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Memoria pubblica, storia pubblica e politiche memoriali. Intervista a Filippo Focardi

Memoria pubblica, storia pubblica e politiche memoriali. Intervista a Filippo Focardi

Filippo Focardi durante l’intervista alla pre Summer school 2022.
https://youtu.be/avJyPMtPF9M?si=Ug9YvMnUE4JIeZte

Abstract

Giorgio Giovannetti ha intervistato Filippo Focardi nell’incontro preliminare e preparatorio del corso di formazione “Memorie contese. Origine ed evoluzione di quattro date del calendario civile italiano”. Quella che segue è una trascrizione del dialogo rivista, aggiornata e ampliata dallo stesso Focardi.

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Giorgio Giovannetti interviewed Filippo Focardi in the preliminary and preparatory meeting of the training course ‘Contested Memories. Origin and evolution of four dates in the Italian civil calendar’. What follows is a transcript of the dialogue revised, updated and expanded by Focardi himself.

Nei dibattiti pubblici è sempre opportuno chiarire i termini delle questioni. A maggior ragione in questo caso, in cui parliamo di politiche memoriali, così legate a polemiche e spesso affrontate con grande superficialità. Che cosa intendiamo esattamente con termini quali memoria pubblica, memoria condivisa, memoria conflittuale?

Per memoria pubblica in genere intendiamo qualsiasi discorso sulla storia e sul passato che agisce, circola, nella sfera pubblica. All’interno della categoria di memoria pubblica rientrano diverse espressioni e forme di memoria: ad esempio la memoria istituzionale, come quella veicolata attraverso i discorsi del Presidente della Repubblica in occasione delle varie ricorrenze del calendario civile o quella promossa dal parlamento attraverso l’istituzione di nuove giornate del ricordo; le trasmissioni televisive di argomento storico, dai talk-show, ai telegiornali, ai documentari; ciò che su temi storici scrivono i giornali; quello che circola sui nuovi media. Insomma, come accennavo, tutto quello che attiene al discorso sul passato nella sfera pubblica. Questa, direi, è la definizione che a me convince di più quando parliamo di memoria pubblica. Non tutti condividono questa accezione. In ambito anglosassone per memoria pubblica si intende la memoria istituzionale. Io seguo invece i nostri sociologi, come Paolo Jedlowski che, sulla scorta di Jürgen Habermas, propone questa interpretazione più ampia.

Memoria condivisa è un grande refrain della politica. In Italia abbiamo visto questo appello a costruire una memoria condivisa fra le parti contrapposte – fascisti e antifascisti – soprattutto negli anni Novanta. Presupposto della discussione era che la memoria precedente, quella basata sull’antifascismo e sulla Resistenza, non costituisse più un punto di riferimento comune e bisognasse costruire qualcosa di diverso. Però si tratta di un progetto politico, perché in realtà la memoria condivisa non esiste. In questo caso è stato molto efficace, e mi permetto di citarlo, un giornalista come Aldo Cazzullo che, qualche anno fa, in occasione del 25 Aprile, scrisse sul “Corriere della Sera” che non si può pensare o pretendere che la memoria di chi ha avuto le case bruciate a Boves dai nazisti sia uguale a quella di chi ha bruciato quelle case. Si tratta quindi di un obiettivo politico. E in genere, dietro lo slogan della memoria condivisa si punta a sostituire una nuova memoria egemonica a quella precedente.  Il presidente Ciampi parlò a sua volta dell’obiettivo di costruire una “memoria intera”, inclusiva di tutti gli aspetti dell’esperienza storica degli italiani (Resistenza, foibe, IMI, bombardamenti alleati, stupri del Corpo di spedizione francese ecc.). Il perimetro della memoria può certo essere ampliato, come era nel proposito del Quirinale, ma resta poi la necessità di un perno intorno cui ancorare le memorie pubbliche. Non a caso Ciampi criticò chi metteva sullo stesso piano la memoria delle foibe e quella della Resistenza antifascista. La conoscenza della storia deve essere integrale e “condivisa”. La memoria è un’altra questione.

Per quanto riguarda le memorie conflittuali, dobbiamo sottolineare che molte memorie pubbliche lo sono, ed è bene che sia così; in una democrazia i gruppi sociali e i gruppi politici elaborano e coltivano la loro memoria per un’identità di gruppo o per altri motivi, e queste memorie, inevitabilmente, entrano in conflitto l’una con l’altra. E, quindi, se noi prendiamo la memoria della Resistenza e la memoria delle foibe, per come questa è stata fino adesso declinata cioè in chiave nazionalista e anticomunista (ci possono essere infatti anche declinazioni diverse di quella memoria), è chiaro che si tratta di memorie che stridono, che entrano in conflitto. Di per sé non è un male, anzi: qualcuno sostiene che sia quasi un segnale della buona salute di un sistema democratico.

Questo discorso sulla memoria che cosa ha a che fare con la ricerca storica?

Da un lato, come accennavo, occorre distinguere la ricerca storica dalla costruzione della memoria. La ricerca storica mira a ricostruire i quadri di un evento storico, la complessità dei contesti; la memoria, invece, è necessariamente selettiva. La storia tende a includere il più possibile tutti gli elementi che ci fanno capire una certa situazione e una certa dinamica di cambiamento, quali alternative potevano esserci nel momento in cui si sono compiute determinate scelte e determinate azioni. La memoria invece esclude alcuni elementi, mette in luce, focalizza l’attenzione su alcuni aspetti del passato e ne trascura necessariamente/volutamente altri. Negli ultimi quarant’anni l’elaborazione della memoria ha attribuito un ruolo fondamentale alle vittime. Che non sono invece le protagoniste della storia. Questa è una grande differenza. Certo, come qualcuno ha notato, storia e memoria hanno anche una radice comune, nel senso che sia la storia che la memoria servono a dare un senso al passato, a fare in modo che quel che è successo non sia abbandonato all’oblio. Possiamo aggiungere che è possibile fare, e fortunatamente la facciamo, una storia della memoria. Si può e si deve fare la storia delle politiche della memoria.

È possibile inoltre distinguere il discorso sulla memoria in due grandi categorie: politiche della memoria e culture del ricordo. Si può fare, appunto, un’analisi storica di come si sono evolute determinate politiche della memoria, messe in campo da determinati attori pubblici e istituzionali, e anche come si sono sviluppate le culture del ricordo, che sono certo strettamente interconnesse alle politiche della memoria, ma hanno anche una loro ambito specifico, legato alle spinte che vengono dal basso, dagli individui, dalla società, dalla cultura, compreso il sistema della cultura di massa e del consumo.

In che senso e perché si può parlare di una svolta nell’ambito della memoria pubblica europea dopo il 1989?

La fine della Guerra fredda, seguita immediatamente dopo dall’implosione dell’Unione Sovietica, ha in effetti segnato un fattore di cambiamento fondamentale. Come sempre accade nella storia, le grandi guerre combattute, come la Prima o la Seconda guerra mondiale, o non combattute, almeno in Europa, come la Guerra fredda, segnano degli spartiacque perché con esse cambiano i rapporti politici interni e cambia l’ordine internazionale, e questo comporta necessariamente l’elaborazione di nuove architravi memoriali nel discorso pubblico. Se pensiamo al post ’89, nell’Europa centrale e orientale abbiamo un ritorno, dopo quarant’anni di regimi comunisti sotto l’egida sovietica, a sistemi pluripartitici democratici; inevitabilmente, quindi, cambiano anche le narrazioni, dunque le memorie che servono a legittimare assetti politici nuovi. In genere si conviene sul fatto, cito Tony Judt tanto per prendere uno dei massimi studiosi, che dopo l’Ottantanove abbiamo una memoria pubblica che in Europa si rifonda su paradigmi diversi rispetto a quella precedente costruita dopo la Seconda guerra mondiale. Quella (sempre seguendo Tony Judt) era stata edificata su due grandi pilastri, indifferentemente a Est e a Ovest, cioè sull’enfatizzazione del ruolo della resistenza antinazista come un fenomeno di massa di tutto il popolo (francese, jugoslavo ecc.) contro gli occupanti nazisti o fascisti e sulla criminalizzazione, più che fondata e comprensibile, della Germania e dei Tedeschi, come se fossero stati solo loro a commettere crimini di guerra. Ebbene, dopo l’Ottantanove gli studiosi convergono nel sottolineare come a questa memoria se ne sia sostituita un’altra fondata su due nuovi pilastri. Da un lato il pilastro fondamentale è la Shoah, la memoria della Shoah, che guadagna una sua autonomia. Non che prima non esistesse, infatti, ma era come incastonata nella memoria della resistenza e dell’antifascismo. Per quanto si tratti di un processo lento che data già dagli anni Settanta, è dopo il 1989 che la memoria della Shoah assurge a punto di riferimento fondamentale, inizialmente soprattutto per gli Stati Uniti e i paesi dell’Europa occidentale, poi per tutti. Si tratta di una memoria che ha una dimensione transnazionale, universale: comprende appunto gli Stati Uniti, Israele, Germania, Francia, ecc. Dall’altro lato, emerge il cosiddetto paradigma antitotalitario, incentrato sull’equiparazione dei crimini del comunismo ai crimini del nazismo. Questo è un processo che viene sostenuto soprattutto da quei paesi che hanno fatto esperienza del sistema oppressivo comunista, dalla Polonia all’Ungheria ai Paesi baltici e così via. In qualche modo questi paesi sollecitano l’altra parte d’Europa, quella occidentale, chiedendo di colmare quello che loro considerano un gap memoriale: voi e i vostri figli siete cresciuti conoscendo, giustamente, cosa hanno fatto i nazisti, conoscendo cosa è successo con la Shoah; noi abbiamo avuto quella storia, ma anche un’altra storia, cioè l’oppressione comunista. E’ necessario che tutti gli europei conoscano questa vicenda, sappiano cosa ha rappresentato per l’Europa orientale l’esperienza del comunismo. La richiesta di attenzione è più che comprensibile. Il punto rilevante è che questo paradigma tende all’equiparazione non immediatamente dei due sistemi, del totalitarismo nazista e del totalitarismo comunista, ma prima di tutto pone l’accento sull’equiparazione dei crimini e dunque in qualche modo delle vittime dell’uno e dell’altro totalitarismo, che non a caso vengono definiti totalitarismi gemelli.

Le tue osservazioni portano a parlare del paradigma vittimario. Che cosa si intende in genere con questa espressione? Condividi l’opinione secondo la quale il paradigma vittimario sta diventando centrale nelle memorie pubbliche europee contrapponendosi al paradigma antifascista?

Paradigma vittimario significa che al centro della memoria pubblica europea c’è la figura della vittima: la vittima della Shoah, la vittima dei totalitarismi in generale, anche del totalitarismo comunista. È tuttora in corso una riflessione e un confronto – anche tra gli storici – sul rapporto fra il nuovo paradigma vittimario (memoria della Shoah e memoria dei totalitarismi), e il vecchio paradigma antifascista. Si aprirebbe un capitolo molto interessante, ad esempio, nel cercare di capire se e in che misura la memoria della Shoah, con al centro le vittime e i testimoni, abbia sostituito, scacciato, ridimensionato la memoria dell’antifascismo e della Resistenza. Questa è ad esempio la tesi di alcuni storici, come De Luna e Luzzatto, ma non, invece, di Guri Schwarz, il quale parla piuttosto di una più complessa dinamica di interazione fra le due memorie.

Non c’è dubbio, tornando alla domanda e al confronto fra paradigma vittimario e paradigma antifascista, che nel paradigma antifascista al centro non c’erano le vittime, ma c’erano i partigiani, coloro che avevano impugnato le armi contro il fascismo. Non erano tuttavia assenti le vittime, perché accanto alla figura del partigiano, un po’ sotto, c’erano le vittime delle stragi, della deportazione politica e razziale, gli internati militari; le vittime quindi erano presenti anche nel paradigma antifascista, ma con un ruolo subalterno rispetto al partigiano.

In realtà, se noi osserviamo la politica della memoria dell’Unione europea e, a livello nazionale, la costruzione di memorie in alcuni determinati paesi, non è che il paradigma vittimario sia monopolizzante ed esclusivo, perché non esiste solo quella memoria. Prendiamo il caso della Polonia: al centro della memoria polacca c’è sì la raffigurazione della Nazione come vittima dei due totalitarismi. Però, contemporaneamente, c’è anche un grande riconoscimento, un elogio, della resistenza polacca ai due totalitarismi. Quindi anche nel paradigma antitotalitario è presente il riconoscimento del ruolo attivo svolto da parte di alcune figure eroiche: ci sono gli eroi della lotta contro i totalitarismi. Certo, con una differenza rispetto al paradigma antifascista: adesso sembra quasi che l’unica resistenza autorizzata, plausibile a livello europeo, sia solo quella di natura antitotalitaria. Questo è un messaggio che viene lanciato ad esempio dalla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’”importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”. I polacchi sono quelli che hanno combattuto sia contro i nazisti sia contro i comunisti. E sembra quasi che quello sia, o dovrebbe essere, il modello di riferimento per tutti. E questo qualche problema lo crea a paesi come l’Italia o la Francia, che hanno avuto una storia diversa, con un’esperienza di lotta antinazista e antifascista in cui hanno avuto un ruolo fondamentale forze comuniste.

Passando al contesto italiano, in che misura l’evoluzione politica memoriale in Italia è stata influenzata dall’evoluzione delle politiche memoriali europee?

C’è una grande risonanza e un grande intreccio se guardiamo ad esempio alla memoria delle foibe, così come viene declinata da quelle forze politiche che l’hanno sostenuta, cioè la destra italiana. Ricordiamo che la legge del 2004 per l’istituzione del Giorno del ricordo fu promossa da Alleanza nazionale.

Sempre più – almeno da quando, a partire dal 2008, l’Unione europea ha scelto di affiancare al paradigma memoriale della Shoah il paradigma antitotalitario – anche in Italia assistiamo a una declinazione della memoria delle foibe che risente dell’orientamento antitotalitario europeo. I suoi promotori politici si richiamano esplicitamente alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019. Quando la destra italiana qualifica le foibe come la “Shoah italiana”, non fa altro che adottare il paradigma antitotalitario, mettendo le vittime delle foibe, cioè italiani uccisi dai comunisti jugoslavi, quindi vittime del comunismo, sullo stesso piano delle vittime del nazismo, cioè le vittime della Shoah, utilizzando una serie di refrain e di slogan, come quello secondo cui non esistono vittime di serie A e vittime di serie B, che si riferiscono proprio a quel paradigma. Con questo approccio, vengono fatti certo degli scivoloni clamorosi, come quando Salvini afferma che i bambini morti nelle foibe hanno la stessa dignità dei bambini morti nei forni di Auschwitz, nonostante non ci siano bambini italiani vittime delle foibe. Così come, d’altronde, è del tutto, improprio il paragone fra Shoah e foibe, cioè fra un genocidio di massa su basi razziali che ha fatto sei milioni di vittime, e un crimine politico che ne ha fatte alcune migliaia. Un mio studente mi ha fatto notare: “Professore, ma non è che proponendo questo paragone si fa del negazionismo nei confronti della Shoah?” Chi a destra afferma che le foibe sono come la Shoah scivolerebbe, secondo questa intuizione, verso una forma di negazionismo o quanto meno di riduzionismo nei confronti della Shoah. Non ha tutti i torti.

Devo dire che ormai nelle iniziative pubbliche sulla memoria delle foibe, promosse da associazioni e partiti che si richiamano alle destre attualmente al governo in Italia, c’è costantemente il riferimento alla risoluzione del Parlamento europeo del 2019, perché ha fissato proprio il paradigma antitotalitario. È anche un po’ paradossale, perché questa declinazione della memoria delle foibe è una memoria ultranazionalista: le vittime delle foibe sono italiani uccisi (anzi sterminati, visto che si parla di pulizia etnica) solo in quanto italiani dai comunisti jugoslavi. Quindi è una memoria ultranazionalista che però si appella all’Europa per trovare una legittimazione. E siccome in Europa i crimini del comunismo equivalgono ai crimini del nazismo, allora i crimini delle foibe equivalgono ai crimini della Shoah. C’è anche questo elemento interessante da considerare.

C’è un intento pedagogico nella costruzione della memoria pubblica in Italia degli ultimi anni? Come leggi eventuali intenti pedagogici nel contesto della proliferazione di giornate memoriali?

Hai parlato di proliferazione di giornate della memoria. E in effetti, a partire dal 2000, che è l’anno in cui è stata approvata la legge che ha istituito la Giornata della Memoria il 27 gennaio, il Parlamento italiano non si è più fermato. Per cui abbiamo un numero impressionante di giornate. Anni fa avevo letto un articolo di Giovanni De Luna che aveva contato le proposte di nuove leggi memoriali, le quali raggiungevano già la cinquantina. Ora credo che saremo sulla settantina o sull’ottantina. E ci sono tante nuove solennità civili, come vengono chiamate, approvate dal Parlamento. Quelle più famose le abbiamo già nominate: il Giorno della memoria e il Giorno del ricordo per le vittime delle foibe e dell’esodo. Però se ne sono aggiunte altre, per esempio il Giorno della libertà, il 9 novembre, per celebrare la caduta del muro di Berlino; le giornate per le vittime della mafia; per le vittime del terrorismo; per gli italiani, militari e civili, caduti in missioni multinazionali; la giornata per le vittime dell’immigrazione. Recentemente è stata introdotta la giornata per gli alpini. L’intento pedagogico è evidente, in quanto tutte queste giornate, o quasi tutte, sono esplicitamente rivolte alle scuole. Quindi l’intento pedagogico è esplicito. Ma come ci si rapporta da insegnanti? Intanto, per riprendere il discorso fatto all’inizio, le solennità sono tutte impostate su un paradigma vittimario, che siano ebrei uccisi dai nazisti o italiani uccisi nelle foibe. È anche interessante notare che qualcuno aveva provato, nel 2006 se non ricordo male, a introdurre delle giornate per ricordare le vittime della violenza italiana. C’erano stati due proposte di legge, uno per istituire una giornata dedicata alle vittime del colonialismo italiano, che avrebbe dovuto ricorrere il 19 febbraio, in ricordo della strage terribile seguita all’attentato fatto contro Graziani ad Addis Abeba nel 1937. Un’altra proposta aveva invece provato a chiedere l’istituzione di un giorno in ricordo delle vittime del fascismo in generale, prendendo come data emblematica il 10 giugno come giorno del rapimento nel 1924 di Giacomo Matteotti. Queste due proposte su due date che avrebbero dovuto ricordare appunto non gli italiani come vittime, ma come perpetratori, non hanno fatto neanche mezzo passo in Parlamento. Detto ciò, il Parlamento ha tutto il diritto di provare a costruire una memoria pubblica che non sia fondata esclusivamente su fatti della Seconda guerra mondiale come matrice della Repubblica, in un tentativo di dar conto di tutti quei conflitti interni ed esterni che hanno coinvolto la Repubblica dal ‘45 ad oggi: la lotta alla mafia, al terrorismo, le missioni multinazionali. Questa direttrice è, di per sé, legittima. Poi, però, quando andiamo a esaminare le questioni più da vicino, emergono un po’ di magagne: non solo si parla degli italiani unicamente in quanto vittime, ma addirittura, come nel caso molto controverso della giornata dedicata agli alpini, si assume come data memoriale la battaglia di Nikolajewka, quindi un evento all’interno di una guerra d’aggressione dell’Asse contro l’Unione sovietica. Ci sono molti aspetti francamente criticabili.

Concludo con una considerazione della semiologa Valentina Pisanty, che probabilmente molti insegnanti condividono. Pisanty, in un suo recente libro, ha sostenuto che le molte iniziative dedicate da un quarto di secolo alla memoria della Shoah non solo non sembrano aver prodotto alcuna diminuzione della propensione all’intolleranza e al razzismo, che era stato una degli obiettivi della legge a livello europeo, ma anzi potrebbero avere avuto un effetto opposto. Condividi questa valutazione? Quale ruolo può giocare l’insegnante di storia nel far fronte alle sollecitazioni di questo calendario civile per ottenere il risultato che Valentina Pisanty non ritiene che sia stato conseguito, cioè quello di fare educazione civica con gli studenti e le studentesse?

Il discorso, secondo me, è necessariamente complesso, perché Valentina Pisanty, giustamente, è andata a colpire una certa retorica della memoria, ed è sicuramente vero che la memoria della Shoah è stata utilizzata in primis dalle istituzioni nazionali ed europee come uno strumento per combattere nel presente tutte quelle violazioni dei diritti cui assistiamo. Se si esaminano i testi delle istituzioni europee che riguardano la memoria della Shoah, si noterà che non si parla in maniera esclusiva dell’evento in sé, ma anzi si sottolinea come questa memoria serva per combattere non solo l’antisemitismo ma ogni forma di razzismo e xenofobia nel presente. Quindi c’era un proposito politico pedagogico, questo è indubbio. E se si guardano i dati sui livelli di antisemitismo o di xenofobia nelle nostre società, si nota che non sono diminuiti, anzi sono aumentati. La conclusione del ragionamento, però – cioè che tutto questo investimento in termini di memoria pubblica ha avuto un effetto contrario – è difficile da sostenere. Ci si potrebbe anche chiedere legittimamente cosa sarebbe successo se non avessimo fatto nulla, se non avessimo investito sulla memoria della Shoah. Forse sarebbe stato ancora peggio, perché le correnti di antisemitismo o di razzismo non sono da considerare – mi pare – l’effetto collaterale perverso di tali politiche della memoria, ma il frutto piuttosto dell’azione di attori politici ben individuabili, di “imprenditori politici dell’odio”, che in situazioni di disagio sociale, economico e psicologico determinato dai grandi flussi migratori, hanno soffiato sul fuoco del razzismo e della xenofobia, provocando grandi incendi. È chiaro, ovviamente, che la risposta a questi imprenditori dell’odio non può essere solo la politica della memoria e la retorica della memoria. Ma non arrivo a sostenere che queste politiche della memoria abbiano avuto un effetto controproducente: questo non lo sappiamo. Alcuni segnali molto recenti ci dicono di un effetto rebound, di saturazione nei confronti di queste politiche della memoria, soprattutto in riferimento alla Shoah, con significative sezioni del mondo giovanile, ad esempio in Polonia e in Germania, che reagiscono con un atteggiamento di crescente indifferenza se non insofferenza. Questo sì, emerge da alcuni sondaggi. E ne dobbiamo tenere conto. A maggior ragione nella situazione creata dal protrarsi della nuova guerra israelo-palestinese.

Cosa possono fare o devono fare gli insegnanti che sono chiamati dal ministro a ricordare il Giorno della Memoria, il giorno della libertà e le altre date memoriali? Direi, innanzitutto, di mantenere un atteggiamento critico e, per prima cosa, di distinguere storia e memoria. Se noi prendiamo, per fare un esempio, la memoria delle foibe, così come è stata promossa a livello istituzionale e si è affermata anche sui giornali, si tratta di una memoria completamente decontestualizzata, in cui gli italiani sembrano vittime non si sa di quale furia omicida che viene dal niente o semplicemente è frutto dell’ideologia comunista e dell’odio antitaliano. Ora, è chiaro che bisogna conoscere la storia e sapere che prima il regime fascista ha oppresso le minoranze slovena e croata, e che l’Italia ha occupato parte della Jugoslavia dal 1941 al 1943 macchiandosi di numerosi crimini di guerra. Tutto questo, certamente, non giustifica quello che è avvenuto dopo, che non è solo una vendetta da parte jugoslava in quanto vi è stato anche un disegno annessionistico di Tito, che richiama la contrapposizione fra opposti nazionalismi, slavi e italiani, virulenti già dalla seconda metà dell’Ottocento. È perciò necessario svolgere un discorso di lungo periodo sulla complessità della storia dell’area dell’Alto Adriatico che la memoria istituzionale e la memoria pubblica generalmente non fanno. Potrebbe essere anche utile provare a tracciare una storia della memoria e della sua evoluzione. Per rimanere sul caso delle foibe, quando nel 2004 è stata introdotta la solennità civile, essa è stata subito declinata in senso nazionalista, anticomunista e antitotalitario. A un certo momento però, dal 2010, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che aveva iniziato col piede sbagliato nel 2007 celebrando il Giorno del ricordo con toni nazionalisti che avevano provocato un incidente diplomatico con la Croazia e con la Slovenia, ha cambiato atteggiamento e ha provato a trasformare quella memoria nazionalista in una memoria europea riconciliata, portando avanti delle iniziative comuni con il Presidente croato e con il Presidente sloveno (visita congiunta a Trieste nel luglio 2010). Seguendo tale via, i tre hanno riconosciuto le colpe passate, i reciproci torti e le reciproche violenze, ma allo stesso tempo hanno avviato una collaborazione incentrata sulla comune appartenenza di Italia, Slovenia e Croazia all’Unione europea, mettendo in evidenza non solo quello che ha diviso in passato ma anche quello che ha unito ed unisce un territorio di frontiera innervato da scambi economici e culturali. Quindi, si può fare una storia delle politiche della memoria e un esame critico delle date del calendario civile che siamo chiamati a celebrare. Lo stesso si può fare in merito alla Shoah. In sintesi, mi sentirei di suggerire un approccio critico alle memorie di cui le scuole sono chiamate dal Ministero ad occuparsi nelle diverse ricorrenze, con l’obiettivo di approfondire e ricostruire il contesto storico legato alle date memoriali, e con l’impegno inoltre, ove possibile, a tracciare una storia delle diverse memorie con riferimento non solo all’Italia ma al contesto europeo.

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Titolo: Memoria pubblica, storia pubblica e politiche memoriali. Intervista a Filippo Focardi
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Numero della rivista: n.22, dicembre 2024
ISSN: ISSN 2283-6837

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, Memoria pubblica, storia pubblica e politiche memoriali. Intervista a Filippo Focardi, Novecento.org, n.22, dicembre 2024.

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