Tramariglio: una colonia penale nella Sardegna nord-occidentale dal fascismo agli anni Sessanta. Immagini e documenti
“Il lavoro dei campi e delle officine…” (da Calendario del Corpo degli AA. CC. per l’anno 1955)
Abstract
Attraverso una “semantica della redenzione”, sia di vasti territori sia di “materiale umano”, lo studio intende ripercorrere le tappe fondamentali del modello “Colonia penale” dai primi esperimenti pionieristici di metà Ottocento fino alle colonie nate nel XX secolo, alcune ancora attive quasi come autentiche reliquie di un passato percepito remoto. La messa a coltura di luoghi inospitali e lontani dai centri urbani, come testimoniato dalla documentazione archivistica consultata, rappresentava il mezzo ideale per condurre opere di redenzione sociale e morale, spesso destinate a rimanere velleitarie utopie. Il presente contributo intende dunque evidenziare, all’interno della mobilità imposta dall’istituzione carceraria, le dinamiche migratorie proprie di una “città nella città”, amplificate dalla lontananza fisica e psicologica che generava la permanenza in una remota colonia penale situata in una propaggine della Nurra, regione della Sardegna nord-occidentale a bassissima densità abitativa, pietrosa, brulla e malarica.
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Through a ‘semantics of redemption’, both of vast territories and of ‘human material’, the study intends to retrace the fundamental stages of the ‘penal colony’ model from the first pioneering experiments in the mid-19th century to the colonies born in the 20th century, some still active almost as authentic relics of a perceived remote past. The cultivation of inhospitable places far from urban centres, as testified by the archival documentation consulted, represented the ideal means to conduct works of social and moral redemption, often destined to remain vain utopias. This contribution therefore intends to highlight, within the mobility imposed by the prison institution, the migratory dynamics typical of a ‘city within a city’, amplified by the physical and psychological remoteness generated by the stay in a remote penal colony located in an offshoot of the Nurra, a region of north-western Sardinia with a very low population density, stony, barren and malarial.
Premessa
Nel sistema penitenziario postunitario la colonia penale ha rappresentato, fin dal momento della sua nascita, un’importante alternativa alle carceri costantemente sovraffollate e carenti di spazi adeguati.[1] Si trattava di un’istituzione, i cui prodromi si registrarono nel Granducato di Toscana con la fondazione di una prima colonia a Pianosa, dove i detenuti potevano esercitare il lavoro all’aperto.[2] L’invio di condannati nelle colonie era visto dall’amministrazione penitenziaria come un premio da destinare ai detenuti «meritevoli» che palesavano «indubbie capacità di ravvedimento».[3] Considerate le condizioni di vita all’interno degli stabilimenti di pena, l’invio in una colonia penale poteva essere ritenuto dai detenuti una chance, un premio a loro riservato e inoltre, dato non secondario, rappresentava un modo per abbassare il numero e i costi del personale di custodia. Soprattutto era considerato un mezzo ideale per bonificare le campagne, prosciugare le paludi e dissodare i terreni incolti. Ma già agli inizi del XX secolo si registrarono i primi scricchiolii del “sistema colonia”: erano additati i costi eccessivi derivanti dal mantenimento dei detenuti, superiori a quelli per i reclusi negli stabilimenti chiusi, oltre che l’oscillazione delle produzioni agrarie monitorate nei bilanci, derivante dall’incostanza delle condizioni climatiche. Con una certa frequenza, inoltre, la popolazione detenuta contraeva la malaria e la mortalità era alta, favorita dalle scarse condizioni igieniche e sanitarie. Nonostante tutto, il modello “colonia penale” continuò a perseverare persino decenni dopo i primi tentativi ottocenteschi: la necessità del lavoro all’aperto sembra essere essenziale anche nel nuovo Regolamento degli istituti di prevenzione e pena del 1931,[4] che ne delinea espressamente il significato.[5]
Nel Novecento sorgeranno una colonia a Tramariglio, vicino ad Alghero (1940), ed una nella costa di Arbus (Cagliari), in località Is Arenas (1961). Non mancheranno infine tentativi di istituire case di lavoro all’aperto (o trasferire alcune sedi di colonie già esistenti) in altre regioni della Sardegna (Quirra, Ales, Mogorella, Monte Minerva – Villanova Monteleone) rimasti allo stadio embrionale.[6]
La casa di lavoro all’aperto di Tramariglio
Tra il 1937 ed il 1938 si perfezionò l’accordo tra Ministero di Grazia e Giustizia ed Ente ferrarese di colonizzazione (d’ora innanzi Efc) per la creazione di una casa di lavoro all’aperto nella regione di Porto Conte.[7] L’Efc, istituito con decreto del capo del Governo del 7 ottobre 1933, si occupava della bonifica agraria della Nurra su un territorio esteso 30mila ettari.[8] Il Ministero avrebbe avuto in concessione la colonia di Tramariglio per un periodo di venti anni, al termine del quale l’Ente avrebbe riottenuto i terreni, bonificati e adatti allo sfruttamento agrario, e le strutture detentive, da riconvertire in un centro agricolo e di pescatori.[9] Il borgo di Tramariglio fu progettato nel 1939 dall’ingegnere Arturo Miraglia, funzionario tecnico dell’Efc e autore del primo progetto per la creazione del borgo di Fertilia,[10] modulato sul prototipo dei villaggi-tipo e articolato in uno stabilimento centrale e in tre diramazioni principali a presidio del territorio. La casa di lavoro rimase attiva per oltre un ventennio, terminando la propria attività istituzionale nel marzo 1962: la zona di Porto Conte si apprestava definitivamente a diventare una delle mete dell’incipiente turismo degli anni della rinascita, come dimostrato dai vari progetti di adattamento e trasformazione.[11]
Nel luglio dello stesso anno arrivarono i primi bambini, autentici pionieri del nuovo destino della colonia penale: lo stabile della “centrale” del penitenziario fu utilizzato dal Consorzio provinciale dei patronati scolastici di Sassari.[12] La “colonia elioterapica” di Tramariglio farà conoscere il mare, spesso per la prima volta, a tanti giovanissimi dell’entroterra sardo. Durante il periodo di attività estivo l’edificio, che un tempo costituiva lo stabilimento centrale, prese il nome di “Casa Gioiosa”, accattivante appellativo che creava una netta cesura col passato dello stabile e del luogo.
Migrazioni e mobilità della popolazione detenuta
La prima sostanziale migrazione si verifica già all’atto della costruzione della colonia di Tramariglio. A testimoniarlo sono, oltre i registri giornalieri dei lavoranti, anche le parole del ministro Dino Grandi: «i condannati della casa di lavoro all’aperto di Castiadas vengono trasferiti nella colonia di Porto Conte che va sorgendo per opera dei detenuti e che a suo tempo, redenta dal loro lavoro, sarà ceduta alle famiglie coloniche» unitamente ad un contingente di reclusi del vicino carcere di Alghero,[13] dal quale provennero anche le prime necessarie “suppellettili burocratiche” per espletare le funzioni istituzionali della nuova colonia.[14] La cessione degli stabili avvenne a partire dall’aprile 1940 con i primi detenuti che, già due anni più tardi, costituivano una popolazione di circa 600 individui.[15] I trasferimenti dei reclusi erano deliberati dal Regolamento degli istituti di prevenzione e pena del 1931[16] che stabiliva come la movimentazione dovesse avvenire «col mezzo di vetture cellulari o di speciali veicoli chiusi»;[17] i detenuti potevano essere ammessi alla traduzione solo dopo visita medica[18] ed erano i carabinieri ad assicurare il loro trasporto da un istituto di pena ad un altro. La necessità di un trasferimento poteva anche nascere da esigenze di ordine, disciplina o per motivi di salute.[19] In ogni caso unitamente al detenuto viaggiava il suo corredo documentario, costituito dal fascicolo con dentro la cartella biografica, copia delle carte processuali e carteggi intercorsi coi familiari. Era compito del comandante degli agenti di custodia consegnare le carte al capo della scorta incaricata della traduzione, insieme a una nota degli oggetti che il recluso portava con sé.
Da un campionamento sui registri di matricola relativi al periodo 1950-52 risulta che provenivano dalla Sardegna solo il 24% dei reclusi, a fronte di una popolazione detenuta in gran parte del sud Italia (37%) e della Sicilia (24%). Più modesti appaiono gli apporti del nord e del centro Italia (rispettivamente 10% e 5%).
La documentazione epistolare e gli stati d’animo dei detenuti
Dalla documentazione epistolare emerge un’antologia di espressioni sintomatiche di una doppia condizione di disagio: da una parte la condizione di cattività, con la privazione della libertà, dall’altra la coscienza di essere lontani dal proprio alveo familiare, dalla terra di casa. Così ad esempio il detenuto Nello V., recluso per reati militari, lamenta la sua lontananza dalla famiglia, residente in Trentino, sentimento amplificato dal trascorrere incessante del tempo:
Ancora una forbiciata al tempo e un altro anno è completato […] qui fa freddo. Le giornate sono tristi come il viso d’una vecchia, e freddo, malanni, dolori, monotonia, si impastano con la nostra esistenza, creando un qualcosa che sa di grottesco, di pietoso. Qualche sbruffata di cipria tenta di riparare alla devastazione del tempo sul viso della vecchia: sono le vostre lettere che mi recano la voce, il cuore di lassù. Mentre con la destra scrivo con la sinistra mi tengo le tempie: mi martellano come nei febbricitanti.[20]
Descrive inoltre il suo stato d’animo di recluso a Tramariglio: «qui si deve essere uguali agli altri, confondersi […] saprò resistere sino in ultimo. Pensatemi sempre, mi raccomando…».[21] Conservare il ricordo per questo detenuto significa non spegnere la luce, mantenendo vivo il rapporto familiare soprattutto con le lettere, filtrate attraverso il setaccio della censura.
La Sardegna, nella sua accezione di «isola penitenziaria»,[22] malarica, inospitale, maledetta perché sede all’epoca di sette colonie penali, affiora anche nella corrispondenza di un detenuto sardo che scrive alla propria fidanzata:
Appena fuori noi daremo un addio definitivo alla Sardegna, e questa volta per sempre, perché questa terra maledetta mi ricorda troppi dolori e troppe sofferenze ed ecco perché vorrei che tu t’interessassi con tutto il cuore per sapere notizie di Manduccio e di Anselmo perché ci saranno di grande aiuto al momento opportuno per il nostro trasferimento.[23]
Lo scritto clandestino fu rintracciato e il recluso, oltre ad essere punito con sette giorni di cella aggravata, fu rimosso dal posto di scrivano. Nei primi anni di vita dello stabilimento di Tramariglio le condizioni dei detenuti non dovevano essere certo ottimali, poiché diversi perirono a causa della malaria e alcuni anche per inanizione, dovuta alla scarsezza di cibo e alla bassa qualità degli alimenti. In uno scritto clandestino rinvenuto durante una perquisizione il detenuto di origine campana Angelo L. scrive ai genitori di «sembrare un tubercoloso» tanto è macilento e stressato sia a causa del lavoro sia dal passaggio degli aerei verso il vicino aeroporto militare:
Qui non si parla d’altro che di lavoro […]. Ci danno mezzo chilo di pane, e non si sa se è pane o sabia [sic] e terra, con paglia di biada e erba, la minestra 60 grammi di pasta e 80 di verdura quello che ci passa il Ministero, mentre a noi non ci danno nemmeno un terzo di quello che ci tocca e il resto tutte frasche di barbabietole da cavalli, senza oglio [sic] e senza sale. Qui che siamo nelle miniere di sale, e da ben tre mesi che si mangia con l’acqua di mare, che ci taglia le viscere.[24]
Altri condannati di origine sarda esprimono il medesimo disagio: dalla corrispondenza si rileva una certa difficoltà di adattamento alla vita in comune e al lavoro di bonifica, come si legge in uno scritto del detenuto Salvatore P., rivolto alla madre, proveniente da una località del Nuorese:
Cara mamma come mi dici a farti sapere che mistiere facio [sic] io sto a lavorare col pico ogni giorno povero di me […] è un posto di aria buona ma per me e un posto bruto [sic] ma non sono io solo ma tutti preferiscono il cimitero.[25]
Il malessere di vivere in una colonia penale è sublimato anche in un canto popolare, registrato da Diego Carpitella alla fine degli anni Sessanta a Pianosa da un detenuto di Napoli, dall’evocativo titolo Ih com’è brutta e amara ’sta Sardegna:[26] Il brano narra episodi di vita di un ipotetico recluso in una colonia penale sarda, ma deve subito constatare che l’Isola è una terra amara dove si perde il contegno, si deve abbassare la testa e lavorare in silenzio. Il canto è modulato sul refrain di una semplice melodia popolare partenopea. Non mancano infine i detenuti che si lamentano del caldo torrido e del sole cocente dell’Isola.[27]
Per contro sono stati rilevati anche casi di reclusi, provenienti dalla Penisola, che sembrano essersi adattati perfettamente alla vita in colonia penale, descrivendo in termini entusiastici il lavoro all’aperto. È il caso di Lorenzo C., nato in provincia di Agrigento nel 1923 e arrestato nel mese di ottobre del 1951 per mancato omicidio, rissa e porto abusivo di armi da sparo. Detenuto nelle carceri giudiziarie di Sciacca chiese, con istanza datata 6 aprile 1953, il trasferimento alla colonia agricola «essendo di professione bracciante».[28] Il detenuto arrivò a Tramariglio nell’estate dello stesso anno, e sempre nel 1953, fu liberato per indulto:
Caro Giuseppe ti faccio sapere che il giorno 28 giugno sono arrivato a Tramariglio mi la passo molto bene [sic] ogni domenica ci andiamo a fare il bagno a mare e ogni quindici giorni andiamo al cinema guadagniamo novanta lire al giorno.[29]
Aneddoti sul ritorno alla libertà
Si registrano inoltre aneddoti di detenuti che non intendono lasciare la colonia nemmeno dopo l’attesa fine pena: la privazione della libertà sembra passare in secondo piano davanti a un lavoro (retribuito con l’esigua mercede o col cottimo), ad un pasto garantito e ad un alloggio, un’effimera mimesi di ordinaria quotidianità, di normalità che manca nella vita oltre le sbarre. Nell’estate del 1945 Antonio M., dopo aver espiato due anni per furto a Tramariglio, insiste per restare nella colonia con la qualifica di lavorante. La richiesta fu rifiutata dalla direzione e la vicenda paradossale venne diffusa anche dal quotidiano «L’Isola».[30] Nel 1959, un altro recluso originario di Brescia, alla notizia di un errore nel calcolo della scadenza della pena e nell’apprendere quindi di dover rimanere altri sei mesi nella casa di lavoro all’aperto, manifesta una gioia incontrollata: «se torno a Brescia… Cosa vado a fare? Io sono solo, no ho nessuno. Meglio stare in galera: mangio, bevo e lavoro!».[31]
La mobilità interessa anche la fase propedeutica alla liberazione: spesso tra il direttore della casa di lavoro all’aperto e i carabinieri (o il sindaco) della località di appartenenza del recluso intercorreva un fitto carteggio volto a conoscere le condizioni di vita della famiglia e l’eventuale disponibilità ad accogliere il liberando.[32] Nel 1950 Mario Z., fratello del detenuto Carlo, esprimeva al direttore di Tramariglio le sue preoccupazioni nell’accogliere il familiare in attesa di scarcerazione, scrivendo: «non credo che egli possa riprendere una nuova vita e sistemarsi a Brescia [loro residenza] dove ci sono migliaia di disoccupati, e risulta che invece di diminuire aumentano e con un passato un po’ burrascoso, nonostante tutta la buona volontà è difficile, per non dire impossibile mettersi a posto».[33]
Il ritorno alla libertà, che presupponeva un viaggio più o meno articolato verso i luoghi d’origine, era un momento piuttosto critico. A preoccupare il liberando erano fattori di varia natura, che potevano riguardare anche piccoli ma non trascurabili aspetti di cultura materiale: ad esempio, il detenuto Lino N., prossimo alla liberazione, supplicò il maresciallo di informarsi dai carabinieri del proprio paese sui vestiti che tempo addietro aveva affidato a un amico ivi residente. L’uomo, al momento del suo arresto, si era visto costretto ad incaricare terzi della vendita degli indumenti, al fine di ricavarne una piccola somma, ma non ebbe mai una lira.[34]
Poiché costruita nella penisola di Capo Caccia, la colonia risultava essere molto isolata. Erano rarissimi, se non nulli, i colloqui dei detenuti coi familiari (esigenza surrogata solo in parte dalla corrispondenza) ed era difficile raggiungere i centri abitati più vicini, soprattutto nel primo decennio di attività del penitenziario. Nel 1949 il direttore Antonino Puliatti sottolineò al Ministero la lontananza della casa di lavoro all’aperto dai centri urbani evidenziando come la presenza di un’autocorriera di linea «più che una utilità rappresenta una vera e inderogabile necessità di vita di tanta gente che vive lontano dai centri abitati»; solo alla fine degli anni Quaranta fu istituito un regolare servizio di bus.[35]
Le evasioni
Per concludere la disamina sulle dinamiche relative ai detenuti può essere utile analizzare brevemente anche alcune delle evasioni avvenute nella colonia di Tramariglio.[36] Esse rappresentano una costante nella storia della detenzione. A evadere erano generalmente quei detenuti che godevano di un discreto grado di “libertà”: gli “sconsegnati”, addetti ai lavori agricoli, alle bonifiche o destinati alla custodia del bestiame da governare nel vasto e variegato territorio; ma a tentare l’evasione erano anche coloro che operavano in squadra, sotto la diuturna sorveglianza dell’agente armato. Le prime fughe si registrarono non molto tempo dopo l’apertura del penitenziario. Luigi B., sassarese, «delinquente abituale» riuscì ad evadere mentre lavorava con una squadra di ventitré condannati allo sterro della strada Mugoni-Porto Conte, realizzata su commissione dell’Ente Ferrarese: la sua avventura durò poco più di 24 ore.[37] Qualche mese più tardi fu registrata l’evasione di un detenuto proveniente da Portino, in provincia di Siracusa, certo Francesco B. di trentaquattro anni «con diciotto precedenti penali» che però fu rintracciato ed arrestato poco tempo dopo.[38] Destinata a durare ben sei anni fu invece l’evasione di Bachisio Falconi che riuscì a raggiungere il suo paese natale (Fonni, Nuoro) nel cuore della Barbagia. L’evaso, durante la lunga latitanza, immortalò l’episodio in un componimento poetico destinato a diventare quasi un best seller nel periodo successivo alla sua morte, avvenuta nel 1949.[39] La provenienza dei detenuti che tentarono la fuga sembra essere un dato assai importante, poiché implica (ma non sempre) una conoscenza più o meno approfondita del territorio: un fuggiasco che non ha cognizione del luogo sarà rintracciato facilmente da parte degli agenti e delle forze dell’ordine. La pensava così ad esempio il direttore della colonia quando evasero Flavio A. (originario del Mantovano) ed Enzo P., mentre lavoravano come trattoristi nella località Calalunga. In una nota diretta alla Questura il direttore scrisse che i due «non potevano essere andati troppo lontani in quanto continentali» e privi di aiuti da parte della gente del posto.[40] Invece uno di loro riuscì a raggiungere addirittura la Penisola per essere poi arrestato a Milano quattro anni dopo a causa di un furto e associazione a delinquere. Altri episodi, nella variegata antologia delle evasioni di Tramariglio, hanno incidentalmente toni sarcastici e beffardi, come nel caso di Vincenzo D., nativo di Belvedere (Cosenza), che evase dalla colonia penale fingendo di essere un turista,[41] o di Giovanni M., lavorante “sconsegnato” addetto al motocompressore alla cava di pietra, il quale disse ai compagni che si sarebbe allontanato per andare al mare ad abbronzarsi, facendo poi perdere le tracce,[42] o di Giovanni C. che, recatosi a prendere la razione della minestra per un compagno, non fece più ritorno.[43]
Mobilità degli agenti di custodia
Un discreto numero degli agenti operanti a Tramariglio proveniva dalla Penisola: dall’analisi effettuata per il presente articolo appare chiaro che arrivare in una colonia della Sardegna rappresentava un’incognita sotto molti punti di vista. Incideva negativamente soprattutto la lontananza dai centri abitati con la difficoltà a muoversi da un paese a un altro, ma anche la presunta differenza sociale e culturale; spaventava inoltre l’ambiente fisico.[44] Spesso erano trasferiti a Tramariglio militari all’inizio della loro attività lavorativa:[45] nel gennaio 1960, durante la sorveglianza a un recluso, fu ucciso il giovane agente Giuseppe Tomasiello, originario di Benevento, giunto qualche mese prima a Tramariglio. L’episodio tragico fu l’unico che si verificò nel penitenziario: l’agente spirò nell’ospedale di Alghero dopo due giorni di agonia.[46] Qualche tempo più tardi sulle pagine del periodico ufficiale degli agenti di custodia comparve un articolo, firmato da Corrado D’Amelio, direttore della Scuola militare di Cairo Montenotte (Savona). Fatta la tara alla retorica della quale è imbevuto il documento, vi si può leggere un iter comune a tantissimi giovani allievi che, dopo i pochi mesi d’istruzione, erano subito inviati negli stabilimenti di pena:
Dopo sette mesi di studio e di fatiche tu lasciasti la Scuola Militare di Cairo Montenotte per raggiungere la Casa di Reclusione di Porto Azzurro; una sede poco ambita. Per infonderti coraggio, ricordo di avere, persino, accennato alla tua fortuna di essere stato assegnato ad un «luogo di villeggiatura». Con la mano sulla visiera e con battuta di tacchi, tentasti di rispondere con un sorriso alla mia battuta scherzosa ma, nel contempo, due lagrimoni grossi ti scesero dagli occhi buoni. E girandoti di scatto, quasi con vergogna, scomparisti nella nebbia del mattino. E mi scrivesti subito per dirmi ch’eri un po’ spaventato di trovarti fra i detenuti. Poi le tue lettere furono più serene. Mi dicevi, di volere studiare molto per «fare carriera»; mi confidasti di essere fidanzato con una brava ragazza e mi pregasti, anche di aiutarti nella tua aspirazione di prestare servizio in un «carcere vicino al tuo paese». Ma tutti i tuoi sogni […] furono infranti.[47]
Nel medesimo periodico trova spazio un altro articolo con la patetica descrizione di quelle che potevano essere le impressioni del giovane agente ucciso, trasferito dalla “Campania felix” ai lidi aspri della Sardegna: la cronaca, ricca di luoghi comuni, è indicativa del pensiero di chi immaginava il “terribile” trasferimento di un agente di custodia in terra sarda:
Sul suo volto di adolescente è un velo di tristezza. Si trova a Tramariglio già da qualche mese ma ancora non si è “ambientato”. La natura dei luoghi è troppo diversa dalla sua Campania, verde e ubertosa, dalla sua Benevento, antica per origini e civiltà e pur così moderna, per i suoi commerci e per le sue industrie, e così accogliente per il calore e la cordialità della sua gente. A Tramariglio egli ha un po’ l’impressione di essere in un’isola sperduta. Non c’è abitazione nelle vicinanze della casa di pena e la zona è solitaria. Qualche volta si è arrampicato sulle ripide e brulle pendici del Timidone e ha spinto il suo sguardo nell’interno dell’Isola ma ha visto solo montagne deserte. Anche la immensa distesa del mare appare sempre deserta, ed egli la fissa malinconico perché sa che quello non è il mare che lambisce la sua Campania dalla quale gli sembra di esser tanto lontano. La costa è nuda e selvaggia, e le secolari arenarie danno al paesaggio silente una strana immobilità. Ma egli sa che deve abituarsi a questa nuova vita perché la carriera intrapresa non gli consentirà di sostare a lungo nello stesso luogo e molto spesso lo condurrà assai lontano dalla sua casa e dalla sua mamma, rimasta vedova, e perciò ha imparato a reagire alla nostalgia che talvolta lo vince e a ritrovare il buonumore e il sorriso.[48]
Mobilità del personale amministrativo
Al vertice della casa di lavoro si trovava il direttore, funzionario che occupava un posto di rilievo nelle tre articolazioni sociali del penitenziario: popolazione detenuta, agenti di custodia e personale civile.[49] Tralasciando la normativa di riferimento circa ruolo e competenze, si può affermare che, dei sette responsabili avvicendatisi in poco più di vent’anni nell’amministrazione della colonia, solo uno era sardo. Si trattava di Giuseppe Puggioni, direttore dal 1941 al 1946:[50] integerrimo e zelante si trovò ad operare in un momento estremamente critico, determinato da una guerra in corso, dal lungo strascico di povertà e indigenza, da un rigido regolamento che gli imponeva la massima severità non solo sui detenuti (in quegli anni chiamati ancora solo col numero di matricola) ma anche sul personale militare, poiché la sua figura era il perno del Consiglio di disciplina. Fu trasferito in seguito alle carceri di Nuoro e anni dopo a San Gimignano (Siena). Dopo di lui si insediarono nella direzione della colonia Francesco Blandaleone (fino al 1949) e Antonino Puliatti. Fu con questo direttore che iniziò il decennio di maggior prestigio della struttura penitenziaria: con lui si attuarono i grandi piani di bonifica del territorio con l’impiego di moderne attrezzature meccaniche e sistemi razionali di gestione dell’azienda agraria. Grazie al suo impegno Tramariglio divenne un modello da seguire sia per le colonie detentive sia per le aziende agrarie civili. Dopo Puliatti giunse a Tramariglio un altro illuminato funzionario, Alberto De Mari. Nato nel 1918 a Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dopo la prigionia in un campo di lavoro inglese in India ebbe modo di completare gli studi ed essere assunto nell’amministrazione penitenziaria: direttore della casa circondariale di Bari, fu trasferito in seguito a Pianosa ed arrivò a Tramariglio nel 1954. Egli proseguì l’opera di bonifica razionale attuata dal predecessore, potenziando l’acquisto di mezzi agrari per il dissodamento e il drenaggio dei terreni. Sarà ricordato come un direttore attento ai bisogni dei detenuti; rimarrà in servizio a Tramariglio, insieme alla famiglia, fino al 1958, anno del suo trasferimento a Trieste. Ricoprì poi la direzione dei penitenziari di Parma e di Procida (Napoli) e terminò la sua carriera in Piemonte come ispettore generale delle Carceri. Morì a Torino il 25 marzo 1976.[51]
Tra le altre figure civili che amministravano la colonia si ricordano quelle del ragioniere e del cappellano, prototipo, quest’ultimo, di educatore e spesso anche insegnante dei detenuti. Ma il braccio destro del direttore era l’agronomo, presenza emblematica il cui ruolo risulta essere ben definito già dal primo regolamento per le colonie agrarie del 1887.[52] Come il direttore anch’egli faceva parte del Consiglio di disciplina, esaminando l’attitudine al lavoro dei condannati e la conseguente valutazione semestrale alla quale era soggetta l’intera popolazione detenuta. Il primo agronomo attivo a Tramariglio fu certo Virginio Solero, che lavorò nel primo quinquennio di attività del carcere. Dal 1945 iniziò la sua opera un nuovo tecnico, trasferito dalla colonia penale di Isili: si trattava di Giovanni Chiappalupi. Nato a Todi (Perugia) il 23 settembre 1904 si diplomò nel 1923 alla Regia scuola pratica di agricoltura “Augusto Ciuffelli”, la più antica d’Italia nel suo genere, fondata nel 1863. Dopo aver lavorato come fattore alla tenuta “La Valle” (Vada-Rosignano Marittimo, Livorno) iniziò a collaborare in qualità di «assistente agricolo giornaliero» nella “colonia agricola per internati” dell’isola di Gorgona[53] già dal 1937. Il 1° dicembre 1940 lasciò l’isola dell’arcipelago toscano per raggiungere la “remota” colonia detta Sarcidano, situata ad undici chilometri di distanza da Isili, un piccolo comune montano della Sardegna. In questo stabilimento operò fino al 1945, anno nel quale fu trasferito alla colonia di Tramariglio. Le traversie del viaggio trovano ancora eco nelle parole del figlio Umberto:
Fu un viaggio quasi epico. Dal Sarcidano arrivò in treno a Sassari e da qui con la ferrovia secondaria sino ad Alghero. Con un carro a buoi trasferirono tutte le masserizie alla colonia di Tramariglio: la strada era sterrata, e lungo il viaggio ogni tanto scendeva dal carro e cercava di prendere della selvaggina, numerosa all’epoca.[54]
Nel penitenziario rurale di Porto Conte il tecnico svolse la sua attività fino al 1960, data nella quale fu trasferito al Comune di Arbus per sovrintendere ai progetti di bonifica, frazionamento e messa a coltura di una nuova colonia penale che la Direzione generale degli istituti di prevenzione e di pena intendeva far sorgere nella località di Is Arenas.[55]
Conclusioni
Nonostante le criticità e i non pochi sconvolgimenti che la mobilità imposta dalla “macchina burocratica” causò nella vita di reclusi, agenti di custodia e personale civile, si può affermare che furono svariati i casi di persone provenienti da altre parti d’Italia divenute stanziali. Ad esempio un numero cospicuo di agenti (nonostante i vari trasferimenti successivi alla chiusura della colonia) si stabilì nel territorio, impiantando relazioni durature e radicando discendenze attraverso matrimoni con donne del luogo (Alghero, Sassari ed altri centri). Anche fra il personale civile che operò in colonia (agronomi, ragionieri) non mancarono i casi di famiglie stabilmente insediate nel territorio dopo la chiusura della colonia (i cognomi “continentali” spiccano ancora tra quelli autoctoni). È stata inoltre rintracciata una famiglia (i cui membri provennero dal Veneto negli anni Trenta del Novecento quali coloni autonomi dell’azienda Mugoni)[56], che, dopo il 1962, aveva acquisito uno stabile dell’ex casa di lavoro per adattarlo a ristorante: attività ancora operativa nella borgata di Tramariglio. A cadenza annuale durante l’estate ritorna nei luoghi dell’ex colonia la figlia di uno dei direttori, residente in una città del nord Italia. Quando arrivò a Porto Conte era una bambina di pochi anni: in mezzo agli stabilimenti ed alle tenute del penitenziario trascorse una parte importante della sua infanzia; da qualche anno ama portare con sé le due nipoti per far conoscere loro il luogo e tramandarne così ricordi ed emozioni.
Mancano infine quasi del tutto le notizie relative ai detenuti: le loro vite sembrano essersi disperse dopo la scarcerazione e il rientro nelle comunità d’origine. Nessuno, a quanto è dato sapere, ha deciso di rimanere (o tornare) nell’«amara» terra.[57]
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- S. Tola (a cura di), Cantones de bandidos. Dai zigantes dell’Ottocento ai grandi latitanti del Novecento nei versi dell’epica popolare, Edizioni della Torre, Cagliari 2010.
Note:
[1] F. Mele, L’Asinara e le colonie penali in Sardegna: un’isola penitenziaria?, in M. Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento. Atti del convegno internazionale, Carocci, Roma 2004, pp. 189-190.
[2] Sulla nascita delle colonie penali in Italia si rimanda ai vari e documentati saggi presenti in Da Passano 2004.
[3] G. Neppi Modona, La parabola storica delle colonie penali, in Da Passano 2004, pp. 12-13. I detenuti mandati nelle colonie erano di preferenza soggetti di età compresa tra i venti e i cinquant’anni, possibilmente agricoltori o idonei ai lavori agrari.
[4] R. D. 18 giugno 1931, n. 787.
[5] Il lavoro all’aperto «può essere organizzato o nelle case di lavoro all’aperto o con colonne mobili di detenuti che, uscendo dagli stabilimenti per lavorare all’aperto, rientrino, dopo il lavoro, nello stabilimento» (artt. 115 e 116).
[6] L’idea di far sorgere una colonia nella vallata del fiume Quirra, in un comprensorio di 4.197 ettari ripartiti tra i comuni di Lanusei, Villagrande, Arzana e Tertenia nacque in seguito alla necessità di destinare i terreni di Mamone alla comunità civile «od una grande azienda agricola nel cuore della Sardegna», come prospettato dal ministro di Grazia e Giustizia Dino Grandi nel 1941. La zona era “perfetta” poiché «assolutamente malarica data l’indisciplina delle acque, fittamente coperta da un cespugliato basso […] che serve bene ai fini del lavoro carcerario in quanto richiede un difficile lavoro di Bonifica», cfr. D. Grandi, Bonifica umana. Decennale delle leggi penali e della riforma penitenziaria, Ministero di Grazia e Giustizia, Roma 1941, vol. 1, pp. 149-150; si veda anche V. Gazale, S. A. Tedde, Le carte liberate. Viaggio negli archivi e nei luoghi delle colonie penali della Sardegna, Carlo Delfino editore, Sassari 2016, pp. 39-40; 177.
[7] La definizione di “casa di lavoro all’aperto” sostituisce il termine “casa di pena intermedia” e “colonia penale” a partire dalla legislazione Rocco. Tuttavia, come sottolineò G. Tartaglione, le case di lavoro all’aperto erano organizzate in modo da adibire i detenuti al lavoro all’esterno delle mura degli edifici penitenziari, erano ripartite in “zone campestri” e i detenuti erano in massima parte addetti ai lavori di bonifica, agricoltura e allevamento del bestiame; vd. G. Tartaglione, Istituti di prevenzione e pena, in Novissimo Digesto Italiano, IX, U.T.E.T., Torino 1963, ad vocem.
[8] L’Efc divenne in seguito Ente sardo di colonizzazione, le cui competenze furono successivamente assorbite dall’Ente per la trasformazione fondiaria ed agraria in agricoltura in Sardegna (Etfas). Per un quadro più dettagliato si veda M. Brigaglia, G. Melis, Per una storia della bonifica della Nurra. Le “Carte Ascione”, in A. Mattone, P. Sanna (a cura di), Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo, Gallizzi, Sassari 1994, pp. 635-639. Si rimanda inoltre a F. Nuvoli, La politica agraria per il riscatto della Nurra: l’Ente Ferrarese di Colonizzazione e gli interventi di bonifica integrale, in G. A. Farris, S. A. Tedde (a cura di), Un secolo di “bonifica umana”. Colonie penali e miglioramento fondiario nella Nurra di Alghero (1864-1962), Carlo Delfino editore, Sassari 2016, pp. 35-45.
[9] G. Peghin (a cura di), La colonia penale di Tramariglio. Architetture del Novecento nel Parco di Porto Conte, Carlo Delfino editore, Sassari 2010, pp. 23, 113.
[10] Ivi, p. 26.
[11] Un quadro dei vari progetti di riconversione è descritto in Farris, Tedde 2016, pp. 194 e succ.; per una panoramica più ampia sull’argomento si rimanda al saggio di G. Oliva, Luoghi di pena – Luoghi di svago. La villeggiatura ad Alghero fra Otto e Novecento, in «Il Risorgimento. Rivista di storia del Risorgimento e storia contemporanea», a. XLV, n. 2, 1993.
[12] Archivio Storico Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato di Sassari, Categoria XXI, classe 4, b. 516, fasc. 14, Rilevazione statistica sulle colonie e sui campeggi estivi (1962).
[13] Grandi 1941, vol. 2, p. 318; inoltre «i detenuti che si trovano a Castiadas saranno trasferiti nella nuova colonia di Porto Conte, nella quale i lavori edilizi sono già in via di completamento; intanto i detenuti della vicina Alghero hanno ormai completato la costruzione della strada che porterà alla nuova colonia. Trattasi di terreno assolutamente incolto, di difficilissima bonifica, ma che ha una grande importanza agricola e commerciale perché si estende per lungo tratto sul mare» (ivi, vol. 1, pp. 147-149).
[14] Chi scrive ha seguito il censimento ed un primo riordino dell’archivio della cessata casa di lavoro all’aperto di Tramariglio. Dall’analisi della documentazione del periodo 1940-42 si nota come diversi registri e soprattutto i fascicoli personali dei detenuti siano ampiamente “riciclati” dalla casa di reclusione di Alghero, riadattando più volte le coperte delle cartelle e riusando il verso in bianco di precedenti carteggi, prassi d’altronde frequente anche in altri contesti burocratici.
[15] «Tramariglio conta oggi 600 condannati, quasi tutti adibiti ai lavori di dissodamento e bonifica»: (si veda l’articolo La nuova Casa di lavoro all’aperto impiantata a Tramariglio, in «L’Isola», 25 settembre 1942). Nei vent’anni di vita della colonia si ebbero complessivamente circa 5.000 detenuti.
[16] R. D. 18 giugno 1931, n. 787.
[17] Ivi, artt. 175-180.
[18] «Il detenuto prima di essere posto in traduzione dev’essere visitato dal medico che ne rilascia dichiarazione scritta […]. Il medico riconosce se il detenuto è in condizioni di salute da non poter sopportare, senza pericolo, il viaggio» (art. 177).
[19] «I trasferimenti dei detenuti da un carcere giudiziario ad un altro e le traduzioni dei condannati dalle carceri agli stabilimenti di pena sono disposti dalle competenti autorità giudiziarie; i funzionari dirigenti le carceri ne curano la pronta esecuzione mediante richiesta all’arma dei Rr. Cc.» (art. 178).
[20] Archivio Casa di lavoro all’aperto di Tramariglio [in seguito Aclat], Fascicoli personali dei detenuti, [in seguito Fpd], matr. 907, lettera datata 1945 dicembre 12, Tramariglio. La vicenda di questo detenuto è descritta in S. A. Tedde, La colonia penale di Tramariglio. Memorie di vita carceraria, Carlo Delfino editore, Sassari 2014, pp. 202-213.
[21] Archivio Casa di lavoro all’aperto di Tramariglio [in seguito Aclat], Fascicoli personali dei detenuti, [in seguito Fpd], matr. 907, lettera datata 1945 dicembre 12, Tramariglio. La vicenda di questo detenuto è descritta in S. A. Tedde, La colonia penale di Tramariglio. Memorie di vita carceraria, Carlo Delfino editore, Sassari 2014, pp. 202-213.
[22] La definizione è di Mele 2004.
[23] Aclat, Registro dei rapporti sui detenuti, segnatura provvisoria 700, carta sciolta inserita nel rapporto disciplinare datato 1945 settembre 9.
[24] Il detenuto si raccomanda inoltre: «questa è una lettera contrabbando, perciò quando mi scrivete mandatemi a dire così: “ho ricevuto la lettera di tuo cuggino” [sic]. Quanto avete scritto così io capisco subito. Vi saluto, abbraccio e facio [sic] vostro aff.mo figlio»; il direttore condannò il detenuto a sei giorni di cella a pane, acqua e pancaccio per corrispondenza non autorizzata (cfr. Gazale, Tedde 2016, p. 143).
[25] Aclat, Fpd, matr. 1934; lettera datata 1948 settembre 24, Tramariglio.
[26] Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi, Canti di carcere, Raccolta AELM 5M – (Istituti di Pena di Porto Azzurro e Pianosa, LI), br. 92, Ih com’è brutta e amara ’sta Sardegna (informatore da Napoli, registrazioni di Diego Carpitella). Puoi ascoltare la canzone qui: https://www.novecento.org/wp-content/uploads/2024/10/Ih-comè-brutta-e-amara-sta-Sardegna-br.92.mp3
[27] Il detenuto Alberto C., fiorentino, di professione pescivendolo e bracciante prima dell’arresto per furto, arrivò dal carcere de “Le Murate” a Tramariglio il 22 aprile 1942. In una lettera datata 23 agosto dello stesso anno si lamenta con la sorella: «novità a Firenze ce ne sono? Qua c’è un caldo che spacca le pietre […] io sto bene dove sono, non mi manca niente, ma sono sempre in galera, e più di una volta te lo fanno ricordare» (Aclat, Fpd, matr. 201, lettera datata 1942 agosto 23, Tramariglio).
[28] Lettera datata 1953 luglio 19, Tramariglio, citata in Gazale, Tedde 2016, p. 154. In certi momenti dell’anno e solo di domenica ai detenuti era concesso di fare il bagno nella spiaggia antistante al cortile dello stabilimento, seppur sotto scorta armata (si veda Tedde 2014, p. 157).
[29] Lettera datata 1953 luglio 19, Tramariglio, citata in Gazale, Tedde 2016, p. 154. In certi momenti dell’anno e solo di domenica ai detenuti era concesso di fare il bagno nella spiaggia antistante al cortile dello stabilimento, seppur sotto scorta armata (si veda Tedde 2014, p. 157).
[30] Si veda l’articolo Nostalgia di Tramariglio, in «L’Isola», 14 agosto 1945.
[31] La notizia è ricavata da un’intervista ad Osvaldo Mazzarelli, agente di custodia a Tramariglio dal 1959 al 1962.
[32] La liberazione del condannato era contemplata dal Regolamento del 1931 negli articoli 183-190: un mese prima della scadenza della pena la direzione doveva inviare il foglio informativo del liberando all’autorità di P. S. oltre che all’eventuale Consiglio del patronato del luogo di residenza del detenuto (art. 185). La liberazione dei condannati avveniva di preferenza nelle ore mattutine del giorno in cui terminava la pena (art. 183); all’atto della liberazione si ritiravano tutti gli oggetti consegnati al detenuto dall’amministrazione e si restituivano quelli di sua proprietà (art. 188), cfr. Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, cit.
[33] Aclat, Fpd, matr. 2244; lettera datata 1950 ottobre 23, Brescia.
[34] Lettera senza data citata in Tedde 2014, p. 236.
[35] Cfr. Tedde 2014, pp. 338-342.
[36] Il reato di evasione era contemplato dall’articolo 181 del Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena del 1931.
[37] Aclat, Fpd, matr. 459.
[38] Si veda «L’Isola», 4 dicembre 1942.
[39] La celebre Cantone sarda del Falconi è stata pubblicata in S. Tola (a cura di), Cantones de bandidos. Dai zigantes dell’Ottocento ai grandi latitanti del Novecento nei versi dell’epica popolare, Edizioni della Torre, Cagliari 2010, pp. 306-308. Uno spunto biografico su Falconi è offerto da M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Ed. Leader, Milano 1971, pp. 207-208; si veda inoltre Gazale, Tedde 2016, pp. 163-164. Alla figura di questo “bandito-poeta” è stata dedicata una monografia ricca di testimonianze storiche: V. Gazale, A. Peddio, Bachisio Falconi. Il bandito poeta di Fonni, Carlo Delfino editore, Sassari 2015.
[40] Aclat, Fpd, matr. 2666, rapporto datato 1951 settembre 29, Tramariglio.
[41] Cfr. Aclat, Registro rapporti diversi, segnatura provvisoria 27, rapporto datato 1961 giugno 11, Tramariglio. La notizia dell’evasione ebbe ampio risalto nella stampa locale (cfr. l’articolo Evade da Tramariglio fingendosi un turista, in «La Nuova Sardegna», 13 giugno 1961).
[42] Aclat, Registro dei rapporti sui detenuti, segnatura provvisoria 65, rapporto datato 1953 luglio 01, Tramariglio.
[43] Ivi, Registro delle evasioni, segnatura provvisoria 105, rapporto datato 1954 agosto 03, Tramariglio.
[44] Osvaldo Mazzarelli, agente a Tramariglio, ricorda: «i primi tempi che arrivammo con altri colleghi in Sardegna cantavamo “Terra bruciata”… D’inverno c’era freddo e d’estate c’era troppo caldo. I primi tempi erano difficili…» (intervista ad O. Mazzarelli, cit.).
[45] Ricorda Mazzarelli: «nella caserma dello stabilimento centrale [di Tramariglio, N.d.A.] eravamo guardie tra i 20 ed i 24 anni al massimo… Tutti giovani […] Eravamo sistemati in letti a destra e a sinistra del dormitorio… E per lavarci dovevamo buttarci l’acqua di un tamburlano di ferro, che era nel bagno. Una specie di bagno alla turca come si usava allora…» (intervista ad O. Mazzarelli, cit.). La caserma per agenti scapoli confinava con la vicina cucina detenuti e la mensa agenti.
[46] Ad assassinare l’agente fu certo Edoardo C., detenuto di origine triestina, addetto alla manutenzione della linea elettrica della colonia, arrestato diversi giorni dopo l’evasione. Sull’episodio si veda Tedde 2014, pp. 350-382. Nel 2013 il Museo della memoria del Parco di Porto Conte e la casa di reclusione di Alghero furono ufficialmente dedicati al ricordo di Giuseppe Tomasiello.
[47] C. D’Amelio, Caduto nell’adempimento del dovere. Agente Giuseppe Tomasiello addio, periodico degli agenti di custodia (febbraio 1960); si tratta di un ritaglio del quale non sono stati reperiti ulteriori dati bibliografici.
[48] Per il riferimento bibliografico si veda supra.
[49] Il villaggio di Tramariglio prevedeva un’abitazione dedicata al direttore ed alla sua famiglia, posta poco lontano dallo stabilimento centrale (per le caratteristiche dell’edificio si rimanda a Peghin 2010, pp. 124-127).
[50] Il primo direttore fu certo Francesco Paolorosso, che precedette di pochi mesi il Puggioni. Durante la dirigenza di quest’ultimo erano soliti soggiornare in estate anche alcuni parenti, tra i quali la nipote Marcella Piras, che ormai anziana scrisse e pubblicò le proprie memorie relative a quel periodo (cfr. M. Piras Zara, Tramariglio 1941-1945: cronache familiari di un luogo singolare della Sardegna, Cleup, Padova 2002).
[51] Dati ricavati da un’intervista effettuata in data 14 febbraio 2016 alla signora Luisa de Mari, figlia del direttore. Gli ultimi due direttori furono Federico Sarlo e Guerrino Colantuoni, col quale si chiuse la parabola della colonia.
[52] Il Regio Decreto 6 gennaio 1887, n. 4318 entrò in vigore il primo marzo dello stesso anno. Constava di 72 articoli relativi ad amministrazione della colonia, mercedi, lavoro, vestiario e corredo, vitto, alloggio e mobilio, condannati, personale civile e di custodia (artt. 13-32 relativi all’attività dell’agronomo).
[53] Uno spunto biografico è offerto dall’intervista effettuata ad Umberto Chiappalupi, figlio dell’agronomo, riportata integralmente in S. A. Tedde, Agronomi e coltivazioni nelle colonie penali: appunti di storia orale, in Farris, Tedde 2016, pp. 219-220; 225.
[54] Intervista ad U. Chiappalupi, cit.
[55] «Alla chiusura di Tramariglio anche l’ETFAS contattò mio padre per averlo come tecnico dell’ente, ma egli rifiutò. Il suo pallino era la colonia penale: sosteneva che il ricorso al lavoro agrario fosse un mezzo utile per costruire un nuovo futuro per i detenuti, o quantomeno provare a dare a queste persone una detenzione diversa. Probabilmente vedeva il suo lavoro come una vera missione… Morì nel 1973» (intervista ad U. Chiappalupi, cit.).
[56] Negli anni Trenta del Novecento il prefetto Michele Mugoni costituì un importane centro di bonifica tra le pendici del monte Murone ed il litorale prossimo a Porto Conte. Durante l’attività della colonia sono documentate collaborazioni tra quest’azienda ed il penitenziario attraverso la manodopera di detenuti.
[57] Si ringraziano, per l’aiuto fornito a vario titolo, la dott.ssa Gilda D’Angelo e da Raffaela Faa. Il presente saggio è una rielaborazione utile ai/alle docenti e arricchita di immagini e documenti del lavoro pubblicato in S. Ruju (a cura di), Migrazioni, colonie agricole e città di fondazione in Sardegna, FrancoAngeli, Milano 2021.