Sport e razzismo. Il fascismo e la “razza sportiva”
Concorso Dux
Di Sconosciuto – Archivio privato della famiglia Riggio., CC BY-SA 3.0, Collegamento
Abstract
La ricostruzione si sofferma inizialmente sul ruolo dello sport nelle politiche per il “miglioramento della razza” sviluppate tra gli anni Venti e Trenta e sulla funzione della “razza sportiva” nel dispositivo ideologico fascista. Il percorso prosegue con l’analisi della costruzione del discorso razzista sullo sport, nel contesto del razzismo coloniale e dell’emanazione delle leggi del 1938. La parte conclusiva è dedicata alle conseguenze dei provvedimenti razzisti, dall’epurazione antisemita che colpì le strutture sportive alla persecuzione delle vite di alcuni ebrei protagonisti dello sport italiano.
Oltre ad offrire indicazioni, spunti di riflessione e documenti utilizzabili in chiave didattica per il curriculum di storia, il percorso può essere un punto di partenza per ulteriori approfondimenti sul rapporto tra il razzismo e il mondo dello sport, uno spazio per definizione universalistico e inclusivo, in realtà attraversato ancora oggi da pulsioni razziste, atteggiamenti xenofobi e pratiche discriminatorie.
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The reconstruction initially focuses on the role of sport in the policies for the “improvement of the race” developed during the 1920s and 1930s and on the function of the “sporting race” within the fascist ideological framework. The narrative continues with the analysis of the construction of racist discourse on sport, in the context of colonial racism and the enactment of the 1938 laws. The concluding part is dedicated to the consequences of the racist measures, from the anti-Semitic purge that affected sports structures to the persecution of the lives of some Jews who were key figures in Italian sport.
In addition to offering suggestions, points for reflection, and documents that can be used educationally in the history curriculum, this narrative can serve as a starting point for further exploration of the relationship between racism and the world of sport, an arena that is by definition universal and inclusive, yet still today marked by racist impulses, xenophobic attitudes, and discriminatory practices.
La visione demiurgica del fascismo creatore dello sport italiano, capace di portarlo ai vertici mondiali e nel contempo di diffondere la pratica sportiva in tutti gli strati sociali, è uno dei luoghi comuni sulle “cose buone” fatte dal regime che ancora oggi ricompare talvolta nel discorso pubblico.[1]
Lo sviluppo degli studi storici su questo aspetto del fascismo ha messo in luce invece la complessità di un progetto politico-sportivo che fu certamente al centro delle attenzioni del regime, ridefinì e razionalizzò gli assetti tecnici ed organizzativi delle strutture federali e potenziò le attività fisiche e gli impianti sportivi, ma nello stesso tempo ridusse lo sport a strumento propagandistico, lo sfruttò per costruire il culto del duce, “primo sportivo” d’Italia, ne soffocò le istanze democratiche riconducendolo entro un impianto autoritario, lo incardinò nel quadro di un’ideologia totalitaria ponendolo al servizio della costruzione dell’”uomo nuovo” fascista e della “Nazione guerriera”.[2]
Lo sport fu inoltre pienamente coinvolto nelle politiche razziste del fascismo.
Le teorie eugenetiche e gli stilemi retorici veicolati dalla stampa contribuirono alla costruzione del discorso sulla “razza sportiva”. I vertici dello sport si allinearono alle direttive razziste del 1938, le Federazioni e le società sportive vennero epurate, gli sportivi ebrei furono vittime della persecuzione antisemita.
«Migliorare la razza». Eugenetica e sport
A partire dalla seconda metà degli anni Venti, il «miglioramento della razza» si configurò come una delle principali funzioni attribuite allo sport dal fascismo.
La questione si inseriva nel quadro delle politiche eugenetiche promosse dal regime, oggetto di un dibattito tra studiosi di varie discipline nel quale si confrontavano diverse tesi – dalle teorie storico-demografiche di Corrado Gini alla biotipologia costituzionale di Nicola Pende – che, come vedremo, troveranno un’applicazione anche nello sport.[3] In Italia veniva privilegiato il modello eugenetico che agiva sui fattori ambientali con misure igieniche e di profilassi finalizzate all’”ortogenesi della razza”, nel quadro del potenziamento biologico della nazione e del controllo del corpo sociale.[4]
Sul piano sportivo, il tema eugenetico venne affrontato dalla “Commissione Reale per lo studio di un progetto relativo all’ordinamento dell’educazione fisica e della preparazione militare del Paese” costituita con un Regio Decreto nel settembre del 1925.[5]
Il 31 gennaio 1926 la Commissione presentò la relazione conclusiva dei lavori che si erano svolti con l’obiettivo di «risolvere una buona volta in modo completo il capitale problema del miglioramento fisico della nostra razza» fornendo, «forse per la prima volta al Governo Nazionale, una esposizione completa ed esauriente della questione, fondamento essenziale per venire a provvedimenti logici e fecondi».[6]
Un asse portante del progetto elaborato dalla Commissione era l’obbligatorietà dell’esercizio fisico per tutti i giovani italiani «funzionale sia al rafforzamento dello spirito nazionale e patriottico sia all’irrobustimento fisico della razza italiana»:
Da qui, dunque, perfettamente in linea con questo approccio eugenetico e sociale e coerente soprattutto con la prospettiva di un controllo sempre più mirato, approfondito e scientifico della gioventù italiana, utile alla sua irregimentazione, l’istituzione di «un libretto personale di valutazione fisica, che, distribuito all’atto della nascita di ciascun individuo a chi esercita la patria potestà su di esso», avrebbe dovuto accompagnare il giovane «per tutto lo svolgimento della sua educazione fisio-psichica». In questo modo […] vennero create le premesse ideali e di principio per la costituzione, sotto la direzione di Nicola Pende, dell’Istituto Ortogenetico di Genova […]».[7]
Pende sosteneva un progetto di biologia politica in funzione dell’«igiene della razza italiana».[8] Applicate all’ambito sportivo, le teorie di Pende furono utilizzate per individuare le attività fisiche adeguate alle diverse età e le attitudini atletiche dei “biotipi” maschi, definite in base all’analisi del «temperamento neuroendocrino» e del «carattere psichico». Quanto alle donne, Pende considerava «la smania dei massaggi e degli sports», insieme al lavoro, un «flagello» perché le induceva a limitare il numero dei figli e a lasciare il focolare domestico. Lo Stato fascista doveva porsi l’obiettivo della preparazione delle future madri, mirando «a formare il tipo di donna di casa e della donna madre, più che il tipo della donna di scienza e della donna sportiva».[9]
Molti, sani e forti. La nuova «razza sportiva»
Mentre in ambito scientifico si sviluppava il dibattito sull’eugenetica e l’approccio costituzionalistico veniva assunto dalla nascente medicina dello sport,[10] il 26 maggio 1927 Mussolini sanciva l’indirizzo ufficiale della politica demografica fascista con il celebre discorso “dell’Ascensione”, destinato ad avere profonde ripercussioni sulle tendenze eugenetiche in Italia. Il capo del fascismo affrontava il problema della «salute della razza» con un’impostazione popolazionista che puntava sullo sviluppo quantitativo («il numero è la forza»), presupposto della grandezza e della potenza della nazione.[11]
Sulla base di questo orientamento, il fascismo dava impulso ad una serie di misure igienico-profilattiche e demografiche che intervenivano sui meccanismi sociali, controllando e disciplinando il “corpo” della nazione.
Lo sport rientrava pienamente nel progetto biopolitico del regime. La pratica sportiva era finalizzata alla “sanità della razza” italiana:
La sanità della razza! E che altro persegue lo sport nelle forme e coi mezzi che gli sono consentiti? […] Educazione fisica pel miglioramento qualitativo della razza attraverso i giovani e il mantenimento in esercizio degli adulti; educazione morale con l’abitudine alla lotta, allo spirito di sacrificio, alla disciplina, all’obbedienza delle leggi umane e divine. Al termine di questo completo sviluppo d’una direttiva e d’una volontà troveremo il buon cittadino, che sarà anche un uomo sano, cioè l’Italiano nuovo.[12]
Come affermava Mussolini in un discorso di carattere programmatico tenuto il 18 marzo 1934, politiche qualitative per la salute che comprendevano l’educazione fisica, provvedimenti di tutela della maternità e dell’infanzia e misure di carattere quantitativo per la crescita della natalità concorrevano alla «difesa della razza» e alla creazione della “Nazione guerriera” lanciata verso mete imperiali.[13]
Pochi mesi dopo, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, Mussolini si rivolgeva agli atleti con queste parole: «Chi vi ha visti sfilare ha avuto la profonda e quasi plastica impressione della nuova razza che il Fascismo sta virilmente foggiando e temprando per ogni competizione».[14]
“Il Littoriale”, in un fondo intitolato Il volto della stirpe, commentava così la giornata:
Il fascismo, alla data del ventennio Ottobre XII, che rimarrà nitida nella storia, ha constatato il rinnovamento fisico della razza, il ringiovanimento ed il potenziamento materiale della vecchia gloriosa quercia, che reca il nome di Stirpe Italica, che germogliò tra le quadrate mura dell’Urbe, che prosperò lanciando le invitte vigorose braccia al sole ed al cielo di Roma, tra i clivi del Palatino e dell’Aventino. […] Queste falangi hanno mostrato un volto profondamente diverso da quel viso macilento che esibivano gli studenti e gli operai del grigio tempo prefascista: nei ranghi del G.U.F. e del Dopolavoro, nelle Scuole, nelle Officine e nei Campi è cresciuta una nuova razza, abbronzata dal sole, temprata dall’agonismo: una razza dal sangue più veloce, dalla carne più florida, dalla statura più alta. […] Ben si veggono oggi atleti, simboli di forza, di grandezza, di eroismo.[15]
I campioni della razza
Come in altri ambiti della società italiana, il ricorso al termine “razza” si diffuse nel discorso pubblico sportivo.
Nelle cronache e nei commenti della stampa, la parola “razza” non veniva utilizzata per indicare genericamente la specie umana, ma con una netta connotazione nazionalista e nella convinzione che fosse necessario rendere grande la “razza” italiana anche attraverso lo sport. Gli stilemi retorici sulla “stirpe sportiva”, già presenti nella pubblicistica dell’età liberale,[16] furono ripresi e risignificati in un quadro ideologico che attribuiva allo sport un ruolo centrale nella costruzione dell’”uomo nuovo” fascista.
Soprattutto le competizioni sportive internazionali si prestavano alla retorica sulla “razza italica” capace di primeggiare sulle altre nazioni. I successi in campo internazionale erano rappresentati come la prova della capacità del regime di forgiare una “razza sportiva” in funzione del prestigio e della grandezza della nazione, simbolo della salute e dell’energia di un popolo “giovane” che ambiva al suo “posto al sole”.
Si vedano ad esempio le parole di Bruno Roghi, uno dei principali giornalisti sportivi italiani, dopo le vittorie della nazionale italiana ai mondiali di calcio del 1934 e del 1938:
Sono le rare, rarissime partite nelle quali si assiste alla metamorfosi dei giocatori, non più piccoli ometti colorati che fanno il loro mestiere, con la palla fra i piedi, ma piccoli militi valorosi che combattono per un’idea che è più grande di loro, ma che essi servono per il divino inconscio che è il genio dei soldati all’assalto. Sono le partite, in altre parole, dove non una squadra di undici uomini, ma una razza si manifesta colle sue attitudini e i suoi istinti, le sue collere e le sue estasi, il suo carattere e le sue pose. La partita che gli italiani hanno vinto allo stadio appartiene a questa categoria di partite.[17]
La conquista è alta, nobilissimo è lo sforzo fisico e spirituale che essa è costata. Ma c’è qualcosa di più prezioso, in questa giornata campale della Coppa del mondo che gli atleti italiani hanno levato sulla vetta del torneo per farne la coppa del loro brindisi giocondo. C’è qualcosa di più della vittoria conquistata a prezzo di muscoli e d’intelligenza, in un torneo faticosissimo e insidiosissimo. Al di là della vittoria atletica risplende la vittoria della razza.[18]
E chiosando la vittoria di Bartali nel Tour de France del 1938, Roghi era lapidario: «Sport, nella concezione e nel metodo fascista, è specchio della salubrità della razza».[19]
Queste parole apparivano sulla stampa a ridosso della pubblicazione del Manifesto della razza che apriva la pagina più nera del razzismo fascista. La politica razziale sostenuta dal regime stava per subire una torsione che avrebbe avuto effetti drammatici.
Il regime si orientava verso una forma di razzismo biologico estraneo alla tradizione italiana ed evidentemente in contrasto con l’”eugenica latina”. Tuttavia «attorno alle due parole d’ordine complementari “il numero è potenza” e “difesa della razza”» si era diffusa una retorica sulla razza «che, al momento dell’esplicita scelta razzista, poté essere travasata a piene mani nella propaganda più bieca».[20] Attraverso l’apparato propagandistico il fascismo aveva inoltre abituato gli italiani ad ammettere che la tutela della razza fosse un obiettivo meritorio poiché in quel concetto rientravano finalità “buone”, dalle pratiche sportive alle colonie estive, dalla protezione delle madri alla cura della salute.[21]
Il razzismo coloniale. Contro le «promiscue commistioni»
I più autorevoli studiosi del colonialismo italiano concordano nell’attribuire una rilevanza decisiva all’esperienza coloniale tanto nella costruzione di un immaginario razzista quanto nella definizione delle politiche razziste del regime.
Il fascismo pianificò una campagna propagandistica che si intensificò in vista della guerra di Etiopia, veicolando stereotipi di stampo razzista. Decine di giornalisti arruolati nei diversi reparti trasformarono la realtà della guerra in un “epica coloniale”.[22] Sulle colonne dei quotidiani, all’esaltazione degli “eroi” della conquista veniva contrapposta la denigrazione delle “barbare” popolazioni etiopiche che il regime si apprestava a “civilizzare”.
Dopo l’occupazione dell’Etiopia, il fascismo iniziò a mettere in atto nelle colonie una politica di separazione fra la “razza superiore” dei colonizzatori italiani e quelle “inferiori” dei popoli colonizzati.[23]
La politica segregazionista non risparmiò lo sport. Nell’Africa Orientale Italiana il fascismo creò un “Ufficio indigeno per lo sport” e le attività sportive che coinvolgevano atleti italiani furono interdette agli atleti di colore.[24] Analoghi provvedimenti furono presi in Libia. Venuto a conoscenza della presenza di squadre arabe nel campionato tripolino a fianco di squadre formate da italiani, Mussolini, tramite Alessandro Lessona, Ministro per l’Africa Orientale Italiana, fece pressioni sul governatore della colonia Italo Balbo affinché interrompesse la pratica “promiscua”:
S. E. capo Governo ha notato su “Avvenire di Tripoli” notizia che est in corso campionato calcio cui partecipano squadre nazionali insieme con squadra gioventù araba Littorio. S.E. capo Governo desidera che una volta concluso campionato in corso musulmani non siano ammessi partecipare gare sportive insieme nazionali. Prego assicurazione.[25]
Il disprezzo per le razze considerate inferiori iniziò a manifestarsi anche sulla stampa sportiva italiana.[26] Il 19 gennaio 1938 su “Il Littoriale” comparve un editoriale di Nino Cantalamessa che deplorava la presenza di giocatori di colore nella nazionale francese. La Francia veniva accusata di introdurre «promiscue commistioni» che concorrevano ad indebolire e contaminare la razza bianca e la “superiore” civiltà occidentale:
C’è una Nazione europea che sta per far concorrenza agli americani nell’affidare a uomini di colore la difesa della propria bandiera sportiva. Si tratta, manco a dirlo, di una Nazione ultrademocratica: la Francia […]. È dunque chiaro che i dirigenti sportivi d’Otralpe contravvengono a un preciso dovere verso la nostra razza e la nostra civiltà permettendo che il loro Paese venga ufficialmente rappresentato da uomini di razza diversa. Si tratta, d’altronde, di una vecchia tendenza francese non ad assimilare e assestare politicamente gente di colore – il che è funzione propria delle civiltà superiori – ma di mescolarsi, confondendosi con esse, portandole nelle proprie case, nelle proprie alcove e generando quelle “promiscue commistioni” i cui effetti sono universalmente noti […]. Se poi dal più vasto terreno razzista […], passiamo al settore nazionale, la questione reclama termini ancor più aspri e taglienti. Nell’affannosa ricerca dei campioni di colore è facile scorgere una confessione e un’offesa: una confessione di decadenza […] e un’offesa alla propria gioventù, alle giovani generazioni cui, di regola, dovrebbe spettare la legittima rappresentanza della efficienza fisica di un popolo.[27]
La svolta del 1938. I “manifesti” del razzismo sportivo
Il 14 luglio 1938, con la pubblicazione su “Il Giornale d’Italia” del Manifesto degli scienziati razzisti, anche in Italia iniziava la tragica stagione del razzismo di Stato, sulla scia di quanto accadeva nella Germania dell’alleato nazista.
Il Manifesto codificava una teoria della razza di stampo biologico, affermava l’estraneità degli ebrei alla “razza italiana” ed escludeva la contaminazione con qualsiasi razza fuori dall’ambito europeo. Alla giustificazione pseudoscientifica del razzismo fecero seguito, tra settembre e novembre, la Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo e i provvedimenti legislativi che sancivano la discriminazione degli ebrei.[28]
La stampa sportiva si allineò prontamente alle direttive del regime, ospitando tre articoli che possono essere considerati altrettanti “manifesti” del razzismo in campo sportivo.
Il primo, intitolato La razza e lo sport, apparve il 19 agosto su “Il Littoriale”, organo di stampa del Coni, a firma del direttore Renato Tassinari, e venne diffuso anche da “La Gazzetta dello Sport”. Alcune affermazioni di Tassinari sul ruolo dello sport nello sviluppo della razza attenuavano la durezza dell’impostazione biologizzante per offrire del razzismo fascista una versione nella quale trovavano spazio fattori ambientali e “spirituali”, ma i riferimenti alla «fondazione dell’Impero» e agli italiani come «razza eletta» evidenziavano il legame con la svolta impressa dal regime al discorso razzista:
La fondazione dell’Impero ha generato un clima di alta tensione spirituale entro il quale doveva logicamente accendersi un vivo sentimento di razza. […] Il sapersi componenti di una razza eletta, che deve difendere tradizioni immortali, e dimostrarsi sempre più degna di un glorioso passato, costituisce un dovere preciso di superamento. È vero che le razze possono ascendere: ma è anche vero, e la storia insegna, che le razze possono rapidamente declinare e disperdersi. La politica e la scienza hanno precisato e definito i termini di un problema che soltanto la maturità di un popolo e la sua raggiunta potenza potevano alfine affrontare e risolvere. Ma è tuttavia unanimemente riconosciuto che una grande influenza sulla continuità e sullo sviluppo spirituale e biologico di una razza viene esercitato dall’ambiente e dal modo di vita di questa stessa razza. […] Ed ecco perché consideriamo primaria, nel miglioramento della razza, l’attività sportiva […]. Molto, anzi moltissimo, si è fatto in questi ultimi quindici anni, ma molto ancora rimane da fare, ed i dirigenti dello sport italiano si vedono ora sospinti ad intensificare il loro lavoro propagandistico dal sentimento, non solo teoretico, della razza. […] L’intento preciso del Governo Fascista è quello di conseguire un miglioramento quantitativo e qualitativo della razza, miglioramento che è tanto più necessario in quanto viene ad essere in funzione diretta con i compiti più vasti e più ardui di civilizzazione imposti dalla realtà imperiale.[29]
«Bonifica» antisemita
Esplicito nel dare risonanza all’antisemitismo anche nello sport era un pezzo comparso il 7 settembre sulla copertina de “Il calcio illustrato”. Il titolo, Bonifica, condensava il contenuto rozzamente antisemita dell’articolo, uscito in coincidenza con il decreto-legge Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri che stabiliva «il divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel regno» e revocava la cittadinanza italiana concessa «a stranieri ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919».[30] Con tono arrogante e intimidatorio, l’articolo prendeva di mira gli allenatori ebrei di origine danubiana che avevano contribuito al rinnovamento tecnico del calcio, elogiati fino a poco tempo prima dalla stampa sportiva e definiti ora con disprezzo «venditori di fumo» e «facciatosta». Come vedremo, i nefasti auspici de “Il Calcio illustrato” si realizzeranno di lì a poco con la persecuzione di questi protagonisti della storia del calcio:
La vigorosa e decisa opera di difesa della razza intrapresa dal regime avrà naturalmente le sue conseguenze benefiche anche nel campo sportivo, per quanto, in fatto di atleti militanti, non debbano essere molti gli atleti ebrei. Riguardo al mondo calcistico, che è quello che ci interessa più da vicino, vi è però una zona in cui si è trapiantata, crediamo, una discreta rappresentanza israelitica straniera, ed è quella degli allenatori. Non riteniamo di dover fare dei nomi, ma è certo che fra i moltissimi allenatori danubiani non mancano gli israeliti. Ebbene, che costoro venuti tutti tra noi dopo il 1919 debbano fare le valigie entro sei mesi non ci rincresce davvero, poiché così finiranno di vendere fumo con quell’arte imbonitoria propria della razza, e lasceranno i posti a tanti ex giocatori di razza italiana che sono benissimo in grado di tenerli e che al confronto con gli stranieri di cui sopra non sono inferiori che sotto una voce: la facciatosta! La bonifica della razza è pertanto destinata ad avere più che salutari conseguenze calcistiche.[31]
Corpo, spirito e sport
Il 9 settembre 1938 “Il Littoriale” pubblicò un lungo articolo di Lino Businco – docente di Patologia generale all’Università di Roma e firmatario del Manifesto della razza – intitolato Lo sport e la razza. Giusta armonia tra corpo e spirito nella razza italiana.
Con il suo intervento Businco intendeva dare una veste “scientifica” al discorso razzista sullo sport, fornendo ulteriori elementi utili all’«invenzione della razza»[32] nella dimensione sportiva.
Al pari del Manifesto della razza che retrodatava il razzismo biologico «come se fosse iscritto nei principi del fascismo da sempre»[33], Businco rivendicava una continuità tra le opere fino ad allora realizzate dal regime per sviluppare «una coscienza della propria razza» e il nuovo indirizzo razzista. Grazie alle strutture assistenziali del regime e all’«intensa attività sportiva» promossa in precedenza, il fascismo era riuscito a creare «un miglioramento netto, indiscutibile, del tipo fisico italiano». Ora si trattava di «difendere» «una delle più superbe creazioni del fascismo».
L’articolo riprendeva le affermazioni pseudoscientifiche del Manifesto – dall’esistenza di un «ceppo biologico» “italico” «perfettamente omogeneo» al pericolo per l’«integrità» della razza rappresentato dal «meticciato» – e sosteneva l’esistenza di una «forma spirituale» tipica della razza italiana fondata sulla differenza biologica.
Businco si avventurava poi in un’indagine «sul terreno della attività fisica» che derivava «più direttamente […] dal substrato biologico della razza». Il filo conduttore del suo discorso era l’associazione tra caratteristiche razziali e propensione per determinati sport.[34]
Uno specifico “sostrato biologico” determinava la supremazia della «razza nordica» nelle prove di velocità nel nuoto, nel ciclismo e nell’atletica leggera. La “razza italiana” eccelleva invece nelle gare di fondo nel ciclismo e nel nuoto, negli sport invernali e nell’alpinismo, nella scherma, nel pugilato e nel calcio. Queste ultime tre discipline, sosteneva Businco, richiedevano una particolare armonia tra «qualità fisiche e psicologiche», tratto distintivo della “razza sportiva” italiana:
Nella scherma, nel pugilato e nel calcio interviene più che negli altri sport l’attività psicologica. In essi infatti l’atleta è chiamato ad una ideazione continua per costruire i temi di attacco, variandoli di volta in volta secondo le condizioni particolari della difesa avversaria, delle proprie possibilità momentanee ecc.
Nella boxe, uno delle attività sportive privilegiate dal fascismo per la sue connotazioni di forza e virilità, erano necessarie anche qualità come «il coraggio, lo sprezzo del dolore, del rischio», doti che erano «pure richieste negli sport motoristici», un altro ambito dello sport in sintonia con l’ideologia sportiva fascista.
Businco proponeva di sviluppare la lettura biologico-razzista dello sport per
analizzare il meccanismo biologico di una determinata attività sportiva, vedere quali gruppi muscolari e con quale ritmo vi sono chiamati, il tipo dei processi neuropsichici, perché qui possono essere trovate le differenze tra gli atleti preminenti o meno in una attività sportiva, differenze che potranno essere naturalmente estese alle razze rispettive.
Questo «programma di ricerca» avrebbe fornito «un notevole contributo all’Antropologia» e «elementi preziosi ai cultori di problemi sociali ed agli uomini di governo».
Alla fine del 1938 lo zelo razzista di Businco venne premiato con la nomina a vicedirettore dell’Ufficio Studi sulla razza del Ministero della Cultura Popolare. In questa veste fu inviato in Germania dove incontrò Rosenberg, Himmler e Hess e visitò un campo di concentramento.[35]
Sport e «difesa della razza»
Di razza e sport si occupò sin dal primo numero “La Difesa della razza”, punta di diamante della pubblicistica razzista e antisemita. L’importanza dello sport era sottolineata da Businco in un articolo dedicato ai giovani, considerati «i più idonei a intendere prontamente il valore fondamentale della dichiarazione che sottolinea l’esistenza di una razza italiana»:
Essi che sono cresciuti nelle palestre, all’aria sana delle competizioni sportive e dei campeggi del Partito e che hanno potuto così migliorare il loro corpo rendendolo più idoneo ad ogni prova, essi possono rendersi conto della necessità di difendere e di perpetuare intatto questo prezioso patrimonio che è il substrato biologico della Nazione italiana.[36]
Alcuni interventi pubblicati sulla rivista diretta da Telesio Interlandi si soffermavano sulle finalità eugenetiche della pratica sportiva femminile. Lo sport doveva plasmare un corpo adatto alla riproduzione, secondo una concezione che relegava la donna al ruolo di mera “fattrice” di una stirpe guerriera razzialmente sana:
Il fascismo, curando l’attività fisica della donna, ha inteso prepararla ai suoi alti destini di vestale, custode del fuoco sacro della Patria. Preparare una femminilità sana, consona alla sua funzione di migliorare e perpetuare la razza […]. Sagomare un poco alla volta […] il tipo di donna più bello e perfetto della nostra razza, che principalmente si accosti al tipo “materno”.[37]
All’”ortodossia” del razzismo biologico sostenuto da “La difesa della razza” si richiamava un articolo di Elio Gasteiner che svalutava invece la funzione dello sport nel miglioramento della razza. L’idea che un fattore esterno come l’attività sportiva potesse modificare la “stirpe” era inconciliabile con l’affermazione della assoluta immutabilità delle razze:
Sfogliando riviste e giornali possiamo constatare il larghissimo posto dedicato ai vari generi di sport e certamente la quasi totalità dei lettori avrà la ferma convinzione che si faccia per l’avvenire della Nazione un massimo sforzo. Il razzismo, cioè l’insieme delle scienze che si occupano di eugenica, biologia umana, social-antropologia, deve però disilludere seccamente questa soddisfacente opinione. Tutto questo gigantesco lavoro per l’educazione fisica della gioventù non ha alcun effetto sulla qualità o su un desiderato miglioramento razziale ereditario. Il singolo avrà di certo dei vantaggi per la sua costituzione, ma questi miglioramenti sono paratipici, cioè non ereditari e quindi non cambiano la razza (o il plasma ereditario). […] Se veramente si potesse cambiare l’uomo con mezzi esteriori, allora non esisterebbero delle razze umane, la cui immutabilità attraverso i millenni è accertata in maniera indiscutibile.[38]
Sport e evoluzione dei popoli
Mentre attraverso articoli di questo tenore “La difesa della razza” interpretava l’eugenetica razzista in termini di frattura rispetto alle politiche demografiche, sociali e sanitarie precedentemente avviate dal regime, la corrente ideologica che animava le pagine di “Razza e civiltà”, il mensile della Direzione Generale per la Demografia e la Razza, proponeva una lettura “continuista” che riguardava anche l’ambito sportivo.
In un articolo intitolato Sport ed evoluzione dei popoli, l’etnologo Alfredo Sacchetti poneva in relazione lo sviluppo dell’attività agonistica con il ciclo evolutivo della storia delle nazioni teorizzato da Corrado Gini. Studioso di statistica e demografia, Gini sosteneva che l’evoluzione delle nazioni era legata essenzialmente alle dinamiche della popolazione secondo una successione di fasi – giovanile, matura, senescente – determinata dall’andamento delle capacità riproduttive. La grande prolificità di un popolo era il segno della sua gioventù e ne garantiva la potenza espansiva; viceversa, la diminuzione della natalità caratterizzava la senescenza, accompagnata inesorabilmente dalla perdita di potenza politica, economica e militare.[39] Questa tesi – che aveva esercitato una notevole influenza sull’elaborazione delle politiche demografiche del regime – veniva applicata da Sacchetti all’evoluzione dello sport:
A ben guardare, questo fenomeno, che sinteticamente si usa chiamare della degenerazione dello sport, coincide con periodi della vita dei popoli caratterizzati da una piena decadenza demografica. Com’è avvenuto ad esempio per la Grecia e per la Roma antica. […] In altre parole, lo sport come sana manifestazione di vitalità verrebbe a coincidere con la fase ascendente e culminante del ciclo evolutivo descritto dal Gini, mentre la fase discendente, caratterizzata da una intensa decadenza demografica, sarebbe segnata da una contemporanea riduzione della passione per lo sport o, più spesso, da una vera e propria degenerazione di questa attività.[40]
Sacchetti concludeva la sua analisi del ciclo «biologico-demografico-sportivo» con l’invito a rafforzare la pratica sportiva in un popolo “giovane” come quello italiano, proseguendo nella politica perseguita in precedenza dal fascismo e in vista di «un nuovo programma» di «Eugenica attiva»:
L’educatore fascista, che si trova di fronte ad una giovane popolazione, realizza da tempo questa opportuna e razionale diffusione dello sport. Egli, così facendo, non prepara soltanto dei soldati, ma opera in “una trincea avanzata nella battaglia per la salute della razza”. Sorge in questo modo tutto un nuovo programma di Eugenica attiva e che non ha il compito di operare soltanto a vantaggio della società attuale attraverso l’individuo, ma anche direttamente sulla specie e quindi sulla società futura.[41]
L’epurazione nelle Federazioni
Con l’introduzione delle leggi razziali, l’antisemitismo coinvolse anche lo spazio dello sport.
L’epurazione degli ebrei avvenne con grande rapidità. La catena di comando dello sport totalitario si attivò per applicare le direttive del regime. Le Federazioni procedettero all’epurazione seguendo una secca disposizione, proveniente dai vertici politico-sportivi, che doveva essere inserita negli statuti federali e applicata dalle società affiliate: «Condizione indispensabile per poter essere soci della società è l’appartenenza alla razza ariana».
Il 30 novembre 1938 il presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio Giorgio Vaccaro riferì al Direttorio federale le «disposizioni inviate ai vari Direttorii sul problema razziale», ricordando che le direttive del Partito dovevano essere, «per tutti gli iscritti, fondamentali ed impegnative». Il 6 dicembre Alessandro Lessona, che aveva accumulato anche la carica di presidente della Federazione Italiana Tennis, diramò «ai presidenti degli enti affiliati e per conoscenza ai direttori di zona ed ai commissari provinciali le seguenti disposizioni: “Mentre si confermano le disposizioni vigenti per cui lo statuto sociale di ogni società deve essere redatto sulla falsariga di quello allegato al regolamento federale, si dispone che venga apportato ad esso, laddove si parla dell’ammissione dei soci (art. 6), la seguente aggiunta: Condizione indispensabile per poter essere soci della società è l’appartenenza alla razza ariana”».
La clausola razzista venne applicata dalla Federazione ciclistica il 7 dicembre, seguita dalla scherma l’8 dicembre. Lo stesso giorno, in ottemperanza al decreto del regime sugli ebrei stranieri, l’allenatore ungherese Jeno Feher fu escluso dalla Federazione dell’Atletica Pesante. Il 9 dicembre la Federazione Pugilistica comunicò che avrebbe rilasciato la licenza di pugile solo agli atleti «di razza ariana». Il 19 dicembre fu la volta dell’atletica leggera, seguita dal canottaggio.[42]
L’esclusione degli ebrei dalle società sportive
Le disposizioni razziste ebbero effetti immediati sulle sedi periferiche dello sport italiano, dal nord al sud della penisola.
Il 15 novembre 1938 a Trieste – dove due mesi prima, in un discorso tenuto in piazza dell’Unità, Mussolini aveva annunciato la promulgazione dei provvedimenti razzisti – «il Consiglio direttivo della Reale Società Ginnastica Triestina e altre società» deliberavano «di non considerare più appartenenti alla Società e alle sue affiliazioni – sezione Canottieri, sezione Atletica Leggera “Giovinezza” e sezione autonoma di Scherma – tutti coloro che a norma del decreto sulla Pubblica istruzione sono ritenuti di razza giudaica». La stessa decisione veniva presa dalla Società Triestina di Nuoto. Nel dare questa notizia, il quotidiano triestino “Il Piccolo” esprimeva il suo sostegno al provvedimento: «Era incompatibile la presenza di elementi di razza diversa dalla nostra in settori tanto delicati come le grandi società sportive ove si forgiano le membra ma anche lo spirito della giovinezza mussoliniana. Le nostre società sportive sono scuole per gli italiani e tali devono rimanere».[43]
“Il Ginnasta”, mensile della Federazione ginnastica, precisava ulteriormente:
Va rilevato che la Ginnastica Triestina, praticando tutti gli sport e comprendendo numerosi soci contava un numero rilevante di giudei, numero che si suppone ammonti a una sessantina. Nell’Unione Sportiva Triestina non si contano calciatori ebrei e, in generale, appena due o tre elementi figurano nelle categorie praticanti il calcio. In tutte le zone controllate dal Comitato della FIGC due soli arbitri erano ebrei. […] Fra le società veliche quindici sono i soci giudei.[44]
Anche i circoli sportivi di Napoli escludono i giudei dai loro quadri era il titolo di un trafiletto de “La Gazzetta dello Sport” del 7 dicembre nel quale si dava questa notizia: «La Federazione fascista comunica: “I circoli nautici cittadini e tutti quelli sportivi, nonché i circoli culturali artistici e ricreativi hanno stabilito di eliminare fra i loro iscritti i giudei».[45]
Il 15 dicembre la Società Ginnastica Forza e Coraggio di Milano, una delle più antiche e gloriose società sportive italiane, apportava al suo statuto sociale l’aggiunta della clausola razzista.[46] Il giorno successivo “Il Littoriale” rendeva nota la radiazione degli ebrei dal Circolo Canottieri “Roma”.[47] Con una circolare del 18 dicembre 1938, «in relazione ad analoga disposizione emanata dal CONI e d’ordine della Federazione Fascista-Ufficio sportivo», il Centro Alpinistico di Ferrara comunicava l’esclusione dei non ariani dalle sue fila.[48]
L’antisemitismo nel vertice dello sport italiano
L’epurazione colpì inoltre strutture centrali della politica sportiva fascista come la Gil, l’Accademia d’Educazione Fisica – diretta dall’ottobre del 1940 da Nicola Pende, che aveva sottoscritto il Manifesto della razza – e l’Accademia di Educazione Fisica femminile di Orvieto.[49]
Il 23 febbraio 1939 Starace annunciava che dai quadri del Coni era stato escluso «ogni elemento ebraico» e che il Comitato Olimpico avrebbe collaborato alle iniziative per l’ortogenesi della razza:
In ottemperanza alle direttive che la politica del Regime ha stabilito in ogni attività della Nazione, per la salvaguardia della purezza della razza, il C.O.N.I ha provveduto alla esclusione di ogni elemento ebraico dai suoi quadri. Tale epurazione razziale è oggi completa. Il C.O.N.I attraverso la Federazione dei Medici Sportivi ha offerto la sua collaborazione all’Istituto di Bonifica Umana ed ortogenesi della razza di recente costituzione. Le modalità di tale collaborazione non sono state per ora precisate, ma si impernieranno nel reciproco scambio ed utilizzazione di tutto quel materiale di consultazione, di statistica, di valutazione che è possibile tra i due Enti, nel superiore intento di collaborare profondamente alla politica razziale del Regime.[50]
Lo zelo razzista del principale organismo sportivo italiano culminò con la legge numero 426 del 16 febbraio 1942 che indicava come fine del Coni «l’organizzazione e il potenziamento dello sport nazionale e l’indirizzo di esso verso il perfezionamento atletico, con particolare riguardo al miglioramento della razza».[51] Come ha osservato Sergio Giuntini, il termine “razza” introdotto nel testo, «a dispetto delle interpretazioni datene da certa giurisprudenza, che intese considerarlo un sinonimo “neutro” di “popolazione o cittadinanza”, acquisiva al contrario, alla luce della legislazione del ’38, una evidente valenza razzista e più segnatamente antiebraica».[52]
Oltre alle leggi del 1938, attraverso l’amministrazione statale il regime varò ulteriori norme che estendevano il cumulo di divieti che incombevano sugli ebrei, paralizzandone di fatto ogni attività, compresa quella sportiva.[53] Nell’aprile del 1942 una circolare della Direzione Generale per la Demografia e la Razza affermava, con perentorietà fascista, la definitiva esclusione degli ebrei da qualsiasi forma di associazionismo, inclusi i sodalizi sportivi: «Gli ebrei, in omaggio al principio della separazione delle razze, sono stati eliminati da tutti i sodalizi avente carattere culturale, morale, sportivo, sociale ecc.».[54]
Sport e Shoah
Durante la seconda guerra mondiale, alla persecuzione delle vite degli ebrei non sfuggì neppure la dimensione sportiva. Secondo alcune stime, le vittime della “soluzione finale” nel mondo dello sport si avvicinano a «60.000, di cui circa 220 di alto livello».[55]
Tra gli sportivi ebrei periti nella Shoah, alcuni erano stati protagonisti dello sport in Italia, come Árpád Weisz, Leone Efrati e Raffaele Jaffe.
Dopo avere militato nella nazionale di calcio ungherese, Árpád Weisz fece un’esperienza calcistica nel campionato italiano durante gli anni Venti, precocemente interrotta a causa di un infortunio, e iniziò poi una brillante carriera come allenatore conquistando tre titoli di campione d’Italia, nel 1929-‘30 alla guida dell’Ambrosiana e tra il 1935 e il 1937 con il Bologna. Come altri allenatori danubiani colpiti dal decreto contro gli ebrei stranieri – Vilmos Wilheim, Imre Hermann, Erno Erbstein, Gyula Feldmann – fu costretto ad interrompere la carriera e a lasciare l’Italia. Il 10 gennaio 1939 partì con la famiglia alla volta di Parigi, prima di una tappa di un’odissea che si concluse ad Auschwitz, dove morì insieme alla moglie Ilona Rechnitzer e ai suoi due figli, Roberto e Clara.[56]
Formatosi come pugile nelle palestre popolari romane, Leone Efrati si mise in luce come professionista nei pesi medi. Il 28 dicembre 1938 negli Stati Uniti sfidò Leo Rodak per il titolo mondiale di categoria, perdendo ai punti. Nel 1939, all’apice della carriera, la legislazione antiebraica gli impose il ritiro dal pugilato. In seguito al rastrellamento del ghetto romano del 16 ottobre 1943, fu deportato ad Auschwitz-Birkenau col fratello Marco e la sorella Costanza.[57]
Nella Shoah perse la vita anche Raffaele Jaffe, fondatore del Football Club Casale nel 1909 e consigliere della FIGC. Jaffe si convertì al cattolicesimo, ma ciò non lo mise al riparo dall’antisemitismo. Arrestato nel 1944 ad Alessandria durante una retata della polizia fascista, venne traferito al campo di Fossoli e poi a Verona. Da qui partì il suo convoglio per Auschwitz dove cessò di vivere il 6 agosto 1944.[58]
Altri esponenti dello sport di origine ebraica perseguitati in Italia riuscirono a sfuggire alla “soluzione finale”.
Tra questi, il pugile romano Settimio Fernando Terracina che espatriò negli Stati Uniti, prese la cittadinanza americana e tornò a Roma con le armate statunitensi contribuendo alla sua liberazione; un altro boxeur di Roma, Primo Lampronti, la cui carriera fu bruscamente interrotta dalle leggi razziali e che entrò poi a far parte della Resistenza; l’allenatore ungherese Ernest “Egri” Erbstein, “maestro” di tecnica calcistica, tra il 1933 e il 1938 alla guida della Lucchese, costretto a lasciare la squadra toscana in seguito alle leggi razziali. Erbstein venne poi ingaggiato dal Torino, ma fu di nuovo colpito dai provvedimenti razzisti e, con il sostegno della società “granata”, cercò di raggiungere l’Olanda dove l’attendeva la guida di una squadra di Rotterdam. Fermato alla frontiera tra Germania e Paesi Bassi dalle autorità tedesche, riparò in Ungheria con la famiglia. Dopo l’occupazione tedesca dell’Ungheria Erbstein fu deportato in un campo di lavoro dal quale riuscì a fuggire «venendo accolto, grazie a Raoul Wallenberg, nell’ambasciata svedese di Budapest. Così evitò il lager e una morte quasi sicura. Quella fine prematura che, per una sorta di fatale e solo rinviato appuntamento con il destino, l’attendeva comunque implacabile nello schianto aereo, di ritorno da una trasferta in Portogallo, avvenuto sulla collina torinese di Superga il 4 maggio 1949».[59]
Note:
[1] F. Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2019. L’interessante lavoro di Filippi decostruisce molti luoghi comuni sulle presunte “cose buone” fatte dal fascismo. Manca però un capitolo sullo sport.
[2] La saggistica dedicata a diverse articolazioni e discipline dello sport durante il fascismo è ormai piuttosto corposa. Ci limitiamo qui a citare alcune opere generali sul rapporto tra sport e fascismo: F. Fabrizio, Sport e fascismo. La politica sportiva del regime, Guaraldi, Rimini-Firenze 1976; M. Canella, S. Giuntini (a cura di), Sport e fascismo, Franco Angeli, Milano 2009; E. Landoni, Gli atleti del duce. La politica sportiva del fascismo 1919-1939, Mimesis, Milano-Udine 2016.
[3] Sulla storia dell’eugenetica in Italia tra fine Ottocento e il fascismo cfr. R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubettino, Soveria Mannelli 2004; F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
[4] Questo modello di eugenetica “negativa” era considerato consono alla sensibilità “latina” e conforme agli orientamenti della Chiesa cattolica contraria a qualsiasi controllo dei processi riproduttivi. Appariva invece inaccettabile l’impostazione dell’eugenetica “positiva”, prevalente nell’Europa del nord e negli Stati Uniti, volta ad incidere sul meccanismo dell’ereditarietà per migliorare la razza attraverso drastiche misure di selezione genetica come la sterilizzazione dei “tarati”.
[5] Voluta da Mussolini, la Commissione era presieduta da Francesco Saverio Grazioli, uno dei massimi esperti di educazione ginnico sportiva e addestramento militare, e comprendeva, tra gli altri, Augusto Battaglieri, della Federazione Ginnastica Nazionale, Umberto Gabbi, «medico sociale ed eugenico, che nel 1927 avrebbe poi dato vita al famigerato bimestrale “Archivio fascista di medicina politica”, Lando Ferretti, giornalista, di lì a breve destinato ad assumere la presidenza del Coni» e «Adolfo Pollio Salimbeni, capo divisione educazione fisica dei gruppi balilla». Landoni, 2016, p. 70.
[6] Landoni, 2016, pp. 70-71. La relazione è conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato, Presidenza Consiglio dei Ministri, 1. 2.1/4766.
[7] Landoni, 2016, p. 72
[8] N. Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, Cappelli, Bologna 1933.
[9] Pende, 1933, pp. 207-209. Sul dibattito interno alla politica sportiva fascista nei confronti delle donne e sul loro ruolo nello sport durante il regime cfr. P. Ferrara, La “donna nuova del fascismo e dello sport, in Canella, Giuntini, 2009, edizione Kindle, pos. 2322-2581; S. Giuntini, La rivoluzione del corpo. Le italiane e lo sport dalla “Signorina Pedani” a Ondina Valla, Aracne, Canterano 2019, pp. 181-242.
[10] A. Teja, La ricerca medico-sportiva al servizio del regime, in Canella, Giuntini, 2009, edizione Kindle, pos. 1466-1653.
[11] B. Mussolini, Discorsi del 1927, Alpes, Milano 1928, p. 69.
[12] V. Varale, Per la sanità della razza, in “Lo sport fascista”, anno III, n. 3, marzo 1930, p. 1.
[13] La vigorosa e chiara parola del Duce dà all’Italia Fascista le direttive per la vita nazionale nel prossimo quinquennio, in “Il Littoriale”, 19 marzo 1934.
[14] La parola del duce, in “Il Littoriale”, 29 ottobre 1934.
[15] Il volto della stirpe, in “Il Littoriale”, 29 ottobre 1934 (corsivo nel testo).
[16] F. Fabrizio, Introduzione a Canella, Giuntini, 2009, edizione Kindle, pos. 77-78.
[17] B. Roghi, Soldati dello sport, in “La Gazzetta dello Sport”, 11 giugno 1934.
[18] B. Roghi, Per la bandiera, in “La Gazzetta dello Sport”, 20 giugno 1938.
[19] B. Roghi, Nel clima dell’Italia di Mussolini, in “La Gazzetta dello Sport”, 1 agosto 1938.
[20] Maiocchi, 1999, p. 322.
[21] Maiocchi, 1999, pp. 57-58.
[22] Per “La Gazzetta dello sport” Bruno Roghi seguì l’esercito sul terreno di guerra facendosi cantore dell’Italia imperiale. Gli articoli di Roghi confluirono nel volume Tessera verde in Africa Orientale. Impressioni e ricordi di un giornalista nella guerra italo-etiopica, Milano, Elettra, 1936.
[23] N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 355-360. Alle direttive impartite il 5 agosto 1936 dal Ministero per l’Africa Orientale Italiana sulla separazione tra italiani e indigeni fece seguito il Regio decreto del 19 aprile 1937 che colpiva il “madamato”, ovvero la relazione more uxorio tra cittadini italiani e donne africane. Nel 1939 entrò in vigore la “legge quadro” del razzismo fascista nelle colonie che introduceva il nuovo reato di “lesione del prestigio della razza”.
[24] G. Gabrielli, L’attività sportiva nelle colonie italiane durante il fascismo tra organizzazione del consenso, disciplinamento del tempo libero e “prestigio di razza, in Canelli, Giuntini, 2009, edizione Kindle, pos. 2785-2844.
[25] Lettera di Alessandro Lessona a Italo Balbo, 16 aprile 1937, Archivio Storico Diplomatico Ministero Affari Esteri, Archivio Storico Ministero Africa Italiana, b. 70, fasc. Problemi della razza. Cfr. Gabrielli, 2009, edizione Kindle, pos. 2690.
[26] In precedenza il razzismo nei confronti delle persone di colore aveva compromesso la carriera del pugile mulatto Leone Jacovacci. Il 24 giugno 1928 Jacovacci vinse il titolo italiano ed europeo dei pesi medi contro Mario Bosisio, soprannominato “il toro fascista”. Su “La Gazzetta dello Sport” Adolfo Cotroneo scrisse: «Trattandosi […] di un uomo chiamato a rappresentare all’estero il nostro Paese, avremmo preferito che fosse il bianco Bosisio anziché il nero Jacovacci», A. Cotroneo, Ora che Jacovacci detiene due titoli…, in “La Gazzetta dello Sport”, 26 giugno 1928. Nei cinegiornali dell’epoca vennero eliminate le sequenze finali dell’incontro che documentavano la vittoria di Jacovacci. La sua storia è raccontata in M. Valeri, Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci l’invincibile mulatto italico, Palombi, Roma 2007.
[27] N. Cantalamessa, Popoli in decadenza. La Francia cerca tra i neri i campioni dello sport nazionale, in “Il Littoriale”, 19 gennaio 1938.
[28] E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 68-75.
[29] Renato Tassinari, La razza e lo sport, in “Il Littoriale”, 19 agosto 1938.
[30] Collotti, 2003, p. 69.
[31] Bonifica, in “Il Calcio Illustrato”, anno VIII, n. 37, 7 settembre 1938.
[32] A. Burgio, L’invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo, Manifestolibri, Roma 1998.
[33] Collotti, 2003, p. 61.
[34] Questa tesi circolava da tempo in alcuni ambienti scientifici statunitensi in funzione dello stereotipo razzista del “super-atleta nero” secondo il quale le vittorie degli afroamericani in certe discipline sportive, come le prove di velocità nell’atletica leggera, dipendevano da presunte predisposizioni “naturali”. Cfr. D. K. Wiggins, Glory Bound. Black Athletes in a White America, Syracuse University Press, New York 1997, pp. 177-199.
[35] R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1977, (edizione 1998, riveduta e ampliata), pp. 652-53.
[36] L. Businco, I giovani e la razza italiana, in “La difesa della razza”, anno I, n. 1, 5 agosto 1938, p. 35. Cfr. anche E. Vercellesi, Razza e sport, in “La difesa della razza”, anno II, n. 19, 5 agosto 1939, p. 17.
[37] L. Manzi, Lo sport e la donna, in “La difesa della razza”, anno VI, n. 2, 20 novembre 1942, p. 12. Si veda anche M. Bolletti, Lo sport femminile e la salute della razza, in “La difesa della razza”, anno III, n. 7, 5 febbraio 1940, pp. 12-14.
[38] E. Gasteiner, Un pericolo per la razza la decadenza dei ceti superiori, in “La difesa della razza”, anno I, n. 2, 20 agosto 1938 (corsivo nel testo).
[39] Maiocchi, 1999, pp. 83-86.
[40] A. Sacchetti, Sport ed evoluzione dei popoli, in “Razza e civiltà”, anno I, n. 2, aprile 1940, pp. 234-235 (corsivo nel testo)
[41] Sacchetti, 1940, p. 238. Un’altra improbabile lettura a sfondo biologico della storia dei popoli, imperniata sulla “razza sportiva”, era proposta da Cesare Bonacossa – nipote del conte Alberto, proprietario de “La Gazzetta dello sport” – in Aspetti atletici dell’eroe, Milano, Tipografia de La Gazzetta dello Sport, 1939. Su sport e razzismo nell’ideologia fascista si vedano anche Camillo Barbarito, Lo sport fascista e la razza, Torino, Paravia, 1937 e Romolo Giacomini, Razza sportiva, Roma, Olimpia, 1941.
[42] Queste notizie e le relative citazioni sono tratte da “La Gazzetta dello Sport”, 1, 8, 9, 20 dicembre 1938 e da “Il Littoriale”, 7, 10 dicembre 1938.
[43] Gli ebrei allontanati dalla Ginnastica e dalla Triestina di nuoto, in “Il Piccolo”, 15 novembre 1938. Cfr. A. Di Fant, Cultura e sport, in Basta qui siamo finiti! 1938: le leggi razziste a Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2019, pp. 110-117.
[44] S. Giuntini, Sport e Shoah, Sedizioni, Mergozzo 2014, p. 67.
[45] Anche i circoli sportivi di Napoli escludono i giudei dai loro quadri, in “La Gazzetta dello Sport”, 7 dicembre 1938.
[46] In difesa della razza. Alla Forza e Coraggio, in “La Gazzetta dello Sport”, 18 dicembre 1938.
[47] Gli ebrei radiati anche dal “Canottieri Roma”, in “Il Littoriale”, 16 dicembre 1938.
[48] Giuntini, 2014, p. 70.
[49] S. Giuntini, Sport e Shoah in Italia, in “Quaderni della Società Italiana di Storia dello Sport”, anno IV, n. 5, dicembre 2015, pp. 32-33.
[50] Archivio del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Consiglio Generale, verbale della seduta ordinaria del 23 febbraio 1939. Cfr. Landoni, Gli Atleti del duce, cit., pp. 217-218. “La Gazzetta dello Sport” del 24 febbraio riportava una sintesi della seduta del Consiglio – comprese le decisioni per «le epurazioni razziali» – sotto il titolo La rigogliosa vitalità dello sport fascista nelle nuove basilari decisioni del Consiglio Generale del C.O.N.I e con un sottotitolo che dava risalto alle decisioni per «il miglioramento della razza» attraverso lo sport.
[51] www.normattiva.it › uri-res › urn:nir:stato:legge:1942 (ultima consultazione 20 febbraio 2021)
[52] Giuntini, 2014, pp. 70-71.
[53] Collotti, 2003, pp. 84-86.
[54] Questioni ebraiche varie-Massime, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale per la Demografia e la Razza, b. 2, f. 6. La circolare è priva di data, ma risale all’aprile del 1942, cfr. M. Sarfatti, Documenti della legislazione antiebraica: le circolari, in “La Rassegna Mensile di Israel”, vol. 54, n. 1-2, gennaio-agosto 1988, p. 189.
[55] Giuntini, 2014, p. 33. Cfr. l’intervista a Robert Rozett, direttore delle biblioteche Yad Vashem e autore di una ricerca sugli atleti nei campi di concentramento: P. Coccia, Quei campioni europei traditi, in “Il Manifesto”, 27 gennaio 2018.
[56] La storia di Weisz è stata riportata alla luce da M. Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Árpád Weisz, allenatore ebreo, Aliberti, Reggio Emilia 2013 e ripresa poi da G. A. Cerutti, L’allenatore ad Auschwitz. Árpád Weisz: dai campi di calcio italiani al lager, Interlinea, Novara 2020.
[57] Secondo Laura Fontana (responsabile per l’Italia del Memorial de la Shoah di Parigi) la sua fine «potrebbe essere avvenuta durante una delle “marce della morte” dei primi mesi del 1945, quando prossimi al tracollo, i nazisti decisero il trasferimento di migliaia di deportati dai campi dell’Europa orientale verso occidente. In un suo studio, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati in Italia (1943-’45), Liliana Picciotto Fargion ne indica al contrario il decesso a Mauthausen il 14 aprile 1945 assieme al fratello Marco», cfr. Giuntini, 2014, pp. 40-41.
[58] A. Smulevich, Presidenti. Le storie scomode dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma, Giuntina, Firenze 2017. Oltre al caso di Raffaele Jaffe, Smulevich ricostruisce la vicenda di altri due presidenti che per ragioni diverse furono oggetto dell’antisemitismo fascista: Giorgio Ascarelli e Renato Sacerdoti.
[59] Giuntini, 2014, p. 78. Sulla figura e la vita di Erbstein: Leoncarlo Settimelli, L’allenatore errante. Storia dell’uomo che fece vincere 5 scudetti al Grande Torino, Editrice Zona, Civitella Val di Chiana 2006.