Il conflitto russo-ucraino e i rapporti tra Nato e Federazione russa: una prospettiva storica
I presidenti Bush senior e Gorbačëv firmano il trattato a Mosca (luglio 1991).
Foto di Susan Biddle – http://bushlibrary.tamu.edu/research/gallery.php?id=37, Pubblico dominio, Collegamento
Abstract
L’articolo mira a tracciare una panoramica storica del suo complesso rapporto con Mosca, cercando di inquadrare l’invasione russa dell’Ucraina all’interno di una più lunga e ampia dinamica storico-internazionale. I rapporti tra NATO e Unione Sovietica (URSS) e, poi, soprattutto, tra NATO e Federazione Russa non sono naturalmente l’unico prisma attraverso cui leggere il conflitto russo-ucraino; essi sono, tuttavia, una chiave di lettura senza la quale è impossibile comprendere le ragioni, lo stato e le possibili evoluzioni di una guerra che sta già segnando un’epoca.
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The article aims to draw a historical overview of its complex relationship with Moscow, seeking to frame the Russian invasion of Ukraine within a longer and broader historical-international dynamic. The relations between NATO and the Soviet Union (USSR) and, then, above all, between NATO and the Russian Federation are, of course, not the only prism through which to read the Russian-Ukrainian conflict; they are, however, a key without which it is impossible to understand the reasons, status, and possible developments of a war that is already marking an era.
INTRODUZIONE: UNA CHIAVE DI LETTURA DEL CONFLITTO
Il conflitto russo-ucraino iniziato nel 2014 e culminato nell’attacco militare russo all’Ucraina nel 2022 è apparso da subito una guerra tra due paesi ma anche un più generale scontro tra Occidente e Federazione Russa. Al netto di rilevanti articolazioni interne, infatti, il blocco euro-americano è sembrato compattarsi in una comune condanna dell’aggressione russa e in un altrettanto comune sostegno all’Ucraina; pur non essendo entrati direttamente in guerra, gli Stati Uniti e i suoi alleati europei hanno espresso un livello di mobilitazione economica, politica, psicologica e persino militare tale da farne, di fatto, soggetti in causa. Allo stesso tempo, le strategie politico-militari e i processi di allargamento di quello stesso blocco sono stati identificati da fonti russe e da una parte significativa degli stessi commentatori occidentali come un fattore esplicativo fondamentale della guerra stessa. In virtù della sua composizione, della sua natura e della sua stessa missione, la North Atlantic Treaty Organization (NATO) è stata e continua a essere, in questo contesto, l’organizzazione occidentale più rilevante e, per questo, più discussa[1].
Lungi dal tentare di ricostruire e analizzare nello specifico i molteplici e ancora controversi interventi diretti della NATO nell’attuale conflitto, questo breve articolo mira a tracciare una panoramica storica del suo complesso rapporto con Mosca, cercando di inquadrare l’invasione russa dell’Ucraina all’interno di una più lunga e ampia dinamica storico-internazionale. I rapporti tra NATO e Unione Sovietica (URSS) e, poi, soprattutto, tra NATO e Federazione Russa non sono l’unico prisma attraverso cui leggere il conflitto russo-ucraino; essi sono, tuttavia, una chiave di lettura senza la quale è impossibile comprendere le ragioni, lo stato e le possibili evoluzioni di una guerra che sta già segnando un’epoca.
LA NATO NELLA GUERRA FREDDA: UN’ORGANIZZAZIONE ANTI-SOVIETICA (1949-1989)
Secondo la fortunata e notissima affermazione pronunciata dal suo primo segretario generale, Lord Hastings Lionel Ismay, la NATO venne creata essenzialmente per tre motivi: «keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down».
Concepita all’apice della prima guerra fredda, tra il 1948 e il 1949, la NATO nasceva, infatti, come un formidabile strumento di deterrenza verso un’Unione Sovietica ancora priva di una propria arma nucleare, una garanzia dell’impegno statunitense alla difesa dell’Europa Occidentale e una rassicurazione rispetto a qualsiasi nuovo proposito aggressivo da parte della Germania.
Inizialmente priva di una vera e propria struttura militare, l’organizzazione cambiò rapidamente natura una volta che, tra il 1949 e il 1950, l’URSS si dotò di una propria bomba atomica, Mao Tse-tung proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Nord guidata da un regime comunista appoggiato da Cina e URSS attaccò la Corea del Sud, importante alleato degli Stati Uniti (USA) in Asia Orientale. Posti di fronte a un nemico apparentemente più potente, esteso e aggressivo, sia gli Stati Uniti che i suoi partner europei convennero che ci fosse la necessità di una pronta militarizzazione dell’organizzazione. La semplice promessa di intervento statunitense, infatti, non pareva più sufficiente né a rassicurare gli europei né a inibire gli eventuali intenti bellicisti del leader sovietico Iosif Stalin. La NATO creò così due comandi supremi, entrambi a guida statunitense: il Supreme Allied Commander Atlantic (SACLANT) con sede a Norfolk in Virginia e il Supreme Allied Commander Europe (SACEUR) con sede a Casteau in Belgio. Le nuove strutture di comando, a loro volta, progettarono e realizzarono presto una serie di esercitazioni navali, misero a punto elaborati piani difensivi e allestirono una vasta rete di basi militari in tutti i principali membri europei dell’alleanza; come si venne più tardi a sapere, parallelamente, la NATO promosse e controllò, in collaborazione con la Central Intelligence Agency (CIA), anche una Stay Behind Net, un sistema segreto di resistenza da attivare nel caso di presa di potere da parte di movimenti o partiti comunisti o di invasione sovietica dell’Europa Occidentale.
Le nuove condizioni e il clima che queste vennero a determinare, allo stesso tempo, portarono alla scelta di ampliare la composizione e, di conseguenza, la copertura strategica e geopolitica dell’organizzazione. Originariamente composta solo da paesi che, con l’eccezione del Lussemburgo e la più significativa eccezione dell’Italia, confinavano con l’Oceano Atlantico, la NATO assunse una più spiccata dimensione mediterranea con l’ingresso di Grecia e Turchia nel 1952. Tre anni dopo, al termine di una lunga controversia politico-diplomatica tra Stati Uniti e Francia, si aggiunse all’organizzazione anche la principale potenza europea continentale: la Germania Ovest.
L’Unione Sovietica, che non aveva ritenuto necessario rispondere con un’organizzazione analoga alla nascita della NATO, si convinse a farlo quando questa si allargò alla Repubblica Federale Tedesca (RFT). Visto da Mosca, infatti, l’ingresso della Germania Ovest nella NATO segnava il definitivo inserimento della RFT nell’alleanza occidentale, il pericoloso riarmo di un potente nemico storico della statualità russa, e il primo caso in cui la NATO si espandeva fino ai confini di paesi europei alleati all’URSS. Dopo aver denunciato i precedenti trattati di amicizia con Parigi e Londra, il nuovo leader sovietico Nikita Chruščëv promosse un’alleanza militare formalizzata tra l’Unione Sovietica e tutti i paesi comunisti dell’Europa Centro-Orientale, con la sola, ovvia eccezione della Iugoslavia: il patto di Varsavia.
Con la piena inclusione della Germania Occidentale nella NATO e la contestuale nascita del patto di Varsavia nel 1955, la guerra fredda in Europa parve congelarsi; complice il processo di decolonizzazione, le due superpotenze trasferirono i propri, principali ambiti di confronto e conflitto nei paesi e nei continenti che erano stati a lungo dominati dalle potenze europee. La NATO, ciò detto, non cessò di rappresentare un pilastro fondamentale del sistema politico-militare globale degli Stati Uniti, tanto che, pur irritata dal presunto scarso contributo degli europei al suo mantenimento, tra il 1955 e il 1965 Washington incrementò costantemente i mezzi e gli uomini in dotazione all’organizzazione. Allo stesso tempo, la NATO continuò a essere vista come un indispensabile meccanismo di stabilità e protezione da parte dei governi e della maggior parte dell’opinione pubblica europea anche se, contestualmente, crebbe l’insofferenza verso l’evidente subordinazione strategico-militare dell’Europa Occidentale rispetto agli USA. Principale interprete di questo sentimento fu il presidente francese Charles de Gaulle, che, dopo aver ritirato la flotta mediterranea e quella atlantica dal comando NATO rispettivamente nel 1959 e nel 1963, si decise a riprendere il comando su tutte le forze armate precedentemente assegnate alla NATO e a chiedere la rimozione delle basi e delle truppe NATO dal territorio nazionale nel 1966. Otto anni dopo, nel 1974, l’esempio di de Gaulle fu seguito dal primo ministro greco Kōnstantinos Karamanlīs, che, in polemica verso il rifiuto dell’organizzazione di sostenere militarmente Atene nel conflitto con la Turchia su Cipro, decise a sua volta di ritirare il proprio paese dal comando militare della NATO.
Queste parziali defezioni si aggiunsero alla più generale sensazione che, nel contesto della grande distensione, i dissidi economico-politici a livello transatlantico, la crescita dei sentimenti antiamericani nell’opinione pubblica europea e il netto rafforzamento dei comunisti in Francia, in Italia e, soprattutto, nel neodemocratico Portogallo potessero scuotere nelle fondamenta l’organizzazione. Ciononostante, la NATO seppe mantenere il proprio ruolo di garanzia dell’impegno statunitense alla difesa dell’Europa Occidentale, di contrasto al comunismo e all’Unione Sovietica e di controllo su una Germania rimbaldanzita dalla Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt. Nel 1980, a riprova, la Grecia fece ritorno nel comando militare integrato della NATO mentre, nel 1982, la stessa neodemocratica Spagna fece il proprio ingresso nell’organizzazione, pur restando fuori dal suo comando militare integrato per i successivi sedici anni.
La NATO, a sua volta, partecipò da protagonista alla seconda guerra fredda apertasi con l’invasione sovietica dell’Afganistan nel 1979 e culminata con la nomina di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti nel 1981. Di fronte al dispiegamento di una serie di missili a testata nucleare nei paesi membri del patto di Varsavia, in particolare, l’Alleanza Atlantica assunse la cosiddetta Double-Track Decision con cui minacciò l’installazione di nuovi missili nucleari in Europa a meno che l’Unione Sovietica non avesse accettato di rimuovere i propri; il rifiuto di Mosca, ufficialmente motivato dall’indisponibilità degli occidentali di includere le armi nucleari britanniche e francesi nel computo totale del proprio arsenale, portò all’effettivo dispiegamento dei cosiddetti euromissili in Belgio, Germania Occidentale, Gran Bretagna, Italia e Olanda nel 1983. Nello stesso anno, il carattere particolarmente realistico, la portata innovativa degli strumenti e delle strategie utilizzate e le dimensioni senza precedenti dell’esercitazione annuale Able Archer della NATO indussero i sovietici a interpretare l’operazione come una possibile copertura di un vero attacco nucleare contro l’Unione Sovietica. Senza che l’opinione pubblica mondiale ne fosse a conoscenza, Mosca si preparò seriamente a una guerra nucleare contro gli Stati Uniti e i suoi alleati europei[2].
LA NATO NELLA TRANSIZIONE: TRA RASSICURAZIONI ALL’EX NEMICO E RICERCA DI UN NUOVO RUOLO (1989-1991)
Tra il 1984 e il 1985, un ammorbidimento delle posizioni a Washington si combinò con un importante cambio di leadership a Mosca, determinando una rapida quanto inattesa fine della guerra fredda, sancita in un incontro tra il presidente statunitense George Bush e il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv a Malta nel 1989.
In questo contesto, la caduta del muro di Berlino e, poi, il repentino processo di riunificazione dei due stati tedeschi messo in moto dal cancelliere Helmut Kohl chiamarono direttamente in causa assetti e prospettive della NATO. Desiderosi di rafforzare un importante alleato e di consolidare la propria vittoria nella guerra fredda, gli Stati Uniti si mostrarono cautamente favorevoli alla riunificazione tedesca, purché questa avvenisse nel quadro dell’Alleanza Atlantica. Preoccupata per un’ulteriore accelerazione delle dinamiche disgregative in atto nel blocco orientale e nella stessa federazione e per l’eventuale necessità di dover rinunciare alla propria presenza militare nella Repubblica Democratica Tedesca, invece, l’URSS provò a riproporre l’idea di una Germania unita ma neutrale. Fallita questa opzione e trovandosi in una posizione troppo debole per potersi efficacemente contrapporre alla nascita di una Germania riunificata e membro della NATO, Mosca provò a trattare le condizioni della propria accettazione. Da una parte, Gorbačëv chiese e ottenne da Kohl che non venissero dislocate armi nucleari e truppe della NATO nei nuovi Länder orientali della Germania e che la RFT concedesse a Mosca un pacchetto di aiuti economici, oltre ad assumere l’onere di pagare per lo smantellamento delle basi sovietiche in territorio tedesco e il trasferimento di mezzi e soldati dell’Armata Rossa in URSS. Dall’altra, come recentemente dimostrato, Gorbačëv chiese e ottenne dal presidente Bush e dal segretario di Stato James Baker l’assicurazione che la NATO non si sarebbe allargata «one inch eastward»[3]. Lungi dall’essere una dichiarazione estemporanea, questo impegno faceva parte di una più ampia e apparentemente condivisa visione del ruolo e delle dimensioni che la NATO avrebbe dovuto avere nel nuovo ordine post-guerra fredda: un organismo di sicurezza collettiva interessato a stabilire un rapporto positivo e collaborativo con Mosca[4].
Nel 1990 la Repubblica Federale Tedesca inglobò Berlino Est e i cinque Länder della dissolta Repubblica Democratica Tedesca, restando, nella sua nuova conformazione, un membro della NATO. Subito dopo, tutti i paesi membri dell’Alleanza Atlantica firmarono a Parigi un trattato sulle forze armate convenzionali in Europa con i membri del patto di Varsavia; entrato in vigore nel 1992, l’accordo si inseriva nel contesto delle politiche di disarmo internazionale avviate da Stati Uniti e Unione Sovietica tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, proponendosi, in particolare, di ridurre gli armamenti convenzionali secondo una logica di sostanziale equilibrio tra i due gruppi di stati.
Nel frattempo, lo scioglimento del patto di Varsavia e la successiva disintegrazione dell’Unione Sovietica nel 1991 aprirono scenari nuovi per il sistema internazionale e per la stessa Alleanza Atlantica. Sconfitto e persino eliminato il suo nemico storico e la ragione stessa della sua fondazione, la NATO si trovò nella necessità di ridefinire il proprio ruolo e il rapporto con il principale erede dell’Unione Sovietica: la Federazione Russa, guidata dal presidente Borís Él’cin.
La ridefinizione del ruolo avvenne tra la metà del 1990 e la fine del 1991, quando il Consiglio Atlantico, principale organo decisionale politico dell’organizzazione, elaborò e adottò il nuovo Strategic Concept. Animati dalla consapevolezza e dall’ottimismo per le straordinarie trasformazioni in atto, i vertici dell’organizzazione riconobbero che un attacco da parte dell’Armata Rossa non rappresentava più né una prospettiva credibile né, di conseguenza, la principale minaccia alla sicurezza dei paesi occidentali. I rischi, semmai, provenivano da una più vasta e meno prevedibile gamma di fattori, comprendenti tensioni interetniche, dispute territoriali tra stati, proliferazione di armi di distruzione di massa, interruzione del flusso di risorse strategiche e azioni di terrorismo internazionale. In questo nuovo, più complesso contesto, l’Alleanza avrebbe dovuto mantenere la priorità di salvaguardare la libertà e la sicurezza dei propri membri, innovando profondamente i mezzi e le strategie con cui perseguire questo obiettivo. Da una parte, questo significava superare il precedente approccio basato sulla difesa militare per aprirsi a un più articolato ventaglio di strumenti politici, economici, sociali e ambientali capaci di assicurare solide condizioni di stabilità e ordine pacifico. Dall’altra, si trattava di passare da un atteggiamento conflittuale a un nuovo sistema di relazioni fondato sul dialogo e sulla cooperazione, sia a livello globale che a livello continentale. Un nuovo organismo, il North Atlantic Cooperation Council (NACC), venne appositamente creato per avere a disposizione un forum di discussione e collaborazione con i membri del dissolto patto di Varsavia e poter realizzare il complesso disegno di rinnovamento strategico proposto[5].
La Russia, in questo nuovo schema, assumeva la posizione di un junior partner con il quale costruire un sistema di sicurezza collettivo essenzialmente guidato e garantito dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei inquadrati nel patto atlantico[6].
LA NATO E LA RUSSIA NEL DECENNIO BREVE (1991-1999): L’INTEGRAZIONE MANCATA
Dopo essere entrata nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale e aver aperto trattative per l’ingresso nel G7 e nel Consiglio d’Europa, nel 1994, su proposta statunitense, Mosca firmò un importante partneriato per la pace con la NATO[7]: questo, a sua volta, faceva parte di un più complessivo programma di cooperazione bilaterale tra la NATO e tutti i membri del disciolto patto di Varsavia, oltre che i principali paesi neutrali europei. Sebbene il partenariato per la pace non costituisse una promessa di ingresso della Russia all’interno dell’organizzazione, il presidente statunitense Bill Clinton, alla vigilia della stipula, non la escludeva completamente; allo stesso tempo, pur aprendosi esplicitamente alla prospettiva di un allargamento orientale dell’organizzazione, esso si mostrava cauto sulla possibilità di ingresso per tutti i paesi dell’Europa Centro-Orientale, soprattutto per timore di allarmare e irritare i responsabili politici russi[8].
Ciò detto, una serie di eventi e dinamiche che si stavano parallelamente sviluppando sull’asse Washington-Bruxelles sembrò porsi in contraddizione rispetto all’obiettivo di integrare la Russia all’interno di un nuovo sistema di sicurezza collettivo europeo; questo, a sua volta, finì per creare apprensione e un malcelato senso di frustrazione e volontà di riscatto nella Federazione Russa. La prospettiva sempre più probabile di un allargamento orientale della neonata Unione Europea (UE), infatti, si combinava con il rischio, ancora più temuto a Mosca, di un ingresso degli ex alleati nel patto di Varsavia all’interno della NATO; a dispetto dei dubbi che albergavano all’interno della stessa organizzazione, la volontà statunitense di ampliare la propria sfera di influenza e prevenire la formazione di sacche di instabilità così come il pressante desiderio dei paesi dell’Europa Centro-Orientale di premunirsi da qualsiasi, eventuale riemergere della minaccia russa congiuravano chiaramente verso questo esito[9]. Lo stesso intervento militare in Bosnia-Erzegovina tra il 1994 e il 1995, condotto dalla NATO contro un tradizionale alleato della Russia e con il contributo diretto delle forze aeree tedesche, palesava la potenziale tensione esistente tra le sopite ma ancora vive ambizioni di grande potenza, gli interessi balcanici e le diffidenze antioccidentali di Mosca e le strategie di rilancio della NATO coltivate a Washington[10]. Mentre autorevoli studiosi statunitensi come Ronald Steel e John Mearsheimer e persino l’anziano ispiratore della dottrina del contenimento George Kennan sostenevano la sostanziale obsolescenza della NATO e ne preconizzavano un inevitabile tramonto, infatti, l’amministrazione Clinton usò l’operazione nella ex Iugoslavia anche per testare la coesione e la credibilità dell’organizzazione come perno di una rinnovata alleanza euroamericana e del più complessivo ordine internazionale post-guerra fredda[11]. Il ritardo con cui queste contraddizioni esplosero dipese essenzialmente dal drammatico livello di prostrazione economica della Russia e dalla contemporanea apertura di un lacerante fronte di conflitto interno in Cecenia.
La nomina di Evgenij Primakov a ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa nel 1996, tuttavia, annunciò un primo cambiamento di rotta della politica estera post-sovietica e, a sua volta, una prima esplicita modifica negli atteggiamenti russi verso la NATO e le sue strategie. Convinto della necessità di stabilire un maggior equilibrio tra le grandi potenze e ridurre la dipendenza della Russia dai paesi occidentali, Primakov si mosse infatti per creare un asse strategico con Cina, India e Iran, rafforzare l’integrazione della Comunità degli Stati Indipendenti e i legami tra i suoi membri e tentare di impedire l’allargamento della NATO nei territori del cosiddetto “Estero Vicino”.
Questa nuova linea si consolidò nel 1999, in concomitanza con la nomina di Vladimir Putin a primo ministro e, poi, presidente della Federazione Russa e, soprattutto, in coincidenza con l’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria nella NATO, seguito a breve dal lancio dell’operazione NATO Allied Force; condotta nel contesto della guerra del Kosovo, essa era priva, a differenza della precedente campagna militare in Bosnia-Erzegovina, di una formale autorizzazione delle Nazioni Unite. I vertici della Federazione Russa, per la prima volta in maniera così netta, criticarono e si opposero a entrambe le decisioni dell’Alleanza Atlantica, pur non riuscendo a esercitare la forza necessaria per impedirne l’attuazione. Gli Stati Uniti, a loro volta, scelsero di ignorare le obiezioni russe alle strategie atlantiche[12]. Il segretario di Stato Madeleine Albright, in particolare, era convinta che la NATO fosse uno strumento di pace che avrebbe portato stabilità e sicurezza a un sempre maggiore numero di paesi democratici; a suo avviso, per perseguire questo giusto disegno non c’era necessità né di richiedere né di ottenere l’assenso dei russi.
LA NATO E LA RUSSIA ALLA FINE DEL MOMENTO UNIPOLARE: UNA CRESCENTE DIVARICAZIONE DI INTERESSI E POSIZIONI (1999-2009)
Le tensioni esplose alla fine degli anni Novanta non cancellarono la volontà di mantenere aperto un dialogo. Se nel 1997 venne creato l’Euro-Atlantic Partnership Council (EAPC) per garantire un canale di regolare consultazione tra membri della NATO, paesi europei esterni alla NATO e repubbliche ex sovietiche, nello stesso anno venne firmato a Parigi il Founding Act tra la NATO e i suoi membri e la Federazione Russa. Partendo dal riconoscimento di interessi, obiettivi e principi comuni, NATO e Russia dichiararono solennemente di non considerarsi più nemici ma soggetti accomunati dal condiviso impegno a costruire un’Europa stabile, pacifica, libera e unita e, per questo, intenzionati a costruire un partenariato solido e duraturo[13]: su questa base, nel 1998, essi dettero vita al NATO-Russia Permanent Joint Council, inteso come forum di consultazione e collaborazione tra i due soggetti. L’importanza e, addirittura, lo «unique role in Euro-Atlantic security» giocato dalla Russia vennero ribaditi anche nello Strategic Concept adottato dall’Allenza Atlantica nel 1999[14].
In modo solo apparentemente paradossale, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contribuirono a un iniziale miglioramento delle relazioni sulla base della comune lotta contro la minaccia terroristica. Nel 2001, il Cremlino sostenne la decisione degli Stati Uniti di attaccare l’Afghanistan e, un anno dopo, al vertice NATO a Pratica di Mare, accettò di creare il NATO-Russia Council per portare avanti decisioni e progetti comuni in materia di difesa e sicurezza; la Russia arrivò persino a collaborare attivamente con gli Stati Uniti e, poi, con la stessa International Security Assistance Force (ISAF) della NATO in Afghanistan. Contemporaneamente, i vertici della NATO rassicurarono il Cremlino di non avere alcun piano per installare armi nucleari e basi militari permanenti nei nuovi paesi membri dell’Europa Centro-Orientale[15].
Queste promettenti intese, tuttavia, vennero presto minate da una crescente divaricazione di interessi e posizioni tra i paesi occidentali e la Federazione Russa[16]. La postura unilaterale assunta dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush nella guerra al terrorismo e nella contestuale aggressione all’Iraq nel 2003 si poneva in stridente contrasto con la visione multilaterale maturata all’interno della dirigenza russa. Allo stesso tempo, l’allargamento orientale dell’Unione Europea e, soprattutto, l’ingresso di Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia nella NATO nel 2004 rafforzarono in maniera consistente l’influenza e la presenza occidentale alle frontiere dello spazio post-sovietico. Il successo delle cosiddette “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e Kirghizistan tra il 2003 e il 2005, a sua volta, portò al potere élite filoccidentali nel cuore dello stesso “Estero Vicino” russo; pur fallite, le rivoluzioni colorate tentate in Azerbaigian, Bielorussia e Mongolia rafforzarono nei vertici russi la sensazione di un possibile, imminente contagio delle rivolte, oltre che di una regia esterna dietro la loro organizzazione.
Il cambiamento, peraltro, non riguardava solo il contesto generale ma gli stessi orientamenti della politica estera russa. La valutazione critica sulla presunta remissività della politica eltsiniana, infatti, si combinò con un netto miglioramento della situazione economica nazionale, favorito dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi e dalla decisione di riportare sotto controllo statale le risorse e le compagnie energetiche; a questo, inoltre, faceva da complemento la gravissima crisi economica che, tra il 2007 e il 2008, colpì gli Stati Uniti e tutti i suoi principali alleati. In questa situazione, la Russia non aveva più solo l’ambizione ma anche la possibilità materiale di ridurre la dipendenza e la soggezione dai paesi occidentali e inaugurare una politica più assertiva e, persino, apertamente revisionista. In un importante discorso tenuto alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2007, Putin criticò aspramente gli Stati Uniti, accusandoli di rappresentare una seria minaccia alla democrazia e alla sicurezza globale. In questo contesto, egli prese direttamente di mira la NATO, tacciandola di volersi sostituire alle Nazioni Unite come garante dell’ordine internazionale. La scelta della NATO di dislocare forze avanzate ai confini russi e, soprattutto, di ammettere nuovi paesi dell’Europa Centro-Orientale, a sua volta, venne esplicitamente denunciata come un tradimento degli impegni assunti e «una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia»[17].
Il Cremlino, coerentemente, si mosse per rafforzare il proprio asse con Brasile, Cina e India: pur privo di una struttura istituzionale, il cosiddetto BRIC si caratterizzava come un’alleanza di grandi stati accomunati da tassi di crescita elevati e dalla volontà di mettere in discussione l’egemonia euro-americana. Parallelamente, la dirigenza russa si orientò verso un più attivo sostegno alle minoranze russofone nei paesi vicini, alla ricerca di una più solida sfera di influenza in un’area geograficamente prossima ma politicamente a rischio di occidentalizzazione. Questa strategia trovò una prima, importante applicazione nell’intervento militare che la Russia svolse in Georgia nel 2008 per sostenere le rivendicazioni separatiste di Ossezia del Sud e Abcasia. Immediatamente dopo la fine delle operazioni militari, essa decise di riconoscere l’indipendenza delle due repubbliche e interrompere le relazioni diplomatiche con Tbilisi; parallelamente vennero sospesi gli incontri ufficiali del NATO-Russia Council[18].
Le azioni russe, a loro volta, facevano seguito alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo e al suo riconoscimento da parte della maggioranza dei paesi occidentali, oltre che all’importante vertice della NATO tenutosi a Bucarest nello stesso 2008; scontando le prevedibili proteste russe e i fortissimi dubbi dei rappresentanti belgi, francesi, italiani, olandesi, spagnoli e tedeschi, in quella sede, la NATO decise di aprirsi ufficialmente alla prospettiva di ingresso di Georgia e Ucraina e di installare sistemi di difesa missilistici in Polonia e Repubblica Ceca. Tutti i principali commentatori erano perfettamente consapevoli dell’impatto che questo avrebbe avuto sulle relazioni tra Alleanza Atlantica e Russia e, più in generale, tra Occidente e Russia[19].
LA NATO E LA RUSSIA ALLE PRESE CON LA NUOVA RIPARTENZA: IL FALLIMENTO DELL’ULTIMO TENTATIVO DI RICONCILIAZIONE (2009-2014)
Un importante tentativo di rilancio nei rapporti tra NATO e Russia coincise con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti e di Dmitrij Medvedev a presidente della Federazione Russa nel 2008. Se Medvedev, stante la continuità garantita dalla nomina a primo ministro dell’ex presidente Putin, sembrava preannunciare una linea di politica interna più liberale e un orientamento di politica estera più conciliante con le ragioni dei paesi occidentali, Obama e il segretario di Stato Hillary Clinton si attivarono immediatamente per impostare su basi nuove e, possibilmente, migliori le relazioni con la Russia. Questo proposito rifletteva una più generale volontà di adottare un approccio collaborativo e multilaterale alle relazioni internazionali, di avvalersi dell’aiuto russo nella soluzione di una serie di gravi crisi regionali, da quella iraniana a quella siriana, e di “pacificare” il fronte europeo nel momento in cui la formidabile ascesa cinese stava diventando la principale fonte di preoccupazione per gli strateghi statunitensi. Lo stesso Cremlino, dal canto suo, sembrava cercare una sponda con gli Stati Uniti per tentare di riequilibrare rapporti di forza con la Cina e all’interno del BRIC troppo sbilanciati a favore di Pechino.
Il cambiamento di clima nei rapporti tra Washington e Mosca ebbe un impatto diretto sulle stesse relazioni tra NATO e Russia. Se, da una parte, Stati Uniti e Federazione Russa firmarono nel 2010 l’accordo New START per ridurre gli armamenti nucleari offensivi nei due paesi, dall’altra, la NATO accettò di venire incontro alle richieste russe in materia di strategie militari e piani di allargamento. I progetti di installazione di sistemi di difesa missilistici in Polonia e Repubblica Ceca vennero temporaneamente abbandonati. Anche se Albania e Croazia vennero ammesse nel 2009[20], la più controversa e spinosa questione del futuro ingresso di Georgia e Ucraina venne prudentemente accantonata. In questa cornice di apparente, ritrovata armonia, nel 2011 NATO e Federazione Russa arrivarono a organizzare esercitazioni congiunte a livello di sommergibili e, poi, di velivoli militari; allo stesso tempo, vennero rilanciate iniziative di collaborazione sul territorio afghano, promosse operazioni congiunte di antipirateria nell’Oceano Indiano e avviate discussioni su una possibile missione comune per affrontare la questione delle armi chimiche siriane.
Tuttavia, tra il 2011 e il 2012, la promettente fase di rilancio nei rapporti tra NATO e Russia si interruppe bruscamente. Contraddizioni di fondo si sommarono a crisi e dinamiche più contingenti nello spiegare questo nuovo fallimento. Pesavano, ovviamente, le reciproche diffidenze ereditate dalla guerra fredda, oltre a una mancata interdipendenza economica tra Stati Uniti e Russia che sola avrebbe potuto offrire un motivo valido per mettere da parte sospetti e contrasti. L’allargamento della NATO a paesi tradizionalmente antirussi, inoltre, finì per ridurre ulteriormente il livello di fiducia reciproca. Su questo difficile sostrato si innestarono le diverse valutazioni sulla guerra civile siriana che contrapposero i principali membri della NATO e la Federazione Russa e le critiche del Cremlino contro l’intervento militare della NATO nella guerra civile libica del 2011.
Quando, imprimendo una torsione neoautoritaria alla politica nazionale, Putin tornò alla guida della presidenza della Federazione Russa per la terza volta nel 2012, le condizioni per un nuovo peggioramento nei rapporti tra NATO e Russia erano già tutte presenti.
Il detonatore venne offerto dalla rivoluzione ucraina[21]. Nel 2012, UE e Ucraina raggiunsero un’intesa di massima su un accordo di associazione. Sulla scorta delle preoccupazioni per le condizioni richieste da Bruxelles e sotto la pressione di Putin, allarmato dalla prospettiva di perdere un cruciale partner economico e politico, nel 2013 il presidente ucraino Viktor Janukovyč rifiutò di onorare l’impegno assunto con l’Unione Europea; contestualmente, egli scelse di avvicinarsi all’Unione doganale eurasiatica, composta da Bielorussia, Kazakistan e Russia, e di siglare un piano di azione bilaterale per un prestito finanziario e una riduzione dei costi del gas naturale con la Russia. Queste decisioni, aspramente criticate da USA e UE, contribuirono a innescare imponenti rivolte di piazza a Kiev che, nel 2014, portarono alla deposizione di Janukovyč e alla sua sostituzione da parte di Oleksandr Turčynov e, poi, di Petro Porošenko.
Sotto la guida di Porošenko, il nuovo governo ucraino annullò le recenti intese con Mosca e, per converso, firmò un accordo di associazione con l’Unione Europea insieme ai governi di Chişinău e Tbilisi, riconfermando, con ancora maggiore determinazione, la volontà di ingresso del paese nella NATO.
I RAPPORTI TRA NATO E RUSSIA NEL CONTESTO DEL CONFLITTO UCRAINO: VERSO UNA NUOVA GUERRA FREDDA? (2014-2023)
La netta accelerazione della politica estera filoccidentale impressa da Kiev, unita a misure interne volte a ridurre drasticamente il ruolo della lingua russa e della memoria sovietica all’interno del paese, contribuirono a far esplodere le tensioni negli oblast’ sud-orientali di Donec’k e Luhans’k, a maggioranza russofoni, e a suscitare la dura reazione di Mosca. A seguito di una rapida operazione militare e di un plebiscitario referendum sull’autodeterminazione, in particolare, la Russia annetté la regione ucraina della Crimea; contemporaneamente, essa rafforzò la propria presenza militare ai confini con l’Ucraina e offrì il proprio sostegno attivo alle forze separatiste nel Donbass[22].
La risposta dei paesi occidentali alle iniziative russe fu altrettanto pronta. Stati Uniti e Unione Europea imposero sanzioni economiche contro lo stato e singoli cittadini russi. I partner occidentali della Russia, allo stesso tempo, decisero di sospendere temporaneamente i rappresentanti di Mosca dalle riunioni del G8, cominciate nel 2007, pur mantenendo formalmente il paese all’interno dell’organismo. La stessa NATO, infine, assunse una posizione di aperta condanna dell’annessione della Crimea e dell’intervento militare russo nelle regioni separatiste ucraine, sostenendo esplicitamente la necessità di rafforzare il sistema difensivo dell’organizzazione e di considerare seriamente la possibilità di un prossimo ingresso dell’Ucraina. Su questa base, i vertici dell’organizzazione decisero di sospendere qualsiasi attività di collaborazione civile e militare con Mosca, anche se il NATO-Russia Council rimase formalmente in vita e, saltuariamente, continuò a riunirsi. Parallelamente, presero avvio i primi piani di addestramento dei soldati ucraini e venne rafforzata la militarizzazione dei membri orientali dell’organizzazione, sia come risposta alle politiche di riarmo nucleare russo che come riflesso dei più o meno giustificati timori di attacchi a membri orientali dell’Alleanza Atlantica: quantitativi rilevanti di armi pesanti vennero inviati in Bulgaria, Polonia, Romania, Estonia, Lettonia e Lituania, i movimenti di truppe e i voli di ricognizione aerea in Polonia e nei paesi baltici vennero intensificati e cominciarono a essere approntati siti di difesa missilistica in Romania e Polonia[23].
Nel frattempo, a causa della rottura consumatasi sulla questione ucraina e nel tentativo di reagire al tracollo dei prezzi degli idrocarburi, tra il 2015 e il 2016 Mosca ampliò lo spettro e la portata della propria offensiva antioccidentale: essa rafforzò ulteriormente i propri rapporti con la Cina; anche grazie alle operazioni condotte dalla neonata Compagnia Militare Privata “Wagner”, aumentò la propria penetrazione in Africa, America Latina e Medio Oriente; dopo aver sostenuto politicamente il governo di Bashar al-Assad, intervenne direttamente nella guerra civile siriana; contribuì a formare e scelse di aderire, infine, all’Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC)+, un’estensione dell’OPEC che, così, arrivò a rappresentare il 40% della produzione mondiale di petrolio[24].
A dispetto del presunto coinvolgimento russo a favore di Donald Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, il nuovo presidente degli Stati Uniti non contribuì in nessun modo a migliorare i rapporti tra USA e Federazione Russa e, neppure, tra NATO e Federazione Russa. Al contrario, come più volte espresso dal suo segretario generale Jens Stoltenberg, la NATO guardava con crescente apprensione al rafforzamento militare, all’intensificazione dell’attività spionistica e all’azione di sostegno ai movimenti separatisti filorussi all’interno di importanti repubbliche ex sovietiche da parte della Russia.
Allo stesso tempo, la scelta della NATO di ammettere il Montenegro nel 2017 e la Macedonia del Nord nel 2020 rappresentò, agli occhi di Mosca, una prova ulteriore della volontà occidentale di isolare e minacciare la Federazione Russa[25]. A questo, nel 2021, si aggiunse l’organizzazione di Defender Europe 21, una serie di esercitazioni multinazionali e interforze guidata dagli USA all’interno della NATO e condotta in maniera simultanea in 30 aree addestrative situate in 12 paesi europei; volta a verificare e consolidare la prontezza e l’interoperabilità alleata nella risposta a un’eventuale aggressione ai danni dei paesi europei, l’esercitazione rappresentò uno dei più imponenti dispiegamenti di forze NATO nella sua storia e, complice il clima già teso, contribuì in maniera significativa a preoccupare e irritare ancora di più i vertici russi.
Nello stesso anno, Putin dichiarò apertamente che una ulteriore espansione delle strutture e delle attività militari della NATO ai confini russi sarebbe stata considerata come un atto di guerra, chiedendo rassicurazioni formali in questo senso sia a Stoltenberg che al nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden. In un’atmosfera segnata dall’ambiguità russa sulla propria presenza militare in Crimea e dal rinnovato rifiuto occidentale di fermare la crescente militarizzazione dei paesi dell’Europa Centro-Orientale e negare la possibilità di ingresso dell’Ucraina nella NATO, il 24 febbraio 2022, la Russia lanciò un attacco su vasta scala contro il territorio ucraino, dopo aver ufficialmente riconosciuto le autoproclamate repubbliche di Doneck e Lugansk. L’obiettivo dichiarato dell’operazione militare russa era quello di attuare «la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina»[26]: un’ulteriore espansione orientale della NATO e, in particolare, la prospettiva di un suo sviluppo militare sul territorio ucraino venivano evocati come pericoli esiziali per gli interessi, la sovranità e l’esistenza stessa della Russia e, in quanto tali, presentati come ragione prima dell’intervento.
Mettendo da parte le divisioni sull’atteggiamento da tenere rispetto alla Russia e sulla stessa missione da attribuire all’organizzazione che avevano animato un decennio di riunioni e vertici, la NATO rispose in maniera determinata e compatta all’aggressione. La NATO Response Force venne immediatamente attivata e messa in stato di allerta, mentre ingenti truppe NATO vennero schierate a protezione di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Slovacchia e Bulgaria. Allo stesso tempo, i vertici dell’organizzazione guardarono con estremo favore alle richieste di ingresso prontamente formulate da Finlandia e Svezia e alle profferte di collaborazione avanzate dalla Svizzera.
Durante la riunione dei capi di Stato e di governo dei paesi membri della NATO tenutasi a Madrid alla metà del 2022, i vertici dell’organizzazione adottarono uno Strategic Concept che innovava profondamente rispetto a quello approvato dodici anni prima a Lisbona. Se nel 2010 la Russia veniva ancora definita come un partner strategico e l’eventualità di un attacco allo spazio euroatlantico veniva giudicata remota[27], dopo l’attacco all’Ucraina, la Federazione Russa veniva esplicitamente identificata come «the most significant and direct threat to Allies’ security and to peace and stability in the Euro-Atlantic area» mentre, per converso, «a strong, independent Ukraine is vital for the stability of the Euro-Atlantic area»[28]. La NATO affermava di non voler cercare il conflitto e di non voler porre minacce alla Russia ma, allo stesso tempo, si dichiarava intenzionata a lasciare la porta aperta a Ucraina, Georgia e Bosnia-Erzegovina e a rispondere, in modo coeso e responsabile, a ogni atto ostile condotto da Mosca; contemporaneamente, la sempre più stretta partnership strategica tra Cina e Russia e i loro presunti tentativi di sovvertire l’ordine internazionale venivano definiti come una sfida pericolosa e diretta agli interessi, ai valori e alla stessa sicurezza dei membri dell’organizzazione[29].
In questa prospettiva, la NATO sostenne l’aumento delle spese militari dei suoi membri e l’ingente invio di armi e mezzi alle forze armate ucraine. Pur in modo asimmetrico, intanto, l’organizzazione proseguì il proprio processo di allargamento. Il 4 aprile 2023 la Finlandia fece il proprio ingresso come trentunesimo membro, mentre, superate le obiezioni di Ankara e Budapest, la stessa Svezia sembra ormai in procinto di poter entrare. L’Ucraina, come unanimemente confermato all’ultimo vertice della NATO tenutosi a Vilnius dall’11 al 12 luglio 2023, diventerà un membro della NATO secondo procedure accelerate e semplificate anche se, su volontà statunitense e tedesca, questo avverrà solo quando la guerra sarà conclusa e tutte le condizioni di ingresso soddisfatte; nel frattempo, i paesi dell’Alleanza Atlantica continueranno a sostenere Kiev sia economicamente che militarmente e, attraverso il neonato NATO-Ukraine Council, intensificheranno il dialogo con l’alleato e tenteranno di migliorare la collaborazione e la condivisione nella gestione di un conflitto che non si annuncia breve.
CONCLUSIONI
Nata in funzione antisovietica, la NATO dovette rimodulare i propri obiettivi, i propri strumenti e le proprie strategie una volta finita la guerra fredda tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. In questa nuova veste, l’organizzazione guardò alla Russia come a un possibile partner, senza rinunciare, però, a perseguire una propria politica di interventismo militare e allargamento orientale chiaramente invisa a Mosca. Pur trovando un collante temporaneo nella comune lotta al terrorismo, NATO e Russia accentuarono le proprie divergenze nel decennio successivo all’attacco alle Torri Gemelle, quando l’unilateralismo statunitense si pose in sempre più evidente contraddizione con le rinnovate ambizioni di grande potenza coltivate da Mosca. Il reset nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia annunciato dal nuovo presidente Obama e di cui sembrò beneficiare, per un breve periodo, lo stesso rapporto tra NATO e Federazione Russa si infranse sul peso della storia, sugli atavici timori dei nuovi membri dell’organizzazione e sulle divergenze di interessi e prospettive. Il conflitto russo-ucraino fu, allo stesso tempo, una delle principali conseguenze della fallita collaborazione tra Alleanza Atlantica e Russia e una delle principali cause dell’attuale, clamorosa rottura tra due soggetti che, non va dimenticato, rimangono le maggiori potenze nucleari a livello globale.
Se uno degli obiettivi di guerra della Russia era quello di indebolire la NATO e prevenire l’ingresso dell’Ucraina nell’organizzazione, questo sembra essere stato mancato. Messa apertamente in discussione da Trump alla vigilia della sua elezione nel 2016 e definita dal presidente francese Emmanuel Macron un organismo in stato di «brain death» solo quattro anni fa[30], la NATO ha saputo trovare, proprio attorno e grazie alla guerra, una coesione, una determinazione, una capacità attrattiva e un senso di identità e missione difficilmente immaginabili prima e senza l’attacco russo; la stessa Ucraina non è mai stata così vicina all’Alleanza Atlantica. Detto questo, è altrettanto vero che, se uno degli obiettivi della crescente militarizzazione e dell’allargamento orientale della NATO era stato quello di aumentare la stabilità e la sicurezza dello spazio euroatlantico, questo è completamente fallito: l’Europa sta conoscendo il più ampio conflitto militare e non è mai stata così prossima a uno scontro generalizzato dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Note:
[1] J. Goldgeier, J. R. Itzkowitz Shifrinson, Evaluating NATO Enlargement: Scholarly Debates, Policy Implications, and Roads not Taken, in J. Goldgeier, J. R. Itzkowitz Shifrinson, Evaluating NATO Enlargement. From Cold War Victory to the Russia-Ukraine War, Palgrave Macmillan, Cham 2023, pp. 1-42.
[2] F. Romero, Storia della guerra fredda: l’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino 2009.
[3] National Security Archive Flashpoints Collection, Box 38, FOIA 199504567, U.S. Department of State, Memorandum of conversation between Michail Gorbačëv and James Baker in Moscow on February 9, 1990, Washington, 9/2/1990. Vedere anche: National Security Archive, George H.W. Bush Presidential Library, NSC Scowcroft Files, Box 91128, Folder “Gorbachev (Dobrynin) Sensitive”, Memorandum of conversation between Robert Gates and Vladimir Kryuchkov in Moscow on February 9, 1990, Washington, 9/2/1990.
[4] M. E. Sarotte, Not one inch: America, Russia, and the making of post-Cold War stalemate, Yale University Press, New Haven2021.
[5] Heads of State and Government participating in the Meeting of the North Atlantic Council, The Alliance’s New Strategic Concept, Rome, 7-8/11/1991.
[6] W. Hill, No place for Russia: European security institutions since 1989, Columbia University Press, New York 2018. Vedere anche: J. Goldgeier, J. Shifrinson, The United States and NATO after the End of the Cold War. Explaining and Evaluating Enlargement and its Alternatives, in Nuno P. Monteiro, Fritz Bartel, Before and After the Fall. World Politics and the End of the Cold War, Cambridge University Press, Cambridge; New York 2021, pp. 265-285.
[7] Lo stesso anno, significativamente, Russia e Unione Europea firmarono a Corfù un importante accordo di partenariato e cooperazione su cui avrebbe dovuto basarsi il futuro rafforzamento delle relazioni bilaterali in materia politico-diplomatica, socio-economica, finanziaria, commerciale, scientifica, tecnologica e culturale. E. Dundovich, S. Paoli, Bruxelles e Mosca nel decennio della transizione: una prospettiva interdisciplinare (1985-1994), in “Annali della Fondazione Ugo La Malfa”, N. XXXVI, 2021, pp. 11-20.
[8] National Security Archive, William J. Clinton Presidential Library, Memorandum of Conversation: The President’s Meeting with Czech Leaders in Prague on January 11, 1994, Washington, 11/1/1994.
[9] A. Bryc, Russia’s Challenge to Central and Eastern Europe, in R. Ziȩba, Politics and Security of Central and Eastern Europe. Contemporary Challenges, Springer, Cham 2023, pp. 159-175.
[10] J. Headley, Sarajevo, February 1994: the first Russia-NATO crisis of the post-Cold War era, in “Review of International Studies”, N. 2, 2003, pp. 209-227.
[11] R. Steel, The domestic core of foreign policy, in “Atlantic Monthly”, N. 275(6), 1995, pp. 84-92. Vedere anche: George Kennan, At a Century’s Ending: Reflections 1982-1995, Norton, New York 1996.
[12] P. Latawski, M. A. Smith, The Kosovo crisis and the evolution of a post-Cold War European security: the evolution of post Cold War European security, Manchester University Press, Manchester 2013. Vedere anche: F. Randazzo, Russia-NATO-US: From Detente to Impossible Cooperation, in M. De Leonardis, NATO in the Post-Cold War Era. Continuity and Transformation, Palgrave Macmillan, Cham 2023, pp. 71-87.
[13] Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security between NATO and the Russian Federation, Paris, 27/5/1997.
[14] Heads of State and Government participating in the meeting of the North Atlantic Council, The Alliance’s Strategic Concept, Washington, 24/4/1999.
[15] J. Hallenberg, H. Karlsson, A new strategic triangle. Defining changing transatlantic security relations, in J. Hallenberg, H. Karlsson, Changing transatlantic security relations: do the US, the EU and Russia form a new strategic triangle?, Routledge, London; New York 2006, pp. 1-17.
[16] V. Pouliot, International Security in Practice. The Politics of NATO-Russia Diplomacy, Cambridge University Press, Cambridge; New York 2010, pp. 194-230.
[17] Vladimir Putin, Discorso alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, Monaco, 10/2/2007.
[18] R. Asmus, A Little War that Shook the World. Georgia, Russia, and the Future of the West, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2010. Vedere anche: A. Makarychev, Russia and NATO after the Georgia war: re-actualizing the great power management prospects, in A. Astrov, The Great Power (mis)Management: The Russian-Georgian War and its Implications for Global Political Order, Ashgate, Farnham; Burlington 2011, pp. 59-78.
[19] J. Haaland Matlary, T. Heier, Introduction, in J. Haaland Matlary, T. Heier, Ukraine and Beyond. Russia’s Strategic Security Challenge to Europe, Palgrave Macmillan, Cham 2016, pp. 3-15.
[20] Nello stesso anno, durante il vertice NATO tenutosi a Strasburgo, dopo più di quattro decenni di assenza, la Francia decise di fare ritorno nel comando militare integrato dell’Alleanza Atlantica. M. Vaïsse, France and NATO: An History, in “Politique étrangère”, N. 5, 2009, pp. 139-150.
[21] M. Staack, Russia, the European Union and NATO. Is a “new normal” possible?, Budrich, Opladen; Berlin; Toronto 2018.
[22] Il primo protocollo di Minsk, formulato da Russia, Ucraina e Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) nel 2014, e il secondo protocollo di Minsk, promosso da Russia e Ucraina con l’intermediazione di Francia e Germania nel 2015, miravano a trovare una soluzione diplomatica al conflitto nella regione; tuttavia, né Russia né Ucraina ne rispettarono i termini, decretandone il sostanziale fallimento. S. Rosefielde, The Kremlin strikes back: Russia and the West after Crimea’s annexation, Cambridge University Press, Cambridge; New York 2017. Angela Merkel ha recentemente offerto un’interpretazione più malevola di questi stessi accordi. In un’intervista al settimanale Zeit, in particolare, l’ex cancelliera ha dichiarato che «gli accordi di Minsk sono serviti a dare tempo all’Ucraina. […]. Tempo che ha usato per rafforzarsi, come possiamo vedere oggi». T. Hildebrandt, G. Di Lorenzo, Angela Merkel: “Hatten Sie gedacht, ich komme mit Pferdeschwanz?”, in “Zeit“, 7/12/2022.
[23] R. R. Moore, D. Coletta, Introduction: Alliance, Identity, and Geopolitics, in R. R. Moore, D. Coletta, NATO’s Return to Europe: Engaging Ukraine, Russia, and Beyond, Georgetown University Press, Washington 2017, pp. 1-18. Vedere anche: T. Stępniewski, The Ukraine Crisis, NATO, and Eastern Europeʹs Grey Zone of Security, in T. Stȩpniewski, G. Soroka, Ukraine after Maidan: Revisiting Domestic and Regional Security, Ibidem-Verlag, Stuttgart 2018, pp. 45-62.
[24] Significativamente, nello stesso periodo gli Stati Uniti tornarono, dopo più di un quarantennio, a essere esportatori netti di idrocarburi; questo li pose oggettivamente in concorrenza con i paesi dell’OPEC e con la stessa Russia. G. Brew, OPEC, International Oil, and the United States, in “Oxford Research Encyclopedia of American History”, 23/5/2019.
[25] A. Priego, Russia’s A2/AD Policy as a Balancing Strategy vs NATO Enlargement, in J. M. Ramírez, J. Biziewski, Security and Defence in Europe, Springer, Cham 2020, pp. 203-216.
[26] Vladimir Putin, Discorso: Perchè la Russia ha attaccato, Mosca, 24/2/2022.
[27] Heads of State and Government at the NATO Summit, Strategic Concept “Active Engagement, Modern Defence”, Lisbon, 19-20/11/2010.
[28] Heads of State and Government at the NATO Summit, Strategic Concept, Madrid, 22/6/2022.
[29] S. Kirchberger, S. Sinjen, N. Wörmer, Russia-China Relations: Emerging Alliance or Eternal Rivals?, Springer, Cham 2022.
[30] Emmanuel Macron warns Europe: NATO is becoming brain-dead, in “The Economist”, 7/11/2019.