinaia di cittadine, delle migliaia di villaggi, incontrerete gli occhi neri, pieni di lacrime, delle bambine, sentirete la voce mesta di una vecchia, vedrete la faccina olivastra di un neonato affamato. Silenzio. Quiete. Un intero popolo è stato selvaggiamente assassinato […]. Non è la morte in guerra con le armi in mano, ma la morte di persone che in qualche luogo hanno lasciato la casa, la famiglia, il campo, le canzoni, i libri, le tradizioni, la storia. È l’omicidio di un popolo, la distruzione della casa, della famiglia, del libro, della fede. È la distruzione dell’albero della vita, è la morte delle radici, non solo dei rami e delle foglie. È l’omicidio dell’anima e del corpo di un popolo, la distruzione di una grande esperienza di lavoro, accumulata da migliaia d’intelligenti e ingegnosi mastri artigiani e intellettuali nel corso di generazioni[22].
È questo spazio “senza ebrei” che si trova oggi – a nostro avviso – al centro del rinnovamento degli studi sulla Shoah nell’Europa orientale. La ricerca storica si è infatti messa all’ascolto della voce dei soldati ebrei (uomini e donne) dell’Armata rossa e dei lavoratori evacuati nelle retrovie che, dopo la fine del conflitto, tornarono nelle loro terre e diventarono i testimoni della Shoah dopo la Shoah. Vale a dire: i testimoni di politiche che non includevano la conservazione dei segni della distruzione degli ebrei “in quanto ebrei” nella ricostruzione del territorio. L’Europa orientale è dunque anche il territorio in cui ridisegnare la mappa della rimozione fisica, oltre che politica e istituzionale, dei segni della violenza della Shoah. Con l’avvertenza che la lotta contro la rimozione di tali tracce non riguarda solo l’azione distruttiva della guerra (gli anni dello sterminio realizzato dai nazisti e dai loro alleati o collaboratori), ma anche le azioni ricostruttive del dopoguerra, in una connessione che gli studi in corso mostrano essere sempre più inquietante. Il problema che vorremmo qui sollevare, delineandone – attraverso una serie di testimonianze – solo alcuni primi aspetti, è quello della mancata inclusione del passato ebraico nella ricostruzione materiale del territorio. Esemplare è, a tal proposito, la determinazione con la quale il governo sovietico si adoperò per far scomparire il luogo di massacro di Babij Jar dal paesaggio di Kiev: livellamento e rimboschimento del sito che doveva essere circondato, oltre che attraversato, da una imponente rete viaria; disegno di un piano urbanistico che prevedeva l’edificazione dell’intera area contigua; distruzione delle vestigia dei cimiteri presenti nella zona[23].
Le lotte dei soggetti, individuali e collettivi, intraprese per resistere alla cancellazione fisica dei luoghi ebraici che avevano reso l’«Ucraina senza ebrei» ci consentono oggi di pensare a un tempo della Shoah che va oltre la fine della guerra, modificando il modello evenemenziale 1939-45. Il “trattamento” di rimozione riservato al luogo del genocidio non solo rese difficile la messa a punto di una mappa in cui comparissero tutti i “punti” di massacro di popolazione[24], ma disorientò anche i sentimenti d’appartenza dei sopravvissuti all’ambiente e alla sua storia. Ai tentativi, messi in opera da reduci e sopravvissuti, di restaurare la dignità dei luoghi della distruzione, di dare una adeguata sepoltura alle vittime ed erigere dei memoriali (matseyve), fu infatti opposta una sorta di «invisibilità memoriale»: la mancata inclusione del passato ebraico nel futuro della ricostruzione, come dimostra ad esempio il completamento dell’abbattimento di un gran numero di cimiteri, soprattutto a partire dalla fine degli anni Quaranta, per consentire lo sviluppo delle reti viarie e la riqualificazione dei tessuti urbani; una ricostruzione che fu realizzata come se l’ebraismo non facesse parte integrante della storia del territorio e non vi avesse impresso un segno[25].
Rovine
Dopo la fine della guerra il rapporto delle popolazioni con gli ebrei fu spesso accompagnato, in tutta l’Europa orientale, dalla violenza collettiva. È nota soprattutto la situazione della Polonia con il caso emblematico dei tumulti nella città di Kielce (4 luglio 1946), che portarono alla morte di oltre quaranta ebrei sui circa 200 sopravvissuti allo sterminio nazista. Ma simili pogromy si produssero ovunque, per esempio, a Białystok, Cracovia, Lublino, Łódź, Rzeszów, Varsavia. Notizie più frammentarie si hanno sugli eventi occorsi in territorio sovietico. È però ormai possibile affermare con sufficiente certezza che, tra il 1943 e il 1946, in particolar modo in Ucraina, i casi di violenze nei confronti degli ebrei aumentarono in modo esponenziale nelle zone già soggette all’occupazione tedesca. Uno degli episodi più gravi si consumò a Kiev, tra il 4 e il 7 settembre 1945. Non fu mai riconosciuto ufficialmente e solo in tempi recenti se ne sono avute ricostruzioni abbastanza circostanziate. Una seconda fase di ostilità si produsse nel periodo 1948-53, stavolta nel contesto della campagna antisionista e della lotta al cosmopolitismo, che vide riemergere anche stereotipi a sfondo razziale.
Gli ebrei superstiti, dispersi o sfollati, che rientrano o tentano di rientrare nelle città, nei villaggi, nei borghi appena liberati, vengono accolti con astio, sono oggetto di soprusi amministrativi e discriminazioni, con difficoltà estrema riescono a far valere i diritti di proprietà o di usufrutto, quando non diventano il bersaglio delle violenze antisemite. Agli sconvolgimenti provocati dalle vessazioni fisiche e dalla perdita delle famiglie, non di rado si aggiunge il trauma di ritrovarsi di fronte ai persecutori o, più frequentemente, ai complici e ai delatori. Molte lettere parlano delle difficoltà della convivenza con chi ha denunciato e depredato i vicini ebrei, ha occupato le loro abitazioni o è subentrato nei loro impieghi; esprimono indignazione nel vedere aggirarsi in libertà i responsabili di persecuzioni ed eccidi, per giunta spesso armati perché chiamati a “difendere la patria”; manifestano stupore nello scoprire che chi aveva avuto ruoli di direzione sotto l’occupazione tedesca continua a ricoprire quegli stessi incarichi o a esercitare altre importanti funzioni amministrative.
L’annientamento degli ebrei (in particolare, donne vecchi bambini) era però un “fatto” ben noto alle popolazioni locali e le tracce materiali degli eccidi, malgrado i tentativi di cancellazione messi in opera dai tedeschi, restavano chiaramente visibili o percepibili. Nel 1946 il poeta Jakov A. Chelemskij, già corrispondente di guerra, scrisse dei versi che ci consegnano un’immagine della distruzione fissata attraverso la materia più elementare: la cenere proveniente dai roghi dei corpi degli ebrei sterminati a Babij Jar (fatti disseppellire e poi bruciati per ordine dei tedeschi al fine di occultare l’eccidio), una materia ormai entrata nella vita quotidiana dei cittadini di Kiev:
Perché la brezza del lungofiume a me cara
Cosparge il passante di polvere furiosa?
E i granelli, impregnati di fumo e sangue,
Mi soffocano e accecano.
Il vento ha traversato le pareti carbonizzate,
Spazzando la cenere nei vecchi luoghi d’incendio.
Fa mulinare sul Kreščatik le ceneri sacre,
Polvere soffocante che scende da Babij Jar.
Se sotto il fogliame dei castagni fiorenti
In questa città avete dimenticato il dolore passato,
Lo rammenterete investiti all’improvviso
Da una desolante nube di polvere e cenere[26].
L’assenza fisica dei perseguitati era un dato macroscopico sia in grandi città come Kiev, Łódź, Leopoli, Minsk, Varsavia, Vilnius, che nelle centinaia di borghi (shtetlekh) svuotati dei loro abitanti. La guerra lascia delle “rovine” materiali e mentali in tutta Europa. Ma nelle regioni orientali si “inciampa” a ogni passo in cumuli di fosse comuni, ruderi di sinagoghe incendiate, macerie di cimiteri devastati[27]. Soldati e civili devono affrontare il trauma che genera la visione di luoghi con resti umani disseminati in ogni direzione. La consapevolezza che la profanazione dei corpi non abbia fine emerge da corrispondenze e ricordi: migliaia di salme giacciono in pozzi e fossati privi di qualsiasi recinzione o in campi attraversati da strade; i siti degli eccidi, per quanto ben noti, sono privi d’indicazione e lasciati nell’incuria più totale; si percepisce un diffuso atteggiamento di disprezzo per le vittime che demoralizza gli abitanti rientrati nelle loro residenze e i combattenti in visita nei paesi d’origine. In una lettera inviata, nel dicembre 1945, dalla regione di Brjansk, il colonnello David A. Dragunskij, uno dei più famosi comandanti dell’Armata rossa, protagonista della presa di Berlino, lamentava il fatto che le autorità del suo villaggio non possedessero né un elenco delle persone massacrate né una mappa dei luoghi di esecuzione:
Nella mia terra, i bruti tedeschi hanno sterminato tutta la mia famiglia – complessivamente settantaquattro persone. Ma ciò che più mi ha turbato è che non sono state preparate delle tombe per accoglierne i resti. Le ossa delle mie sorelle e dei loro bambini sono sparpagliate per il campo, il bestiame le calpesta[28].
L’impatto con i luoghi del genocidio è ovunque traumatico e devastante: strade, piazze, abitazioni delle zone liberate portano i segni della volontà di distruzione della storia ebraica. Adam Broner, un ebreo polacco fuggito da Łódź per arruolarsi nell’Armata Rossa, rientra nella città natale nella prima metà di febbraio del 1945. Il luogo in cui viveva prima della guerra gli appare «deserto». Anche le strade circostanti, tutte incluse nel ghetto liquidato nell’autunno del 1944, presentano «un simile vuoto». Ma è la vista del cimitero in senso proprio, già distrutto dai tedeschi nel 1942, a scuoterlo di più: «I nazisti non [vi] avevano risparmiato i morti, a partire dai loro stessi nomi» – allusione al fatto che le lapidi, «invece di segnare i luoghi di pace eterna del defunto», erano servite per pavimentare i marciapiedi delle strade e il più delle volte erano state poste, per sommo disprezzo, in modo da farne calpestare le iscrizioni[29]. Tornato una seconda volta a Łódź dopo la liberazione, scoprirà attonito che nella sua strada non ci sono più case:
Come avevano fatto a sparire gli edifici? […] Si era sparsa la voce che nel ghetto, ormai abbandonato, erano stati nascosti dei tesori. I polacchi avevano demolito tutti gli edifici alla ricerca del bottino. Nel maggio del 1945, l’area fu completamente devastata in un vergognoso atto di avidità e disprezzo per la memoria dei loro vicini ebrei[30].
I cimiteri – chiamati per tradizione non solo “casa dell’eternità (bet olàm)”, ma anche “casa della vita (bet ẖàyyim)” – quando non si presentavano distrutti e saccheggiati, privi di cancelli e recinzioni, con sepolture aperte e violate, resti esumati e disseminati, si erano trasformati in vasti spazi vuoti. È vero che al momento della liberazione lo stato d’abbandono riguardava luoghi di sepoltura di qualsiasi fede e comunità. Di fronte alla mancanza di sorveglianza, alla negligenza o insensibilità degli organi di governo, la popolazione a livello locale razziava ogni cosa che potesse dare una qualche forma di reddito o uso: croci e recinzioni servivano come legna da ardere; barriere di pietra e lapidi diventavano materiale da costruzione; cappelle e camere mortuarie erano impiegate come stalle; le distese erbose furono aperte al pascolo degli animali; i lotti di terreno vennero arati come orti o trasformati in discariche. Nel caso delle necropoli ebraiche, all’indifferenza istituzionale si affiancò l’ambiente ostile, al punto che divenne sempre più pericoloso avventurarsi in luoghi nei quali erano frequenti gli atti di saccheggio e vandalismo. La loro devastazione era stata perseguita con sistematicità in tutte le località soggette all’occupazione. Il più delle volte si era fatto ricorso a speciali brigate di prigionieri incaricate dai tedeschi di fare a pezzi i sepolcri, rovesciare le cripte, abbattere le recinzioni murarie.
Dawid Kahane, internato nel ghetto di Leopoli e dopo la liberazione rabbino capo dell’esercito polacco, rievoca quel «lavoro ignominioso», prolungatosi in città per circa un anno: «I nazisti non si accontentarono di infierire sugli ebrei ancora in vita, ma scaricarono la propria collera anche sui morti». Aveva dovuto partecipare in prima persona alla profanazione della necropoli di via Szpitalna, forse il più antico cimitero ebraico della Galizia orientale, «testimonianza silenziosa della vivacità della vita ebraica a Leopoli». Al momento di abbattere con le proprie mani le «pietre sacre», aveva avuto l’impressione di «lacerare il cuore pulsante dall’organismo vivente degli ebrei di Leopoli, un corpo che era in agonia»[31]. Anche Ephraìm Oshry, rabbino sopravvissuto all’internamento nel ghetto di Kaunas, evocava il «supplizio» che aveva provato nello scoprire la diffusione di simili atti sacrileghi in Lituania e dava il seguente responsum alla domanda etica se fosse consentito ad un ebreo di camminare sopra le pietre tombali: «Finché le iscrizioni sulle lapidi sono visibili e leggibili non c’è maggiore profanazione della memoria dei morti che permettere che siano calcate dai piedi delle persone o pestate da animali con il muso sporco di fango e escrementi». Non si poteva aggiungere oltraggio ad «una vergogna già così profonda»[32].
Il ghetto di Varsavia raso al suolo nel maggio del 1943, subito dopo la repressione della rivolta, è forse il simbolo della volontà di distruzione di una comunità insieme allo spazio storico della sua vita. Vladka Meed esitò qualche giorno, poco dopo la liberazione della capitale polacca, prima di avventurarsi tra le macerie del luogo in cui era stata internata prima di entrare nella resistenza, «in mezzo a muri squarciati e cumuli di calcinacci e detriti, sopra mattoni, pietre e grate arrugginite». Si mosse con circospezione, cercando
di non spostare nulla, di non modificare nulla tra quelle rovine, i resti delle vite dei nostri familiari più stretti e delle persone più care», nella convinzione che fosse necessario «guardare in silenzio la landa morta e desolata dove ogni pietra, ogni granello di sabbia era intriso di lacrime e sangue degli ebrei[33].
Conservazione o ricostruzione?
C’è una forte contraddizione tra l’indifferenza dell’antico pensiero ebraico per la conservazione dei luoghi di culto e la tensione restaurativa che anima i sopravvissuti, i quali cercano d’iscrivere il genocidio in spazi fisici destinati espressamente a ricordare e commemorare. Sono rari coloro che raccolgono l’appello del poeta Julian Tuwim il quale, nel dare forma alla Polonia futura, scriveva nel 1944 che il modo migliore «per mantenere viva ed eterna la memoria del popolo massacrato tra le generazioni future» era quello di preservare il luogo (ovvero il ghetto) – «a Varsavia, come in ogni altra città della Polonia» – nella forma in cui si presentava alla fine della guerra: «un frammento conservato intatto […] in tutto il suo orrore di macerie e distruzione». Ne sarebbe così risultato – secondo Tuwim – un memoriale la cui «drammaticità» sarebbe stata «evidenziata dagli edifici moderni, dalle case di vetro della città ricostruita», sorte all’intorno[34].
Anche il rabbino Shìmon Efràti, richiamandosi alla distruzione del Tempio, chiedeva nell’aprile del 1948 che i luoghi della morte fossero «lasciati al loro destino, nella più totale desolazione», perché solo le vestigia di «un terreno abbandonato e di uno spazio vuoto» potevano descrivere o rappresentare in modo adeguato la catastrofe e perpetuarla attraverso le generazioni: «La distruzione può essere colta solo dalla negazione, dalla totale assenza di colore»[35]. Per comprendere l’originalità di tale posizione, basti pensare al fatto che l’idea di monumento come spazio vuoto (o Gegen-Denkmal / contro-monumento) in artisti come Jochen Gerz, Esther Shalev Gerz, Horst Hoheisel, risale solo agli anni Novanta[36].
Quelli di Tuwin e di Efrati, l’uno dal punto di vista laico e l’altro dal punto di vista religioso, erano responsa che avevano già elaborato un’idea di lutto, o meglio di pietà, che avrà grande importanza nella riduzione dell’ebraismo a un “fatto” mentale, proprio perché esso verrà in gran parte privato dei suoi “luoghi” in tutta l’Europa orientale e limitato nella sua azione di autonomia culturale. Ma, come si è detto, sono rari coloro che raccolgono tale invito. Malgrado le difficoltà, le iniziative di commemorazione si fanno negli anni sempre più frequenti. Ne abbiamo oggi una importante mappatura attraverso il progetto The Untold Stories presso Yad Vashem[37]. Potremmo intendere questa forma specifica di “pietà per i morti”, nata per rispondere alla profanazione dei corpi, come una sorta di ripresa delle pratiche delle confraternite che si prendevano cura della preparazione e sepoltura delle salme (la khevrà qaddishà). L’esigenza di ritrovarsi in assemblee commemorative, di salvaguardare i siti degli eccidi e promuovere l’installazione di semplici steli o altri segni sepolcrali, di riesumare i corpi violati e provvedere alla loro ritumulazione, di restaurare i camposanti vandalizzati, è manifestata sia da singoli cittadini che dalle comunità in fase di ricostituzione.
Ciò significa che il sentimento si trasforma lentamente in “istituzione” e l’istituzione rigenera la cultura comunitaria. La pietà per i morti diventa allora uno strumento di rigiudaizzazione da opporre alla crescente volontà politica di degiudaizzazione. L’ebraismo dell’Europa orientale si ricostituirà nelle reti rafforzate delle relazioni parentali, nelle strutture familiari allargate e, infine, nelle fervorose iniziative di gruppi che usciranno allo scoperto senza più preoccuparsi di un riconoscimento formale.
Note:
[1] S.J. Cohen, Politics without a Past: The Absence of History in Postcommunist Nationalism, Duke University Press, Durham (N.C.) 1999, pp. 85-118.
[2] A. Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, il Mulino, Bologna 2007.
[3] Vedi le fondamentali osservazioni sui meccanismi di “occultamento” e “rimozione” comuni a tutta l’alleanza di R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995, pp. 1141-1144 (ed. or. definitiva 1985).
[4] Come già rimarcava I. Altman, Centre russe de recherche et d’éducation sur l’holocauste, in Ja. FREDJ (sous la dir. de), Les archives de la Shoah, L’Harmattan/CDJC, Paris 1998, pp. 256-257.
[5] T. Snyder, Commemorative Causality, in “Modernism/modernity”, XX, 1, 2013, p. 79.
[6] J.-P. Himka, J.B. Michlic (eds.), Bringing the Dark Past to Light. The Reception of the Holocaust in Postcommunist Europe, University of Nebraska Press, Lincoln-London 2013, pp. 7-8.
[7] Su quest’ultimo mito, cfr. P. Hanebrink, Uno spettro si aggira per l’Europa. Il mito del bolscevismo giudaico, Einaudi, Torino 2019 (ed. or. 2018), a cui si però utilmente affiancare, per una diversa problematizzazione, A. Confino, Un mondo senza ebrei. L’immaginario nazista dalla persecuzione al genocidio, Milano, Mondadori 2017 (ed. or. 2014).
[8] P. Lendvai, Anti-semitism without Jews. Communist Eastern Europe, Doubleday, Garden City (N.Y.) 1971.
[9] D. Rosenthal, “The Mythical Jew”. Antisemitism, Intellectuals, and Democracy in Post-Communist Romania, in “Nationalities Papers”, XXIX, 3, 2001, pp. 420-421.
[10] M. Shafir, Varieties of Antisemitism in Post-Communist East Central Europe. Motivations and Political Discourse, in “Jewish Studies at the Central European University”, 3, 2002-2003, pp. 175-210.
[11] Il tema della formula di “simmetria”, poi convertita in quella di “doppio genocidio” e accolta nella Dichiarazione di Praga del 2008, meriterebbe ulteriori approfondimenti, soprattutto alla luce dell’approvazione da parte del Parlamento europeo, nel settembre 2019, della risoluzione “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, http://www.europarl.europa.eu/doceo/document/RC-9-2019-0097_IT.html. Saranno condotti in altra sede. Qui mi limito a rimandare alla ricostruzione di D. Katz, Is Eastern European “Double Genocide” Revisionism Reaching Museums?, in “Dapim: Studies on the Holocaust”, XXX, 3, 2016, pp. 191-220, e all’aggiornamento di L. Radonić, From “Double Genocide” to “the New Jews”: Holocaust, Genocide and Mass Violence in Post-Communist Memorial Museums, in “Journal of Genocide Research”, XX, 4, 2018, pp. 510-529.
[12] E. Barkan, The Guilt of Nations. Restitution and Negotiating Historical Injustices, Norton, New York 2000.
[13] J.T. Gross, I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 2000).
[14] Per una ricostruzione della controversia si veda, in particolare, A. Polonsky, J.B. Michlic (ed. by), The Neighbors Respond. The Controversy over the Jedwabne Massacre in Poland, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2004.
[15] M.R. Marrus, R. Paxton, Vichy et les Juifs, Calmann-Lévy, Paris 1981. Cfr. J.B. Michlic, M. Melchior, The Memory of the Holocaust in Post-1989 Poland, in J.-P. Himka, J. B. Michlic (ed. by), Bringing the Dark Past to Light, cit., pp. 422-423.
[16] Basti pensare alle recenti polemiche intorno a J. Grabowski, B. Engelking (red.), Dalej jest noc. Losy Żydów w wybranych powiatach okupowanej Polski [Notte senza fine. Il destino degli ebrei in contee selezionate della Polonia occupata], 2 voll., Centrum Badań nad Zagładą Żydów, Warszawa 2018, sfociate persino in un processo per diffamazione.
[17] Vedi l’importante messa a punto in A. Kichelewski, Ju. Lyon-Caen, J.-Ch. Szurek, A. Wieviorka (éd.), Les Polonais et la Shoah. Une nouvelle école historique, CNRS Éditions, Paris 2019.
[18] J.-P. Himka, J. B. Michlic (eds.), 2013, pp. 440.
[19] A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002, pp. 20-21
[20] A. Assmann, 2002, pp. 20-21.
[21] L’orazione di I.N. Kipnis è analizzata in A. Salomoni, Le ceneri di Babij Jar. L’eccidio degli ebrei di Kiev, il Mulino, Bologna 2019, pp. 120-126.
[22] Il saggio di V.S. Grossman è analizzato in Salomoni, 2007, pp. 173-175.
[23] Salomoni, 2019.
[24] Faccio qui riferimento alla nozione di “punctum” nell’accezione di R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, p. 28.
[25] Sui precedenti di questa linea di ricerca vedi soprattutto M. Meng, Shattered Spaces: Encountering Jewish Ruins in Postwar Germany and Poland, Harvard University Press, Cambridge 2011; Id., A Cemetery of Ruins: The Ghetto Space and the Abject Past in Warsaw’s Postwar Reconstruction, in J. Beinek, P. Kosicki (eds.), Re-mapping Polish-German Historical Memory: Physical, Political, and Literary Spaces since World War II, Slavica Publishers, Bloomington 2011, pp. 11-38; G.D. Rosenfeld, Building After Auschwitz. Jewish Architecture and the Memory of the Holocaust, Yale University Press, New Haven-London 2011.
[26] Versi tradotti in Salomoni, 2019, p. 8.
[27] Riprendo qui, nell’ambito di una indagine che vorrebbe essere di più ampio respiro, alcune prime riflessioni proposte in A. Salomoni, La seconda guerra mondiale e il fronte orientale. Spazio del genocidio e rovine ebraiche, in Tommaso Detti (a cura di), Le guerre in un mondo globale, Viella, Roma 2017, pp. 133-153.
[28] Lettera di D.A. Dragunskij, 4 dicembre 1945, citata in Salomoni, 2007, p. 200.
[29] A. Broner, My War Against the Nazis. A Jewish Soldier with the Red Army, The University of Alabama Press, Tuscaloosa 2007, pp. 101-102.
[30] Ivi, p. 106. Broner rimanda qui all’attività dei “cercatori d’oro” nei luoghi dei massacri, nei ghetti o nei cimiteri, invano denunciata da sopravvissuti e autorità religiose ebraiche. Cfr. J.T. Gross, Un raccolto d’oro. Il saccheggio dei beni ebraici, Einaudi, Torino 2016 (ed. or. 2011), e il film di Władysław Pasikowski, Pokłosie (2012).
[31] D. Kahane, Lvov Ghetto Diary, The University of Massachusetts Press, Amherst 1990, p. 104.
[32] E. Oshry, La Torah au coeur des ténèbres, Albin Michel, Paris 2011, pp. 247-248.
[33] Vl. Meed [F.P. Międzyrzecki], On Both Sides of the Wall. Memoirs from the Warsaw Ghetto, Hakibbutz Hameuchad Publishing House, s.l. 1972, pp. 333-334 (ed. or. 1948).
[34] J. Tuwim, My, Żydzi Polscy, a cura di Ch. Shmeruk, Livello Quattro, Roma 2009 (ed. or. 1984), pp. 18-19.
[35] R. Kirschner (ed. by), Rabbinic Responsa of the Holocaust Era, Schocken Books, New York 1985, p. 151.
[36] Cfr. J.E.Young, The Counter-Monument: Memory against Itself in Germany Today, in “Critical Inquiry”, 18/2, 1992, pp. 267-296.
[37] https://www.yadvashem.org/untoldstories/database/homepage.asp