I campi di lavoro fascisti per prigionieri di guerra. Soldati nemici nelle miniere del Sulcis
Soldati britannici al campo di concentramento di Sforzacosta (MC) n. 53. Aussme, Fototeca Seconda guerra mondiale, collocazione album 507 n. 647
Abstract
L’articolo intende affrontare il tema dello sfruttamento del lavoro dei prigionieri di guerra (PG) da parte del regime fascista durante la Seconda guerra mondiale. Partendo dalle norme dell’impiego dei soldati nemici, si ripercorre la topografia dei campi di concentramento di lavoro per PG allestiti in Italia. Viene approfondita l’evoluzione della normativa, che fu pianificata solo a partire dal maggio del 1941, della cessione di soldati nemici per il lavoro agli enti sia pubblici che privati. Tali norme che ricalcavano in gran parte ciò che è previsto dalla Convenzione di Ginevra anche se non sempre furono rispettate. Fu così in particolare per i soldati greci e jugoslavi che furono mandati a lavorare nelle miniere della Sardegna. All’organizzazione dei campi per i prigionieri di guerra e in particolare a quelli di lavoro attivati nell’isola di cui il campo P.G. N. 110 di Carbonia e i suoi numerosi distaccamenti è dedicato uno specifico approfondimento.
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The article aims to address the exploitation of prisoner of war (POW) labour by the fascist regime during the Second World War. Starting with the regulations for the employment of enemy soldiers, the topography of the PG labour camps set up in Italy is traced. The evolution of the regulations, which were only planned from May 1941 onwards, of the transfer of enemy soldiers for work to both public and private entities is examined. These regulations largely followed what is provided for in the Geneva Convention even if they were not always respected. This was particularly the case for the Greek and Yugoslav soldiers who were sent to work in the mines of Sardinia. The organisation of camps for prisoners of war and in particular the labour camps set up on the island, of which P.G. camp No. 110 in Carbonia and its numerous detachments are the subject of a specific in-depth study.
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Una storia ancora poco conosciuta: i campi fascisti per il lavoro dei prigionieri di guerra
A partire dalla fine degli anni Ottanta, la storiografia italiana riscoprì l’interesse per la storia della prigionia, trasformando quello che era un “problema rimosso” in un tema di crescente rilevanza. Tuttavia, gli studi si concentrarono soprattutto sull’internamento dei soldati italiani nei campi tedeschi dopo l’armistizio del 1943, mentre rimasero scarsi i contributi che esaminavano il ruolo dell’Italia come detentrice di prigionieri.[1]
Ancora più limitati sono, a tutt’oggi, gli studi sull’impiego e sulle condizioni dei prigionieri di guerra (PG) utilizzati come forza lavoro dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale. La scarsità di fonti primarie, dovuta in parte alla tardiva e frammentaria pianificazione delle autorità italiane per un impiego sistematico della manodopera rappresentata dai prigionieri, e la sottovalutazione di questo tema da parte della storiografia straniera hanno contribuito a creare questa ulteriore lacuna. Inoltre, la ricerca si è focalizzata prevalentemente sul periodo successivo all’8 settembre 1943, con particolare attenzione alla fuga di massa dei prigionieri alleati, trascurando la fase precedente, caratterizzata dalla lunga detenzione e dall’impiego lavorativo dei prigionieri stessi. A oltre ottant’anni dall’inizio del conflitto, il tema della prigionia e del lavoro dei PG in Italia durante la guerra resta dunque lontano dall’essere pienamente esplorato, compreso e conosciuto.
Durante la Seconda guerra mondiale, l’Italia gestì circa 70 campi per PG, distribuiti in modo irregolare su tutto il territorio nazionale. Questi campi venivano spesso allestiti in strutture preesistenti, come conventi, castelli, orfanotrofi e vecchie caserme, o riattivando campi già utilizzati nella Prima Guerra Mondiale. Essi ospitavano prigionieri di varie nazionalità, tra cui inglesi, soldati del Commonwealth, greci, jugoslavi, americani e francesi.[2]
Nei primi mesi di guerra, visti anche i non numerosi PG catturati e la sottovalutazione da parte del regime della loro gestione, furono aperte poche strutture. Con l’aumento del numero di prigionieri, in particolare dopo le vittorie dell’Asse in Nord Africa, il sistema dei campi fu ampliato e, nel 1942, molti nuovi campi furono costruiti in fretta, inclusi accampamenti temporanei per far fronte all’emergenza.[3]
Anche per questa mancata pianificazione iniziale, la gestione dei PG in Italia fu complessa e caratterizzata da lentezze burocratiche e conflitti tra i diversi enti coinvolti. A livello nazionale, la gestione fu affidata a vari organismi, tra cui la Commissione interministeriale per i prigionieri di guerra, l’Ufficio Prigionieri di Guerra” dello Stato Maggiore Regio Esercito (SMRE) e la Croce Rossa Italiana (CRI). La Commissione interministeriale, istituita nell’agosto del 1940, fu uno degli organismi centrali e si occupò principalmente delle questioni legate alla reciprocità nel trattamento dei prigionieri e delle relazioni con le potenze nemiche. Anche per questo motivo, i PG britannici e americani furono trattati con maggiore attenzione rispetto a quelli di altre nazionalità.
I PG rappresentarono per ogni nazione belligerante sia una risorsa da sfruttare, sia un onere significativo. Dovevano essere trattati secondo le convenzioni internazionali, come quella di Ginevra del 1929, che imponeva il rispetto di standard minimi di accoglienza. I prigionieri nemici dovevano essere trasportati, alloggiati, nutriti, curati, sorvegliati e, in alcuni casi, impiegati in lavori, sotto il controllo di organismi internazionali che monitoravano le loro condizioni. In questo contesto, l’Italia fascista affrontò molte difficoltà, soprattutto nei rapporti con la Croce Rossa Internazionale, il Vaticano e altre potenze protettrici, considerate spesso invasive e sospettate di spionaggio.
Con il proseguire della guerra, le direttive vennero adattate per migliorare l’efficienza del sistema, anche grazie a informazioni acquisite da una missione inviata in Germania per studiare lo sfruttamento sistematico della manodopera. Nonostante le nuove norme e la razionalizzazione del processo, la gestione italiana restò macchinosa e frammentaria, con prigionieri utilizzati principalmente in agricoltura, miniere e settori strategici. L’impiego dei prigionieri nei campi di lavoro iniziò a essere pianificato in modo sistematico solo nel 1942.
L’organizzazione rimase meno efficace rispetto a quella tedesca, che aveva pianificato l’impiego dei prigionieri già prima del conflitto, evidenziando l’approccio reattivo dell’Italia, che rispose esigenze contingenti senza un piano strutturato.
In Italia, mancano ancora studi approfonditi sul coinvolgimento delle imprese pubbliche e private nell’impiego dei prigionieri di guerra e degli internati civili. Sebbene centinaia di aziende, soprattutto di grandi dimensioni, richiesero manodopera al governo, non esiste un elenco completo delle imprese coinvolte. Anche molte piccole aziende agricole utilizzarono prigionieri e internati, ma le informazioni sulle normative, sulle condizioni di lavoro e sugli effetti economici di questo impiego sono scarse.
L’impiego dei PG come forza lavoro in Italia durante la Seconda guerra mondiale prese forma nel 1941, con l’introduzione di procedure burocratiche per consentire l’assegnazione dei prigionieri a enti pubblici e privati. Tuttavia, l’attuazione fu lenta a causa della disorganizzazione iniziale, della mancanza di direttive chiare e del timore di conflitti con i sindacati fascisti. Anche per questi motivi i prigionieri alleati per diversi mesi furono occupati soprattutto per svolgere alcune mansioni all’interno dei campi. Nel luglio dello stesso anno a Carbonia fu istituito il primo campo di lavoro per estrarre il carbone dalle miniere del Sulcis, al quale seguirono altre strutture attivate su richiesta di enti pubblici e privati.[4]
Istituzione e gestione dei campi in Italia e nelle colonie
In Italia, la gestione dei campi per prigionieri di guerra era affidata al Ministero della Guerra, mentre nelle colonie africane il compito spettava ai comandi locali. Nel luglio 1940, uno dei primi campi a essere riattivato fu quello di Fonte d’Amore a Sulmona, in provincia dell’Aquila. Questo campo, situato in una struttura già utilizzata durante la Prima guerra mondiale, venne riaperto per accogliere soldati jugoslavi, francesi e, successivamente, inglesi catturati in Libia. Benché la gestione del campo seguisse formalmente le direttive della Convenzione di Ginevra del 1929 le condizioni reali risultavano spesso inadeguate, con gravi carenze di riscaldamento, vestiario e alimenti. Le autorità italiane faticavano a mantenere l’ordine e la disciplina, e le condizioni igieniche lasciavano molto a desiderare.[5]
Nel 1941, l’Italia aprì diversi campi di prigionia anche nelle colonie africane, come il campo di Forte Cadorna in Etiopia e altri campi di transito in Libia, dove furono internati prigionieri britannici, sudafricani e indiani. Anche questi campi, tuttavia, non rispettavano sempre le norme internazionali e le direttive della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei PG. Le ispezioni della Croce rossa internazionale venivano spesso ostacolate dalle autorità italiane, che temevano di rivelare le precarie condizioni in cui si trovavano i prigionieri.
A riguardo il Governo britannico, attraverso l’ambasciata statunitense a Roma, presentò una serie di proteste formali contro l’Italia. Le testimonianze dei prigionieri liberati in Africa Orientale Italiana nel 1941 riportavano condizioni di vita terribili: abusi fisici e psicologici furti e privazioni alimentari, condizioni igieniche estremamente precarie. Le autorità italiane cercarono di mitigare le critiche attribuendo parte della responsabilità ai tedeschi e adottando alcune misure per migliorare le condizioni nei campi, ma molti dei problemi strutturali persistettero.
Nel maggio 1941, durante la campagna in Jugoslavia, l’Italia catturò oltre 13.000 prigionieri, che furono distribuiti tra vari campi nella Penisola. Gli ufficiali jugoslavi furono inizialmente internati nei campi di Aversa (CE) e Cortemaggiore (PC), mentre la truppa venne smistata in campi come Grumello del Piano (BG), Cismon del Grappa (VI) e Prato Tires (BZ). Mentre alcuni di essi, come gli albanesi e in parte i croati, vennero liberati, altri, in particolare i serbi, furono trattenuti in condizioni particolarmente difficili poiché non avevano una Nazione influente a livello internazionale che li tutelasse.
Nello stesso periodo, il Ministero della guerra italiano pubblicò un manuale dettagliato intitolato Istruzioni concernenti i prigionieri di guerra nemici, basato sulle norme della Convenzione di Ginevra del 1929.[6] Questo manuale venne distribuito ai comandi e ai reparti militari, fornendo linee guida sulla cattura, sul trattamento economico, sulla corrispondenza e sull’organizzazione dei campi. Il manuale ribadiva la necessità di garantire condizioni igienico-sanitarie adeguate nelle strutture, di separare gli ufficiali dalla truppa e di promuovere attività intellettuali e ricreative per i prigionieri. Tuttavia, nonostante queste direttive formali, l’applicazione pratica risultò spesso insufficiente.
Durante il conflitto, vennero designati nuovi ospedali per prigionieri feriti o malati, tra cui l’Istituto Rizzoli di Bologna e l’ex lebbrosario di San Lazzaro Alberoni a Piacenza. Inoltre, in conformità con la Convenzione di Ginevra, furono avviati scambi di prigionieri feriti tra l’Italia e il Regno Unito, coordinati dalle potenze protettrici.
Nel 1942, con l’aumento del numero di prigionieri catturati sui fronti libico e sovietico, lo Stato Maggiore italiano istituì l’Ufficio Prigionieri di Guerra (Ufficio PG) sotto la direzione del colonnello Eraldo Pallotta. L’ufficio fu creato per centralizzare la gestione dei campi, migliorare la comunicazione tra i comandi e coordinare le attività dei campi in modo più efficiente. Uno dei provvedimenti introdotti dall’Ufficio PG fu l’adozione di un sistema di numerazione per i campi, al fine di nascondere la loro ubicazione e limitare la possibilità che venissero identificati come obiettivi militari dagli Alleati.
Dalla tabella si può vedere come il numero dei PG in mano italiana aumentò proprio in questo periodo.
Nazionalità | 1-3-42 | 1-5-42 | 1-7-42 | 30-9-42 | 31-1-43 | 28-2-43 | 31-3-43 | 30-6-43 |
Francesi degollisti | 4 | 4 | 688 | 640 | 1523 | 1914 | 2330 | 2010 |
Britannici[7] | 14392 | 15237 | 53906 | 73894 | 68995 | 68898 | 70521 | 70096 |
Greci | 1816 | 1680 | 1684 | 1710 | 1615 | 1690 | 1686 | 1193 |
Jugoslavi[8] | 4610 | 6569 | 6294 | 6243 | 6045 | 5787 | 5760 | 5718 |
Russi[9] | 3343 | 263 | 243 | |||||
Americani | 24 | 24 | 527 | 556 | 742 | 1193 | ||
Totale | 24165 | 23753 | 62839 | 82511 | 78705 | 78805 | 81039 | 80708 |
Tabella 1: Prigionieri di guerra complessivi (Italia-oltremare e in Russia)
Nel corso del 1942, la situazione si complicò ulteriormente a causa della detenzione di migliaia di civili jugoslavi rastrellati durante le operazioni di antiguerriglia nei Balcani. Ciò richiese l’allestimento di nuovi campi per ospitare i civili, oltre ai prigionieri militari già detenuti. Nel luglio 1942 erano attivi 45 campi per prigionieri in Italia, numero che salì a 70 entro l’anno successivo. Questi campi furono suddivisi in varie categorie: campi per ufficiali, campi per sottufficiali e truppa, campi contumaciali e di smistamento, campi di lavoro e campi ospedale. Da diversi campi di lavoro e statici dipendevano vari distaccamenti di PG, in alcuni casi composti da poche decine di soldati nemici, inviati a lavorare in aziende agricole, imprese, miniere, in lavori legati alle infrastrutture o impiegati per la costruzione e la manutenzione degli stessi campi di concentramento.[10]
Organizzazione e gestione dell’impiego per il lavoro dei prigionieri di guerra
Come già si evince da questi primi cenni, nonostante le strutture organizzative esistenti, la gestione dei prigionieri in Italia fu spesso inefficace e, in diversi casi, non rispettò le direttive previste dalla Convenzione di Ginevra. In particolare, queste norme vennero disattese nell’utilizzo dei prigionieri greci e jugoslavi. La scarsità di risorse e l’inefficienza amministrativa complicarono ulteriormente la situazione, rendendo difficile garantire condizioni di vita e di trattamento adeguate nei campi di prigionia.
L’impiego dei PG come manodopera fu uno degli aspetti più controversi della loro gestione. Nel maggio 1941, la Commissione interministeriale emanò direttive basate sulla Convenzione di Ginevra per regolare l’impiego dei prigionieri nei distaccamenti di lavoro. Tuttavia, a causa delle complesse procedure burocratiche e della disorganizzazione iniziale, l’effettivo utilizzo dei prigionieri per il lavoro esterno ai campi fu ritardato di diversi mesi.
Solo nel luglio 1941 venne aperto il primo campo di lavoro a Carbonia, in Sardegna, dove 1.500 prigionieri serbi furono impiegati nelle miniere di carbone dell’Azienda Carboni Italiani. A settembre dello stesso anno, anche un gruppo di prigionieri greci fu trasferito nelle miniere sarde. Questo tipo di lavoro violava apertamente la Convenzione di Ginevra, che proibiva l’impiego di prigionieri in lavori pericolosi e direttamente collegati allo sforzo bellico. Tuttavia, la scarsità di manodopera e l’assenza di protezione internazionale per i prigionieri serbi e greci giustificarono, agli occhi delle autorità italiane, il loro impiego nelle miniere.
Nel novembre 1941, lo Stato Maggiore annunciò l’arrivo di migliaia di prigionieri russi catturati sul fronte orientale, che avrebbero dovuto essere destinati ai lavori minerari in Italia. Questi prigionieri, per motivi logistici e igienico sanitari, non furono mai trasferiti nel Paese, ma furono ceduti ai tedeschi.[11]
In questa occasione, lo Stato Maggiore del Regio Esercito emise la circolare n. 43500, volta a disciplinare l’impiego dei prigionieri destinati ai lavori nelle miniere in Italia. Le norme contenute negli allegati della circolare costituivano la base per tutte le successive disposizioni relative al trattamento dei prigionieri destinati ai distaccamenti di lavoro. Queste norme stabilivano che:
- Ufficiali e assimilati – potevano essere impiegati solo in lavori che si addicevano al loro rango, su richiesta.
- Sottufficiali – potevano essere utilizzati solo per lavori di sorveglianza, salvo richiesta di un’occupazione remunerativa.
- Zone di lavoro – era proibito assegnare i prigionieri a lavori insalubri o pericolosi e a mansioni connesse direttamente alle operazioni di guerra.
- Inasprimento – i prigionieri erano autorizzati a designare fiduciari per rappresentarli presso le autorità militari (art. 43 della Convenzione di Ginevra). L’attività dei fiduciari, come quella svolta dai prigionieri-lavoratori, era considerata parte della durata obbligatoria del lavoro.
- Attrezzi e arnesi – dovevano essere forniti dalle amministrazioni pubbliche interessate e dai privati.
- Durata del lavoro – non doveva superare quella consentita per i lavoratori civili della stessa categoria. Il tempo di andata e ritorno dagli alloggiamenti era incluso nella durata del lavoro.
- Riposo settimanale – ai prigionieri era concesso un riposo di 24 ore consecutive ogni settimana, preferibilmente la domenica.[12]
La circolare ribadiva che la vigilanza, la disciplina e il servizio di scorta erano garantiti dalle autorità militari territoriali, mentre le amministrazioni pubbliche e i privati erano responsabili della direzione tecnica dei lavori e dovevano provvedere a trovare locali idonei per ospitare i prigionieri e il personale di sorveglianza. Il materiale di casermaggio e il vitto erano forniti dall’amministrazione militare. Gli enti richiedenti erano inoltre tenuti a garantire il salario, che variava a seconda della nazionalità dei prigionieri e degli accordi stabiliti con le diverse potenze interessate. Per gli inglesi e i francesi, i lavoratori qualificati ricevevano £0,45 per ogni ora di lavoro, con un massimo giornaliero di £3,60; per i non qualificati, £0,22 per ora e £1,80 giornaliere. Per i greci e i serbi, senza distinzione tra qualificati e non, la paga era di £0,35 all’ora, con un limite massimo di £2,80 giornaliere. Gli enti dovevano anche coprire l’assicurazione, l’eventuale fornitura del vestiario e rimborsare il trasporto dei prigionieri dai campi ai distaccamenti, oltre a vitto e alloggio.[13]
I “campi di lavoro” iniziarono a funzionare a partire dal 1942, quando la necessità di manodopera nazionale divenne urgente. All’inizio, l’impiego dei prigionieri era sporadico e poco pianificato, ma verso la fine del 1942 e l’inizio del 1943 il comando supremo italiano ordinò di utilizzare tutti i prigionieri disponibili per lavori agricoli e altre attività rilevanti per lo sforzo bellico.
Nonostante gli sforzi per emulare il sistema tedesco di sfruttamento della manodopera, l’utilizzo dei prigionieri nei campi di lavoro italiani restò limitato. A differenza della Germania, dove fino al 90% dei prigionieri era impiegato in attività lavorative, in Italia la priorità rimaneva la sicurezza e la sorveglianza, e solo una minoranza fu effettivamente coinvolta in lavori[14]. Questo sistema di impiego dei prigionieri, pur diventando più sistematico nel 1943, continuò a soffrire di problemi logistici e di scarsità di risorse, non riuscendo a diventare un pilastro della politica detentiva italiana.
La decisione di utilizzare i prigionieri alleati per lavori agricoli e altre attività economiche fu presa dopo un lungo dibattito tra le autorità militari e quelle politiche fasciste, che temevano che ciò potesse provocare malcontento tra la popolazione e proteste da parte dei sindacati fascisti. Nonostante gli sforzi dell’Ufficio Prigionieri di Guerra, l’organizzazione del lavoro rimase caotica. L’utilizzo dei prigionieri, sia nei principali campi di lavoro che nei distaccamenti, restò limitato, e solo nell’estate del 1943 si verificò un notevole incremento della loro cessione alle imprese, soprattutto alle aziende agricole.
Le normative emanate dal Ministero della Guerra nel dicembre 1942 stabilivano che le aziende agricole che volevano utilizzare i prigionieri dovevano rispettare alcuni criteri:
- I campi di lavoro dovevano essere allestiti, adattando locali già esistenti, a spese dei datori di lavoro.
- I campi dovevano essere recintati con filo spinato e le strutture di alloggio dovevano poter essere chiuse durante la notte, con latrine interne.
- I campi dovevano ospitare almeno 50 prigionieri.
- Dai campi potevano distaccarsi nuclei di 10-12 unità, a condizione che le aziende si trovassero entro un raggio di 10 km.
- I campi dovevano includere un dormitorio, un refettorio, una cucina e locali per la sorveglianza, separati da quelli dei prigionieri[15].
Nel 1943 si verificò un aumento dei piccoli distaccamenti di lavoro dipendenti dai campi principali, ma l’organizzazione continuò a soffrire di problemi logistici e risorse insufficienti, soprattutto per garantire una sorveglianza adeguata.
N. | Località | Francesi (degaullisti) | Britannici e domini | Greci | Jugoslavi | Internati civili | |
102 | L’Aquila | 716 | |||||
103 | Montigo | 533 | 1 | ||||
104 | Vercelli | 1528 | |||||
105 | Tor Viscosa | 1380 | |||||
110 | Carbonia | 696 | 295 | 1554 | |||
112 | Torino | 175 | |||||
115 | Asti | 169 | 259 | ||||
118 | Morgnano | 360 | 438 | ||||
119 | Prato Isarco | 516 | |||||
120 | Chiesanuova | 1198 | 60 | ||||
122 | Cinecittà | 1 | 787 | ||||
127 | Locana Canavese | 190 | |||||
129 | Montelupone | 103 | |||||
130 | Novara | 817 | |||||
132 | Bologna | 116 | |||||
145 | Montorio al Vomano | 353 | |||||
146 | Mortara | 2343 | |||||
148 | Pol di Pastrengo | 1268 | |||||
Ruscio | 91 | ||||||
Tavernelle | 463 |
Tabella 2: I campi di lavoro al giugno del 1943.
Per molti prigionieri alleati i luoghi di lavoro furono fondamentali per stabilire contatti proibiti con la popolazione locale. Dopo l’8 settembre 1943, questi rapporti, spesso con i contadini, si rivelarono cruciali per trovare aiuto e sfuggire alla deportazione nazista.[16] Questa “alleanza inattesa” coinvolse molte famiglie italiane, che, a rischio della propria vita, nascosero ex prigionieri.[17] Ai cittadini italiani che avevano fornito supporto agli Alleati fu rilasciato il Certificato di Benemerenza, firmato dal generale Harold Alexander, che esprimeva gratitudine e offriva protezione morale e legale agli italiani coinvolti. L’Istituto nazionale Parri, in collaborazione con il San Martino Trust di Londra, sta ricostruendo queste storie nel database alleatiinitalia.it.[18]
Il campo di lavoro di Carbonia e i suoi distaccamenti
Il campo P.G. N. 110 di Carbonia, attivo dal luglio 1941, divenne il principale centro di lavoro per PG in Sardegna. Inizialmente, il campo ospitava 1.500 prigionieri serbi, impiegati nelle miniere di carbone. Nel marzo 1942, vi erano 1.491 prigionieri serbi internati. In quel periodo, esistevano in Sardegna altri campi di lavoro, tra cui Bacu Abis (n. 124), Montevecchio (n. 131), Monteponi (n. 137), e Monti Mannu (n. 147), che ospitavano prigionieri di diverse nazionalità, tra cui greci e jugoslavi. Questi distaccamenti, distribuiti strategicamente nelle aree minerarie della Sardegna, erano destinati a sopperire alla crescente necessità di manodopera nell’industria estrattiva, considerata cruciale per lo sforzo bellico italiano. Nel corso del conflitto altri prigionieri furono ceduti ad alcune aziende agricole dell’isola per i lavori nelle campagne.[19]
Nel giugno 1942, probabilmente per ottimizzare la gestione, l’Ufficio PG riorganizzò il sistema dei campi sardi e tutti i prigionieri furono assegnati al campo di Carbonia e le altre strutture ne divennero dei distaccamenti. Nello stesso periodo si registrò la presenza di 2.224 PG, tra serbi, montenegrini, albanesi e greci, che lavoravano nelle miniere. Nel gennaio del 1943, con l’arrivo di 700 sudafricani destinati al campo di Bacu Abis, il totale dei PG utilizzati come lavoratori in Sardegna raggiunse le 2.963 unità impiegate tra il campo principale di Carbonia e i suoi diversi distaccamenti di lavoro. Nel marzo 1943, il campo di Carbonia contava un totale di 3.056 internati, suddivisi tra 1.248 serbi, 700 sudafricani bianchi, 386 greci, 255 albanesi, 168 croati, 126 montenegrini, 107 “nuovi italiani” (sloveni provenienti dai territori annessi all’Italia), e 63 prigionieri di altre nazionalità, tra cui bulgari, rumeni e ungheresi.[20]
I prigionieri furono costretti a lavorare nelle miniere nonostante le proteste e le resistenze. La disciplina era rigida e i prigionieri che non producevano abbastanza venivano puniti severamente. Delle dure condizioni e della pericolosità del lavoro si ha notizia anche dal monumento dedicato ai prigionieri di guerra jugoslavi deceduti nel campo di concentramento di Carbonia.
Il monumento si trova nel cimitero di Carbonia, dove fu eretto dagli stessi prigionieri di guerra, prevalentemente serbi, in memoria dei circa 44 compagni deceduti nel campo tra il 1941 e il 1943. Su un lato del monumento è incisa la data 28-VI-1943, che suggerisce che sia stato eretto poco prima del trasferimento dei prigionieri dal campo di Carbonia a quello di Grumello del Piano.[21]
In seguito ad alcuni incidenti e alle proteste dei prigionieri jugoslavi e greci che si rifiutarono di lavorare sottoterra, alla fine del gennaio 1943 l’Ufficio PG emise un dispaccio con il quale veniva stabilito che, «per ragioni di opportunità», nei «lavori minerari in sotterraneo» d’ora in poi fossero impiegati solo i prigionieri che si presentavano volontariamente.[22]
Distaccamento di Bacu Abis (Campo P.G. N. 124)
Il distaccamento di Bacu Abis, situato nelle vicinanze di Carbonia, era uno dei principali centri di lavoro per prigionieri. Istituito inizialmente come campo autonomo con il numero P.G. N. 124, venne utilizzato principalmente per l’impiego dei prigionieri greci nelle miniere locali. Alla fine di settembre 1941 circa 500 prigionieri greci arrivarono a Bacu Abis, ma ben presto si verificarono episodi di resistenza. I prigionieri rifiutarono di scendere nelle miniere, un lavoro considerato pericoloso, insalubre e% in aperta violazione della Convenzione di Ginevra. Il Ministero della Guerra ordinò che i responsabili della protesta fossero processati penalmente e nel marzo 1943 13 prigionieri furono condannati a 7 anni di carcere per aver guidato la rivolta. Con l’arrivo di ulteriori contingenti di prigionieri sudafricani nel dicembre 1942, il distaccamento di Bacu Abis vide un ampliamento delle sue funzioni. Circa 700 prigionieri sudafricani bianchi, trasferiti dal campo P.G. N. 54 di Passo Corese, furono inviati a lavorare nelle miniere di Bacu Abis, portando alla formazione di un nucleo specializzato nell’estrazione del carbone. Il campo dipendeva direttamente dal campo principale di Carbonia, che ne coordinava le operazioni.
Distaccamento di Monteponi (Campo P.G. N. 137)
Un altro importante distaccamento sotto il controllo di Carbonia era Monteponi, frazione di Iglesias, dove si trovava il campo P.G. N. 137. Questo distaccamento fu istituito per sfruttare la manodopera prigioniera nelle ricche miniere di piombo e zinco della zona. Inizialmente, il campo ospitava principalmente prigionieri greci e jugoslavi, che venivano impiegati nel duro lavoro minerario. Come per Bacu Abis, anche i prigionieri di Monteponi si ribellarono in alcune occasioni, rifiutando di lavorare sottoterra. Anche questo campo venne formalmente chiuso nel giugno 1942, ma il sito continuò a operare come distaccamento dipendente da Carbonia, indicando un cambiamento puramente amministrativo piuttosto che operativo.
Le condizioni di vita e di lavoro a Monteponi erano estremamente dure, con frequenti incidenti sul lavoro a causa della pericolosità delle miniere. I prigionieri erano sottoposti a severe punizioni in caso di scarso rendimento, e le ispezioni della Croce rossa internazionale furono raramente autorizzate, soprattutto per i prigionieri jugoslavi, che non avevano un governo che potesse rappresentarli o protestare formalmente contro le violazioni delle Convenzioni internazionali.
Distaccamento di Montevecchio (Campo P.G. N. 131)
Il distaccamento di Montevecchio, anch’esso originariamente un campo autonomo con il numero P.G. N. 131, era situato nell’area mineraria di Montevecchio, famosa per l’estrazione di piombo, zinco e argento. Questo campo ospitava principalmente prigionieri jugoslavi e greci, che venivano impiegati nelle miniere locali. Come per gli altri distaccamenti minerari della Sardegna, i prigionieri erano costretti a lavorare in condizioni estremamente pericolose, spesso senza protezioni adeguate.
Dopo il riordino amministrativo del luglio 1942, il campo di Montevecchio fu formalmente trasformato in distaccamento del campo principale di Carbonia. Questo passaggio rappresentò un tentativo delle autorità italiane di centralizzare il controllo e rendere più efficiente la gestione del lavoro di PG nelle miniere sarde. Tuttavia, nonostante questi cambiamenti, le condizioni di vita e di lavoro rimasero invariate.
Distaccamento di Monte Mannu (Campo P.G. N. 147)
Monte Mannu era un altro distaccamento importante, con il campo P.G. N. 147 situato nella zona mineraria dell’omonima località. Questo campo ospitava prevalentemente prigionieri jugoslavi, che venivano impiegati nelle miniere di rame della regione. Anche Monte Mannu venne trasformato in distaccamento di Carbonia nel luglio 1942, ma continuò a funzionare con la stessa struttura e gli stessi obiettivi operativi, cioè l’estrazione di minerali essenziali per lo sforzo bellico.
Distaccamento di Villagrande Strisaili
Uno dei distaccamenti meno conosciuti era quello di Villagrande Strisaili, istituito nel giugno 1942. Questo distaccamento non era destinato al lavoro minerario, ma piuttosto alla costruzione di una diga lungo il fiume Flumendosa, nel centro montuoso della Sardegna. Il progetto di costruzione, gestito dalla società Ferrobeton, richiedeva una grande quantità di manodopera, e circa 318 prigionieri serbi furono inviati a lavorare nel cantiere. Il distaccamento dipendeva dal campo di Carbonia e, nonostante la sua localizzazione lontana dalle miniere, i prigionieri erano comunque sottoposti a dure condizioni lavorative e a una rigida disciplina.
Distaccamento di Sanluri
Il distaccamento di Sanluri, situato nel Medio Campidano, ebbe una vita breve ma significativa. Fondato nel 1942, questo distaccamento venne utilizzato principalmente per il lavoro agricolo, impiegando prigionieri greci e jugoslavi. Sanluri non durò a lungo come campo autonomo, e nel luglio dello stesso anno fu inglobato sotto la gestione del campo di Carbonia, seguendo il modello centralizzato adottato dalle autorità militari italiane. Le condizioni di vita e lavoro per i prigionieri di Sanluri erano comunque difficili, simili a quelle riscontrate nei distaccamenti minerari.
Distaccamento di Arborea (Mussolinia)
Un altro distaccamento agricolo importante fu quello di Arborea, una cittadina fondata durante il periodo fascista e inizialmente chiamata Mussolinia. Nel distaccamento di Arborea, che dipendeva dal campo di Carbonia, vennero impiegati circa 200 prigionieri serbi e greci in lavori agricoli per la Società Bonifiche Sarde, principalmente per la bonifica e la coltivazione dei terreni agricoli. Le condizioni di vita ad Arborea, come negli altri distaccamenti agricoli, erano dure ma leggermente migliori rispetto ai distaccamenti minerari, poiché il lavoro non era considerato pericoloso come quello sotterraneo.
Distaccamento di Alghero (azienda agricola Sella & Mosca)
Uno dei distaccamenti agricoli più noti fu quello di Alghero, dove un gruppo di prigionieri serbi venne impiegato presso l’azienda vinicola Sella & Mosca, una delle più grandi tenute agricole della Sardegna. Questo distaccamento, istituito nel 1942, dipendeva anch’esso dal campo di Carbonia e impiegò circa 100 prigionieri nei lavori agricoli stagionali, come la mietitura e la coltivazione della vite. Nonostante la localizzazione lontana dai principali campi minerari, anche qui le condizioni di vita per i prigionieri erano difficili, e la disciplina veniva rigidamente applicata.
Condizioni di vita e lavoro nei campi della Sardegna
Le condizioni di vita nei campi sardi erano generalmente dure. I prigionieri erano sottoposti a pesanti turni di lavoro, soprattutto nelle miniere, e coloro che rifiutavano di lavorare, come accadde in diversi casi a Bacu Abis e Monteponi, venivano puniti severamente. Nonostante le proteste e i rifiuti di alcuni prigionieri di lavorare sottoterra, le autorità italiane cercavano di mantenere un rigido controllo, applicando sanzioni disciplinari e, in alcuni casi, sottoponendo i prigionieri a processi militari. Nel gennaio 1943, a seguito delle ripetute proteste dei prigionieri, lo Stato Maggiore decise di limitare l’impiego nei lavori sotterranei ai soli volontari, anche se questa politica venne applicata solo in parte.
La retribuzione dei prigionieri, come si è visto, variava a seconda della nazionalità. I prigionieri britannici e francesi ricevevano salari leggermente più alti rispetto ai prigionieri greci e serbi, i quali venivano pagati circa £0,35 all’ora, senza distinzione tra lavoratori qualificati e non qualificati. Il salario era spesso ridotto per coprire le spese di vitto, alloggio e trasporto, rendendo di fatto minima la somma che i prigionieri potevano effettivamente spendere all’interno dei campi.
La gestione della sorveglianza era affidata alle autorità militari, mentre le aziende private o gli enti pubblici che impiegavano i prigionieri erano responsabili della direzione tecnica del lavoro. Le ispezioni della Croce rossa internazionale erano rare, soprattutto per i prigionieri jugoslavi e greci, la cui protezione internazionale era estremamente limitata. Questo portò a violazioni continue delle norme della Convenzione di Ginevra, con i prigionieri spesso costretti a lavorare in condizioni che mettevano a rischio la loro salute.
Conclusione
Il sistema dei campi di lavoro in Sardegna, con il campo P.G. N. 110 di Carbonia come fulcro principale e numerosi distaccamenti sparsi per l’isola, rappresentò un capitolo significativo nella gestione dei prigionieri di guerra in Italia durante la Seconda guerra mondiale. Le dure condizioni di lavoro, le frequenti violazioni delle norme internazionali e le proteste dei prigionieri segnarono profondamente la storia di questi campi. Nonostante le ripetute proteste e i tentativi di resistenza, l’Italia continuò a sfruttare il lavoro dei prigionieri come mezzo per sostenere lo sforzo bellico, peggiorando ulteriormente le condizioni di coloro che si trovavano internati nei campi e nei distaccamenti sardi.
Come ha sottolineato Andrea Giuseppini,[23] manca ancora uno studio approfondito che comprenda le imprese coinvolte nell’utilizzo dei prigionieri di guerra come lavoratori durante la Seconda guerra mondiale in Sardegna. Gli elenchi disponibili dei campi e delle aziende che si avvalsero della manodopera prigioniera sono ancora provvisori, basati principalmente sui documenti dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, senza un riscontro negli eventuali archivi aziendali.
Le difficoltà nel reperire i documenti sono infatti aggravate dal fatto che le aziende private non sono obbligate a conservare i propri archivi storici, rendendo complessa la ricostruzione delle dinamiche dell’impiego dei prigionieri e dei benefici economici ottenuti dalle imprese.
Al momento, disponiamo della topografia della maggior parte delle strutture e di gran parte dei distaccamenti di lavoro, oltre al nome di diverse aziende che utilizzarono la manodopera dei prigionieri. Partire da queste informazioni oggi ci consente di non dimenticare questi luoghi della memoria e la loro storia, e magari arricchirla con ulteriori approfondimenti a livello locale. Inoltre, partire da questi dati è utile per ampliare lo sguardo sulle diverse forme di prigionia, sui campi di concentramento, sullo sfruttamento e sulle condizioni dei prigionieri di guerra. Si tratta di questioni che continuano, tragicamente, a far parte di tutti i conflitti, compresi quelli che stiamo vivendo attualmente.
Bibliografia
Libri
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- R. Pannacci, Nemici, reclusi, forza lavoro. I prigionieri sovietici in mano italiana durante la campagna di Russia, in “Studi storici” 2/2022, pp. 341-371.
- R. Pannacci, L’occupazione italiana in URSS. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-1943), Carocci, Roma 2023.
- T. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Bari 2019.
- M. Tenconi, Nelle mani di Mussolini. Prigionieri di guerra, aspetti generali e peculiarità piemontesi, in «L’impegno», 1 (2014), pp. 59-65.
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- M. Tenconi, Prigionia e fuga dal pavese, in «Studi e ricerche di storia contemporanea», 92 (2019), pp. 49-57.
- M. Tenconi, Prigionia, sopravvivenza e Resistenza. Storie di australiani e neozelandesi in provincia di Vercelli (1943-1945), in «L’impegno», 1 (2008), pp. 27-49.
Atti di convegni
- Al di là del filo spinato. Prigionieri di guerra e profughi a Laterina, 1940-1960. Atti del Convegno, Laterina, 27 marzo 1999, a cura di Ivo Biagianti, Firenze, Centro editoriale toscano, 2000.
Documenti
- Inter arma caritas. L’Ufficio Informazioni Vaticano per i prigionieri di guerra istituito da Pio XII, 1939-1947, a cura di Francesca Di Giovanni e Giuseppina Roselli, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2004.
Sitografia
Note:
[1] M. Minardi (a cura di), Prigionieri in Italia (190-1945), MUP-Istituto Storico di Parma, 2021; I. Insolvibile, La prigionia alleata in Italia, Viella, Roma 2023.
[2] Una mappatura completa si può trovare su https://www.alleatiinitalia.it/
[3] Cfr. www.campifascisti.it.
[4] Cfr. A. Giuseppini, Il lavoro obbligatorio in Sardegna. Una ricerca in corso tra archivi militari e archivi d’impresa, https://campifascisti.it/file/giuseppini.pdf.
[5] Cfr. Insolvibile, 2023, pp. 117-153.
[6] C. Di Sante, L’organizzazione dei campi di concentramento fascisti per i soldati nemici, in Minardi, 2021, pp. 20-23.
[7] I numeri riportati, comprendono non solo i prigionieri inglesi ma anche i militari dei domini della Gran Bretagna (indiani, neozelandesi, sudafricani, canadesi, ciprioti e mediorientali).
[8] Sono stati omessi i numeri riportati nelle tabelle dei civili rastrellati dall’esercito italiano.
[9] Il numero dei prigionieri russi si riferisce a quelli che sono ancora in mano italiana e internati nei campi attivi in Russia. Circa 15.000 militari sovietici, catturati dal Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR), tra il gennaio e il maggio del 1942 sono ceduti ai tedeschi o consegnati alle autorità rumene. Ibidem. Ricordiamo che nell’ottobre del 1941 il generale Giovanni Messe, comandante del CSIR, aveva deciso di consegnare i prigionieri russi ai tedeschi. Questa scelta era stata dettata dalle difficoltà logistiche del loro trasporto in Italia e dall’accordo che in un secondo momento quelli idonei al lavoro sarebbero stati selezionati e inviati in Italia direttamente dalla Germania. Nel febbraio del 1942 il governo italiano decise di rinunciare a questa soluzione anche a causa dell’epidemia di tifo petecchiale che colpì i PG russi. Sul tema si veda T. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Bari 2019, pp. 93-106; R. Pannacci, L’occupazione italiana in URSS. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941-1943), Carocci, Roma 2023; Id. Nemici, reclusi, forza lavoro. I prigionieri sovietici in mano italiana durante la campagna di Russia, in “Studi storici” 2/2022, pp. 341-371.
[10] Per un primo quadro generale dei distaccamenti di lavoro si veda: https://campifascisti.it/elenco_tipo_campi.php?id_tipo=21
[11] Vedi n. 10.
[12] Norme di massima sull’utilizzazione dei prigionieri di guerra in lavori fuori dai campi concentramento. Allegato alla circolare n. 43500 del 5 novembre 1941. Aussme, fondo SIM, 10^ Divisione, Raccolta circolari 1941, b. 8.
[13] Cfr. Norme di massima sull’utilizzazione dei prigionieri di guerra in lavori fuori dai campi concentramento. Allegato alla circolare n. 43500 del 5 novembre 1941. Aussme, fondo SIM, 10^ Divisione, Raccolta circolari 1941, b. 8. .
[14] Cfr. C. Di Sante, Materiale umano. Testimonianze di militari e civili italiani sui lager, sulle fabbriche e sui campi di lavoro del Terzo Reich, Novalogos, Roma 2022.
[15] Direttiva inviata il 18 dicembre 1942 a “tutte le unioni provinciali fasciste degli agricoltori”. Aussme, USSME, Diari Storici, b. 840.
[16] Cfr. M. Tenconi, Prigionia e fuga dal pavese, in «Studi e ricerche di storia contemporanea», 92 (2019), pp. 49-57.
[17] R. Absalom, A Strange Alliance. Aspects of escape and survival in Italy 1943-45, Firenze, Olschki, 1991 (trad. it. L’alleanza inattesa. Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia (1943-1945), Pendagron, Bologna 2011.
[18] Cfr. https://www.alleatiinitalia.it/
[19] Cfr. Giuseppini, s.d., pp. 17-23.
[20] Cfr. https://campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=174.
[21] https://campifascisti.it/scheda_img_full.php?id_img=618
[22] Cfr. C. Di Sante, 2022, pp. 26-27.
[23] Cfr. Giuseppini, s.d., p. 1.