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Memorie contese: il 4 novembre

Memorie contese: il 4 novembre

Celebrazione della Festa delle Bandiere il 4 novembre 1920.
Crediti: Sconosciuto – Illustrazione italiana, 1920-11-14, Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

Cosa si festeggia in Italia il 4 novembre, la data più longeva del nostro calendario civile? All’origine e durante il Ventennio fascista, la “Vittoria” sugli imperi austroungarico e germanico e la commemorazione molto retorica e bellicista dei caduti della Grande Guerra; dal 1949, la festa dell’Unità Nazionale e delle Forze armate. Una data che, in oltre cento anni, ha sempre diviso le forze politiche e l’opinione pubblica. Negli ultimi anni, si è perfino tentato di proporre il 4 novembre quale “Festa nazionale” al posto del 25 aprile (e del 2 giugno), in quanto ricorrenza unificante della Nazione. L’articolo ricostruisce la lunga storia di una data divisiva.

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What is celebrated in Italy on 4 November, the longest-lived date on our civil calendar? Originally and during the twenty-year fascist period, the ‘Victory’ over the Austro-Hungarian and Germanic empires and the very rhetorical and bellicose commemoration of the fallen of the Great War; since 1949, the celebration of National Unity and the Armed Forces. A date that, in over a hundred years, has always divided political forces and public opinion. In recent years, attempts have even been made to propose 4 November as a ‘national holiday’ in place of 25 April (and 2 June), as the unifying anniversary of the nation. This article reconstructs the long history of a divisive date.

Una memoria divisa

«Le memorie degli italiani sono state spesso divise. Gli eventi sono stati oggetto di interpretazioni contrastanti». Così scriveva lo storico inglese John Foot, ad incipit di un suo interessante volume sul nostro Paese di qualche anno fa precisando, poco più avanti, le sue intenzioni:

l’obiettivo preposto è quello di tracciare una netta distinzione tra il ruolo del giudice e quello dello storico: il primo è tenuto a giungere a una conclusione definitiva sui fatti; il secondo, invece, è interessato a comprendere come i fatti sono stati interpretati, ricordati e contestati. In questo libro mi occuperò innanzitutto dei conflitti sulle forme pubbliche di memoria.[1]

Inoltre – sottolinea lo storico – occorre considerare che I conflitti sulla memoria pubblica sono poi divenuti parte della memoria pubblica stessa. Durante la ‘guerra della memoria’ degli anni Venti, invero,

numerosi monumenti furono attaccati e distrutti dai fascisti. Terminato il fascismo, molti di questi monumenti furono ricostruiti nello stesso modo e negli stessi luoghi di prima, spesso con l’aggiunta di una nota per sottolinearne l’avvenuta distruzione.[2]

Il 4 novembre 1918: l’elogio della Vittoria

il 29 ottobre 1918, con l’avanzata dell’esercito italiano oltre la linea del Piave e la rotta dell’esercito austro-ungarico, l’Austria chiedeva l’armistizio..La conclusione della Grande Guerra fra l’Italia e l’Austria fu sancita a Villa Giusti presso Padova il 3 novembre 1918 dai plenipotenziari dei due Paesi, regolarmente autorizzati, che dichiararono di approvare le condizioni dell’armistizio tra le Potenze alleate e l’Austria stessa. Fu deciso di porre fine alle ostilità alle ore 15.00 del giorno seguente.

Il 4 novembre era un lunedì piovoso, ma si continuò a morire. Quando mancavano forse dieci minuti alle 15.00, sul Tagliamento uno squadrone di cavalleria avanzò al galoppo, in un pomeriggio grigio come l’acqua del fiume. Davanti alle mitragliatrici austriache schierate, un capitano ordinò assurdamente la carica “per la Patria” e in pochi istanti fu una carneficina. Gli ultimi caduti italiani furono due sottufficiali di 18 anni, “ragazzi del ’99”. Il giorno dopo, sul Gazzettino, un titolo a grandi caratteri annunciava l’Armistizio e la sconfitta degli Austriaci: «Sfacelo totale dell’esercito austriaco. 300 mila prigionieri e 5000 cannoni catturati. Le ostilità cessate alle ore 3 del pomeriggio del 4 novembre».[3] A seguire, il Bollettino della Vittoria, con un profluvio di retorica destinata a passare alla storia, a partire dal famoso proclama di Diaz: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Firmato Diaz». Quello che il generale non avrebbe mai immaginato è che la sua firma sul Bollettino della Vittoria avrebbe dato il nome a migliaia di nuovi italiani. “Firmato” fu preso per il nome del generale e allo stato civile, nell’euforia di quei giorni, migliaia di italiani chiamarono i loro figli proprio così. La Chiesa non si oppose perché un san Firmato (diacono) esiste e si festeggia il 5 ottobre. Oggi che non c’è più alcun superstite di quel conflitto né qualcuno che abbia un ricordo diretto di quegli avvenimenti, tutti noi lo conosciamo attraverso i libri, i musei, le foto, i filmati e, i più vecchi anche attraverso i ricordi, i racconti di padri e di nonni, che però non avevano sempre piacere nel rievocare quei giorni. Ecco perché il 4 novembre, nato come “Festa della Vittoria” (semplicemente “la Vittoria”, per antonomasia) è con il tempo divenuta la “Giornata dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate”.[4]

Nel 2015, Maria Luciana Granzotto ha pubblicatosu Novecento.org una interessante intervista ad uno dei massimi storici del primo conflitto mondiale, Mario Isnenghi, che così rifletteva:

C’è una straordinaria tenuta della Grande guerra come memoria, come occasione per le politiche della memoria ma, contemporaneamente, niente affatto come oggetto di storia. Invito ad avere ben chiaro le distinzioni tra storia, memoria e politiche della memoria… La confusione tra storia e memoria è universale e anche quella particolare ricaduta della malattia che ci affligge oggi, il presentismo che si manifesta con i nobili vestiti dell’educazione civica, una particolare variante delle politiche della memoria… Il rischio che l’educazione civica si mangi la storia è altissimo e lo è in modo particolare a scuola. Il rischio che non si voglia parlare della guerra e si finisca a parlare solo della pace è comprovato. Inoltre, pare che abbiamo qualche problema con gli armistizi. Paradossalmente, se per quanto riguarda l’armistizio del 4 novembre 1918 fatichiamo a riconoscere la vittoria, rispetto al disastroso annuncio badogliano dell’8 settembre 1943, fatichiamo a riconoscere la sconfitta.[5]

Tutti i Paesi che combatterono la Grande Guerra costruirono un loro Remembrance Day. La guerra di massa, la morte di massa, lesioni fisiche e psichiche di massa: l’entità impensata dei caduti e di coloro che si ritrovarono con il corpo mortificato dalle ferite o con la mente intorbidata impose agli Stati, alle autorità civili e religiose, ai singoli e alle collettività di dare un significato all’evento bellico, un indirizzo e forme precise al ricordo, coscienza al sentire pubblico. Occorre considerare come l’insorgenza di traumi psichici avesse reso inabili decine di migliaia di soldati, ponendo la psichiatria e le strutture di internamento di fronte a una dura e imprevista emergenza. A differenza che in Italia, nella Germania di Weimar il clima dell’Espressionismo e dalla Nuova Oggettività fu propizio alla rappresentazione cruda della violenza e della devastazione dei corpi: si pensi ai disegni e dipinti di Grosz e Dix, alla letteratura di Brecht e Döblin, a certa cinematografia di Lang.[6] Come ha ricordato lo storico Angelo Visintin, tutte le comunità, in specie europee, furono coinvolte in un disegno complessivo di conservazione, stabilizzazione e rassicurazione della memoria, che espungesse gli aspetti più critici, crudi e insensati del fatto bellico e ne conservasse la moralità, la giustezza, l’impegno e le motivazioni alte e spirituali. In Italia

il credo civile divenne funzionale all’operato dei governi, che se ne impadronirono e servirono (in maniera ancor più programmatica nel caso delle dittature o dei governi autoritari di stampo nazionalista) a fini di pacificazione, consenso sociale e ordine…Il riconoscimento del sacrificio collettivo si trasformò in sentito culto popolare e ritualità di popolo nel fervore devozionale mostrato dalle folle in occasione della traslazione del Milite Ignoto da Aquileia a Roma.[7]

Purtroppo, l’intento di pacificazione nazionale intrinseco alla cerimonia svanì subito: i fascisti si impadronirono ovunque dell’evento, la sinistra se ne tenne distante, ricusandone l’uso patriottardo ma forse senza comprendere a fondo l’impatto emotivo e l’esigenza di trasmutazione nel mito.

Una memoria della Vittoria “divisiva”

Nel primo dopoguerra, pur vittoriosa, l’Italia come è noto dovette affrontare un periodo di turbolenti e violente contrapposizioni politiche e sociali, in un clima quasi da guerra civile[8] La firma nel febbraio 1919 dei primi contratti nazionali da parte dei sindacati sancì la conquista delle otto ore giornaliere, mentre dalla parte politica opposta, il 23 marzo, Mussolini fondava a Milano i Fasci di combattimento, avviando da subito azioni violente contro i socialisti, con l’incendio (il primo di una lunga serie) della redazione dell’Avanti. Con l’estate si entrò nel vivo delle mobilitazioni dei lavoratori. Protagonisti di questa fase furono i braccianti nelle campagne, mentre nell’industria si affermavano i Consigli di fabbrica, le nuove strutture di rappresentanza operaia, promotori di una politica rivendicativa fortemente antagonista, centrata sul controllo dell’organizzazione del lavoro e della produzione.  Il 12 settembre D’Annunzio entrò a Fiume, rivendicando a suo modo le questioni territoriali rimaste irrisolte dopo il primo conflitto mondiale tra italiani e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. In un Paese sempre più diviso, i socialisti si apprestavano a vincere le elezioni politiche, contestando vigorosamente qualsiasi celebrazione di stampo nazionalista, in nome dell’internazionalismo e al grido di “fare come in Russia”.[9]

Il primo anniversario, per tali motivi, passò quasi sotto sordina. Il 4 novembre 1919 la celebrazione da parte del governo Nitti avvenne in tono minore. Tuttavia, in molte città, da Milano a Genova, dalle città redente a Torino vi furono cerimonie, pose di targhe e monumenti, discorsi altisonanti. I socialisti opposero una contro-memoria, contestando la retorica nazionalista verso i “morti nostri”, vittime incolpevoli della guerra borghese. A Milano, davanti alle fabbriche e alla Camera del Lavoro gli operai socialisti ricordarono i lutti della guerra, inneggiando alla Russia rivoluzionaria.

A differenza della Francia, nella quale l’Union Sacrée aveva creato un sentimento nazionale tale da permettere l’integrazione degli oppositori (i cattolici) alle istituzioni repubblicane, in Italia, non solo il ricordo della guerra acutizzò le diverse identità di parte ma entrò nella retorica in modo da contribuire a delegittimare lo Stato liberale e le istituzioni rappresentative, con i socialisti da una parte e i nazionalisti e i fascisti dall’altra. I primi avevano rafforzato un’irriducibile avversione alle istituzioni e alla nazione borghese. Nitti e Giolitti ritennero, pertanto, di smorzare gli entusiasmi dei reduci, per non alimentare scontri e conflitti sociali. Nel 1919, per il primo anniversario, i militari furono consegnati dentro le caserme per evitare possibili scontri con i socialisti. Dopo la grande affermazione dei socialisti alle elezioni del novembre 2019, i liberali iniziarono a considerare la politica della memoria come una necessità, e dal 1920 iniziarono a erigere monumenti, parchi delle rimembranze dedicati ai caduti, mentre i socialisti accentuavano la loro intransigenza, denunciando i costi della guerra, economici e umani. Mussolini ebbe facile gioco nel cavalcare le pulsioni nazionalistiche, riproponendo la logica del nemico interno della Patria – i socialisti e i comunisti – portatore della «peste asiatica».[10]

Fu il socialista riformista Ivanoe Bonomi a svolgere un ruolo chiave nel percorso di istituzionalizzazione del 4 novembre quale festa della Patria. Nel 1920 era ministro della Guerra nel governo Giolitti, mentre l’anno successivo, in qualità di capo del Governo, legittimò il terzo anniversario di Vittorio Veneto come solenne rituale della nazione, attraverso l’inumazione della salma del Milite ignoto sotto l’Altare della Patria.

Il 4 novembre 1920, in assenza ancora di un provvedimento legislativo che sancisse la festa nazionale, furono i comitati promotori locali a farsi carico delle iniziative. A Roma, il 3 novembre, le rappresentanze militari e le 335 bandiere dei reggimenti che avevano partecipato alla guerra si diressero verso il Quirinale per giurare fedeltà al re e alla Patria. Il generale Badoglio pronunciò un discorso ufficiale. Il 4 novembre, in Piazza Venezia, si svolse la cerimonia dei corpi militari e delle associazioni dei reduci, giunti in oltre ventimila. Quel giorno, suggellato dall’inno della Marcia reale, simboli, immagini e attori annunciavano le forme del culto della nazione. Il ministro della guerra Bonomi insistette sul tema della Grande guerra come sublimazione storica dell’Unità nazionale:

Solo nel quadriennio cruento e glorioso della nostra grande guerra, tutti gli italiani hanno combattuto insieme…l’unità italiana si è cementata nell’ultima guerra nazionale”, quasi a voler ribadire l’idea di una quarta e definitiva guerra di indipendenza di stampo risorgimentale.[11]  Mentre Mussolini aizzava i gruppi intransigenti e gli ex combattenti, i socialisti, da parte loro, prendevano le distanze anche dall’idea di inventare un milite ignoto: “Cerano un soldato ignoto, Per far che? La salma d’un soldato ignoto da portare in Campidoglio…noi eravamo tutti dei soldati ignoti. Eravamo dei numeri…Non cercate la vittima ignota. Tutte, o ipocriti, v’erano ignote.[12]

Nel frattempo, i simboli e le commemorazioni del Milite Ignoto erano stati introdotti anche in Francia e in Gran Bretagna nel 1920, in occasione delle commemorazioni dell’11 novembre. Esordiva in Europa un modello di rituale senza precedenti, con la trasformazione di un lutto privato e familiare in un sentimento collettivo di natura patriottica, con la ritualizzazione della memoria dei caduti come principale espressione del culto della nazione. Eppure, nonostante la vittoria del Piave e di Vittorio Veneto sia stata, come ha scritto Antonio Gibelli, l’unica e autentica vittoria militare di rilievo della nostra intera storia nazionale,[13] sarebbero dovuti trascorrere ben quattro anni prima che lo Stato liberale, ormai in stato agonizzante, sancisse in modo ufficiale il 4 novembre come giorno di festa nazionale e anniversario della Vittoria.

Il fascismo si appropria della ricorrenza della Vittoria

Il 29 ottobre 1921, il treno con le spoglie del Milite ignoto iniziava il suo viaggio attraverso l’Italia da Aquileia a Roma. I resti della salma furono scelti da Maria Bergamas, che aveva avuto suo figlio disperso in una battaglia sul monte Cimone.[14] Le donne entravano per la prima volta nella storia d’Italia in modo massiccio in una pubblica manifestazione, come figure della madre dolente. Ma fu Mussolini che ne approfittò, consacrando il culto della Nazione attraverso la trasposizione della memoria bellica in un pervasivo mito politico, nella rinascita della coscienza nazionale contro socialisti e comunisti, e candidando le milizie fasciste ad un ruolo sempre meno dissimulato: «Il Governo sa ora che – volendo, può schiantare le forze dell’antinazione. Se non lo fa ci penseremo noi».[15]

In pratica, mentre nelle altre nazioni l’anniversario della fine della guerra fu l’occasione in cui ricordare i morti per la Patria, in Italia divenne occasione di esaltazione dell’esperienza di guerra e della vittoria quale rappresentazione dell’identità nazionale. Dal 4 novembre 1922, la data divenne ufficialmente festa nazionale. In Francia la ricorrenza venne condivisa da parte di tutte le culture politiche della Repubblica e con carattere prevalentemente civile e non militare. In Gran Bretagna la commemorazione venne addirittura sdoppiata: l’Armistice Day, che aveva carattere più militare, e il Remembrance Sunday, con forma religiosa, che si svolgeva la domenica più a ridosso all’11 novembre.

In Italia, dunque, si assistette presto alla fascistizzazione della ricorrenza. La funzione religiosa si teneva nella chiesa di S. Maria degli Angeli, con la presenza del sovrano, poi il corteo delle autorità giungeva a Piazza Venezia, per l’omaggio al Milite Ignoto sull’Altare della Patria. In occasione delle celebrazioni della festa della Vittoria si verificarono violenze da parte dei fascisti, soprattutto nelle città del nord Italia, contro socialisti, repubblicani e democratici che partecipavano alle cerimonie. Soprattutto, dal 1923, la festa della Vittoria venne organizzata all’ombra dell’anniversario della Marcia su Roma. In seguito, sotto la dittatura, venivano commemorati sia i caduti della guerra sia i caduti fascisti morti negli scontri del 1921-1922. Agli inizi degli anni Trenta le celebrazioni patriottiche del 4 novembre erano ormai assimilate al culto del regime. L’eccessiva militarizzazione della ricorrenza, dopo la proclamazione dell’Impero e l’alleanza con Hitler, indusse lo stesso sovrano, Vittorio Emanuele III, a ridurre la sua partecipazione alle celebrazioni. In tal senso, la monumentalizzazione dei morti e dei caduti registrò il suo apice con la costruzione di Redipuglia, il più grande tra i sacrari militari italiani, dove riposano 100.000 caduti, di cui 60.000 ignoti.[16]

Negli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941, la festa nazionale fu drasticamente ridimensionata, non più giorno festivo e manifestazioni esclusivamente militari. Già dopo l’8 settembre 1943, il mondo resistenziale avrebbe recuperato la ricorrenza del 4 novembre quale momento edificante del sentimento patriottico nella tradizione democratico-risorgimentale, in cui esercito e popolo concordi avevano permesso di conseguire la disfatta degli eserciti del dispotismo. Del resto, i richiami al 1915-’18 trovavano eco perché si riferivano ad un evento ancora vicino nel tempo. La grande guerra era stata raccontata dai padri ai figli come un’esperienza fondamentale, punteggiata da gesta eccezionali.

Il 4 novembre 1944 fu ancora una volta Bonomi, allora alla testa del suo secondo governo sostenuto dal CLN, a organizzare una cerimonia nella Roma liberata, a piazza Venezia, celebrando la rinascita della nazione democratica. Autorevoli interpreti dell’interventismo democratico del ’15-’18 erano, infatti, presenti tra i leader partigiani, basti richiamare personaggi dell’azionismo come Ferruccio Parri ed Emilio Lussu, o esponenti repubblicani come Randolfo Pacciardi e il leader socialista Pietro Nenni, già repubblicano in gioventù.

Il secondo dopoguerra e la retorica bellicista

Dal 1947, e per circa un decennio, dei partigiani non si sarebbe avuta menzione. Come ha osservato Nicola Labanca,

scomparve da quei messaggi persino il riferimento all’esperienza militare alternativa a quella delle forze regolari della guerra di liberazione: quindi, sottratti dal panorama i partigiani, questa rimaneva appannaggio delle sole forze armate regolari.[17]

Il 22 aprile 1946 De Gasperi ripristinò la festa del 4 novembre come data simbolo della continuità dello Stato nazionale. Si trattava di ricongiungere Grande guerra e Resistenza. Come aveva detto il 4 novembre dell’anno precedente Stefano Jacini, ministro della Guerra, il “popolo tutto d’Italia” a distanza di trent’anni aveva combattuto a fianco dei medesimi alleati e contro il medesimo nemico. Le celebrazioni contemplarono il giuramento di fedeltà delle Forze armate alla Repubblica, con l’ufficializzazione dell’Inno di Mameli come inno nazionale.

Il 4 novembre del 1948 Vittorio Emanuele Orlando, presso il teatro Argentina, commemorò i caduti e i morti di tutte le guerre:

Sono i Caduti dell’Epiro, sono i caduti delle lontane steppe gelate dell’Ucraina, sono i Caduti per il tradimento del loro stesso alleato e per mancanza di mezzi. Verso di loro va la nostra memore solidarietà e il nostro rimpianto perché essi, pur ignorando forse le cause del loro sacrificio, spesso dissentendone, combatterono lo stesso con eroismo per l’onore della bandiera.[18]

Lo stesso giorno, a Milano, i partigiani parteciparono sia alla deposizione di omaggi floreali ai caduti in Sant’Ambrogio, la mattina, sia alla cerimonia civile in Piazza del Duomo. Le sinistre e l’Anpi attribuivano un valore morale diverso e superiore ai caduti partigiani, volontari per la liberazione dal nazifascismo, rispetto ai combattenti della Grande guerra.

Con legge 260 del 27 maggio 1949, che fissava il calendario civile della Repubblica, il 4 novembre perdeva la denominazione di Festa della Vittoria e acquisiva quello di Giorno dell’Unità nazionale. La questione del fronte adriatico e delle tensioni sulla città e il territorio di Trieste e l’adesione dell’Italia al Patto atlantico il 4 aprile del 1949 avrebbero ulteriormente diviso le forze politiche e indotto il partito comunista a non riconoscere tale festività.

Fu Randolfo Pacciardi a decretare, il 28 settembre del 1949, che l’anniversario del 4 novembre fosse da intendersi come festa delle Forze armate, già istituita dal regime fascista come Festa dell’esercito a partire dal 1939 ma celebrata il 9 maggio, anniversario della proclamazione dell’Impero. Ufficiale dei Bersaglieri durante la Grande guerra, volontario e antifascista nella guerra di Spagna come comandante del Battaglione Garibaldi, leader repubblicano nel secondo dopoguerra, entrato nel governo DC dopo le elezioni del 18 aprile 1948 con una decisa professione di anticomunismo, Pacciardi fu nel secondo dopoguerra un sostenitore del riarmo dell’esercito italiano e dell’entrata dell’Italia nella NATO. Il problema della difesa dei confini nazionali era alla fine degli anni Quaranta una questione di primo piano, e per il ministro della Difesa Pacciardi occorreva risollevare sostanza e immagine delle Forze Armate quale pilastro dello Stato, in linea con il dettato della Costituzione: «è Sacro dovere del cittadino difendere la Patria».[19] In perfetta contrapposizione, sempre nel 1949 il PCI promuoveva il movimento internazionale dei “Partigiani della pace”.[20]

Nel 1956, risolto anche il problema di Trieste, assegnata nell’ottobre del 1954 all’Italia, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi fu al sacrario di Redipuglia e presenziò a una solenne cerimonia. Più in generale, durante gli anni Cinquanta e Sessanta, le celebrazioni del 4 novembre avvennero  in un clima festoso, con le caserme aperte ai cittadini. I vari ministri della Difesa (Pacciardi, Paolo Emilio Taviani, Andreotti) evitarono di parlare della lotta partigiana, in nome di una riconciliazione nazionale tra “vinti” e “vincitori” della guerra civile. E così, accanto alla celebrazione patriottica dei “caduti di tutte le guerre” si sovrappose il lutto per i morti sia della Grande guerra sia delle guerre fasciste. Taviani, ad esempio, nel 1954 inviò un pensiero ai caduti di tutte le guerre; nel  1959 Andreotti rivolse la sua preghiera ai reduci di tutte le guerre, implicitamente anche ai reduci di Salò.

Gli anni Sessanta: un nuovo vento politico ridimensiona il 4 novembre

Con la metà degli anni Sessanta, quando cadeva il cinquantesimo della Grande guerra, il vento politico cominciò a cambiare, con i movimenti giovanili in fermento. Si assistette a una forte contrazione degli annuali pellegrinaggi a Redipuglia e a una caduta di immagine delle istituzioni militari. Può rivestire un certo interesse considerare quanto avvenne in Alto Adige, quando si trattò di celebrare il cinquantesimo anniversario del 4 novembre 1918. il clima in cui si svolgevano le celebrazioni era particolarmente teso e pesante. Si era da poco concluso il tragico decennio durante il quale Il terrorismo altoatesino, a matrice etnico-linguistica, aveva tentato di staccare l’Alto Adige (o Südtirol) dall’Italia, riportandolo sotto l’Austria.[21] Nel corso di circa un decennio, dal 1956 al 1967 (con una ripresa negli anni Ottanta), i separatisti provocarono quasi 350 attentati, per un bilancio complessivo di 17 vittime.[22] Tra le forze politiche della  sinistra, al contrario, si cercò di favorire un dialogo tra le componenti etnico linguistiche, avanzando istanze pacifiste nel clima da guerra fredda di quegli anni. Il gruppo politico che si raccoglieva attorno al mensile Die Brücke, fondato da Siegfried Stuffer e Alexander Langer, cui si aggiunse in quel periodo l’ex partigiana Lidia Menapace, esprimeva un antimilitarismo di matrice cattolica, contestando radicalmente istituzioni chiuse e repressive come la scuola, la Chiesa e l’esercito. Già in occasione del 24 maggio dell’anno precedente, in ricorrenza dell’entrata in guerra dell’Italia, con un durissimo manifesto bilingue essi chiarivano in maniera inequivocabile le proprie posizioni:

Ora la guerra viene celebrata come un MITO, in nome di un ricordo comune che si vuole pieno di gloria, si dimenticano le differenze di ieri e di oggi. […] Per questo come democratici non accettiamo i simboli della vittoria, (monumenti alla vittoria, fasci del ponte Druso, discorsi retorici), reagiremo alle interessate celebrazioni compiuti da giornali e da TV, ci asterremo dal commemorare una vittoria bellica ottenuta dall’interesse di pochi, con il sangue di molti e con la fame di compagni e fratelli contadini e operai del Trentino, del Tirolo e di altrove, vittime a loro volta di signori feudali e di magnati terrieri.[23]

La mattina del 4 novembre 1968, i pacifisti si ritrovarono in Piazza Matteotti, luogo simbolo della sinistra bolzanina, per protestare contro le autorità. A presidiare gli spazi vi erano oltre alla polizia, anche un manipolo di attivisti di estrema destra, pronti allo scontro.  In 17 vennero portati in questura, trattenuti per l’identificazione e poi rilasciati. Tra di loro, anche Alexander Langer e Lidia Menapace.

Finalmente nel 1975 Aldo Moro espresse, nel giorno del 4 novembre, con parole ferme i valori democratici e costituzionali: «La Costituzione repubblicana ripudia la guerra come strumento atto a risolvere i problemi internazionali nel momento stesso nel quale dichiara dovere sacro del cittadino la difesa della Patria».[24] Lo statista democristiano riteneva ormai mutati il quadro internazionale e la coscienza pubblica degli italiani, nella consapevolezza della terrificante efficacia distruggitrice delle nuove armi, e riteneva naturale un’evoluzione della società umana verso forme di rispetto e di cooperazione.[25]

In seguito all’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, nel 1970, anche le nuove giunte avevano iniziato a promuovere valori e principi sanciti nella carta costituzionale.  In Piemonte, amministrato dal centrosinistra, il consiglio regionale in accordo con il comando militare del nord-ovest provvide a distribuire 25.000 copie della Costituzione ai militari di leva. L’anno successivo, con la collaborazione dei comuni (come avveniva in Francia), verranno distribuite copie della Costituzione insieme a 4mila copie del volume Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Vi era ormai la volontà di rompere l’isolamento in cui le Forze armate erano state a lungo costrette. Nel 1977, con le disposizioni atte ad aumentare il numero di giorni lavorativi, il 4 novembre smise di essere giorno festivo e le celebrazioni furono spostate alla prima domenica di novembre. Da allora, questa data del calendario civile registrò una sempre minore rilevanza politica e identitaria. Soprattutto, si venne affermando come Festa dell’Unità nazionale, nel solco di una memoria che dal Risorgimento si collegava strettamente alla Resistenza e alla Costituzione. Sandro Pertini, nel 1983, mentre l’esercito italiano veniva inviato per la prima volta in Libano per una missione internazionale, poté dire della Grande guerra «che fu – come ogni guerra – crudele, devastatrice, tragicamente impotente a risolvere i veri problemi dell’umanità», e dei soldati morti durante il secondo conflitto mondiale, che ad essi «toccò sacrificare la vita in un’avventura temeraria ed ingiusta, voluta da un regime tirannico». Nel dopoguerra fu quella l’unica volta, a parte un analogo passo pronunciato dal ministro della Difesa Stefano Jacini nel 1945, in cui si udì chiaro, in un messaggio ufficiale delle autorità alle Forze armate, il richiamo diretto alle responsabilità del regime fascista.

Si può festeggiare il 4 novembre a scuola?

Nelle recentissime “Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica”, promosse dal ministro dell’Istruzione e del merito Valditara, si legge:

L’educazione civica può proficuamente contribuire a formare gli studenti al significato e al valore dell’appartenenza alla comunità nazionale che è comunemente definita Patria, concetto che è espressamente richiamato e valorizzato dalla Costituzione.[26]

Si può facilmente capire che nella volontà – leggo ancora dal testo ministeriale – di “afforzare il nesso tra il senso civico e l’idea di appartenenza alla comunità nazionale”,[27] la celebrazione della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze armate diventi sempre più centrale all’interno del calendario civile. Occorrerebbe, in tal senso, favorire negli studenti e nelle studentesse un approccio critico, basato su fonti storiche certe, offrendo loro una panoramica di posizioni il più possibili ampia e articolata. Ad esempio, leggere quanto affermava un prete “scomodo” come Don Milani, che pagò cara la sua posizione antimilitarista negli anni Sessanta:

Era nel ’22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e, riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo.[28]

Oggi che in Europa soffia forte il vento del riarmo, da più parti si alzano voci contrarie alla celebrazione del 4 novembre.

La scuola ha il dovere storico e morale di ricordare che il 4 novembre non vi è nulla da festeggiare. È in realtà un giorno di lutto, poiché in quella data termina una delle guerre più violente della storia, costata la vita ad oltre 13 milioni di uomini, una scellerata macelleria sociale dal cui sangue sbocciarono i frutti velenosi del fascismo e del nazismo.[29]

Queste le parole tranchant di Matteo Saudino, insegnante di storia e filosofia, alias “BarbaSophia” e apprezzatissimo youtuber con oltre trecentomila followers tra gli studenti.

Nel 2023 si è assistito a una polarizzazione politica e culturale sul tema delle celebrazioni del 4 novembre. L’invasione russa in Ucraina, prima, e la guerra di Israele a Gaza, sferrata dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023, hanno avuto come conseguenza in tutta Europa l’assunzione di decisioni politiche a favore di un deciso riarmo. La scuola non poteva rimanere estranea alla nuova temperie bellicista e, proprio in occasione del 4 novembre, si sono segnalati dissensi tra insegnanti da una parte e istituzioni ministeriali dall’altra, che sono poi continuati nel corso del 2024, in concomitanza con il moltiplicarsi di inviti alle scuole da parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito e del Ministero della Difesa a visitare le basi militari.[30]

Peraltro, già in precedenza si erano verificati conflitti molto aspri: nel 2019, ad esempio, l’assessora veneta all’Istruzione, la leghista Eleonora Donazzan, rivolse accuse pesanti a un gruppo di docenti del Liceo classico “Marco Polo” di Venezia, definendoli non «meritevoli di insegnare in una scuola italiana» perché rei di non aver voluto partecipare con le loro classi all’incontro con due ufficiali della Marina e della Finanza, previsto in occasione della giornata dell’unità nazionale e delle forze armate. Quegli insegnanti si erano rifiutati di «propagandare un’immagine del soldato e della carriera militare in cui sono del tutto scomparse la guerra, la morte, la violenza, le spese per le armi e le alleanze politiche con stati che si macchiano di crimini e violazione dei diritti umani».[31]

Tornando a tempi più recenti, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università, ha scritto il 3 novembre 2023:

Quella terminata il 4 novembre 1918 è stata una guerra che come tutte le guerre ha portato morte e distruzione. È stata una guerra di aggressione, di un’Italia che rivendicava il diritto all’occupazione di altri paesi (ricorda più di un governo oggi…). È stata una guerra ferocissima contro chi si ribellava con la diserzione e la renitenza alla leva. Mai come in questi giorni c’è bisogno di urlare contro la propaganda militarista e nazionalista che trova spazio ovunque, perfino nelle scuole.[32]

All’inverso, il Senato il 12 luglio 2023 ha dato il via libera a maggioranza assoluta al ddl 390 sul ripristino della festività nazionale del 4 novembre quale Giornata dell’Unità nazionale delle forze armate. Il testo di iniziativa del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, si articola in 4 articoli. Il primo prevede che

La Repubblica riconosce la Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate. A decorrere dal 2023 la celebrazione della Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate ha nuovamente luogo il 4 novembre di ciascun anno.[33]

In quell’occasione, alcuni esponenti politici, come il senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia, hanno voluto enfatizzare il significato della data del 4 novembre nel decorso della nostra storia nazionale:

Il quattro novembre è la vera data fondante della nostra Patria, occorre ridare dignità a questa giornata perché è una data diversa da qualunque altra data. La Grande Guerra è stata la quarta guerra del nostro Risorgimento, quella che ha fatto l’Italia per davvero, l’Italia del Piave e dell’Isonzo e delle battaglie in cui fu forgiata col sangue dei nostri soldati la nostra Nazione. Vorrei che oggi l’Italia si amasse di più e che fosse più orgogliosa di sé stessa, del suo eroismo e della sua storia e per questo esprimo il voto convinto del mio gruppo a favore di questa proposta di legge.[34]

Salvo aggiungere: «Il 25 aprile, che celebra i valori della libertà e della democrazia, in cui tutti ci troviamo in questo parlamento, ricorda comunque una guerra civile tra italiani».[35]

Le memorie in conflitto: una complessa sfida per gli insegnanti.

Il vero conflitto non è fra memoria e oblio, bensì fra memorie divise.[36] La domanda che gli insegnanti possono farsi è se, per poter sopravvivere come Paese, l’Italia abbia bisogno di una storia condivisa, e di una memoria condivisa.

Peraltro,la ricerca della verità, cui tende ogni ricostruzione storica, non può che avvenire sollecitando una pluralità di interpretazioni e accogliendo in esse memorie diverse e contrapposte. Per non parlare della questione dell’uso politico della storia e dell’uso strumentale di determinate date del calendario civile, che  è dirimente non solo in Italia ma a livello europeo.[37]  Un compito non facile, oggi, per i/le docenti, al quale tuttavia nessuno di loro può sottrarsi.


Note:

[1] J Foot, Fratture d’Italia. Da Caporetto al G8 di Genova. La memoria divisa del paese, Rizzoli, Milano 2009, p. 8.

[2] Foot, 2009, p. 10.

[3] Citazione da Edoardo Pittalis, già vicedirettore del Gazzettino, editorialista, saggista. Articolo sul Gazzettino, pubblicato sul sito https://www.tapum.it/news/147-mi-chiamo-firmato-l-origine-di-un-nome.html.

[4] Altra citazione tratta da Edoardo Pittalis, già vicedirettore del Gazzettino, editorialista, saggista. Articolo sul Gazzettino, pubblicato sul sito https://www.tapum.it/news/147-mi-chiamo-firmato-l-origine-di-un-nome.html.

[5] M. L. Granzotto, Intervista a Mario Isnenghi sul Centenario della Prima guerra mondiale, in “Novecento.org”, n. 5, dicembre 2015. DOI: 10.12977/nov104. Di Mario Isnenghi, si veda anche “La Grande guerra nella Storia d’Italia”, un video in cui lo storico riassume in breve le narrazioni della Grande Guerra nel corso di un secolo https://www.youtube.com/watch?v=ADFFl4ntcWg

[6] Oltre ai traumi psicologici spesso irreversibili, le conseguenze più drammatiche e visibili furono le devastanti ferite al volto. Accanto al lavoro dei chirurghi e all’aiuto della medicina, si rivelò preziosa l’opera e il talento della scultrice americana Anna Coleman Ladd, che mise a disposizione la sua inventiva e la sua esperienza da artista al servizio di tanti soldati rientrati dal fronte con terribili mutilazioni del viso, tanto da provocarne una sofferta perdita d’identità. Si veda la voce dell’Enciclopedia delle donne, curata da Franca Forte https://www.enciclopediadelledonne.it/edd.nsf/biografie/anna-coleman-ladd

[7] A. Visintin, Le cicatrici della vittoria. Frammenti di storia del primo dopoguerra italiano, a c. di Alberto Coco, Francesco Cutolo, Istituto Storico della Resistenza e dell’età Contemporanea in Provincia di Pistoia (I.S.R.Pt. Editore), Pistoia 2019, in “Qualestoria, Rivista di storia contemporanea”, Anno XLIX, N. 2, Dicembre 2021. https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/0badf652-497c-4c8e-be0f-9e062f7fe6c3/content

[8] Per la nozione di guerra civile nel primo dopoguerra, si veda Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile: l’Italia dalla Grande guerra al fascismo, 1918-1921, Torino, Utet, 2009.

[9] Alla Camera dei deputati, il 13 dicembre 1919, il segretario politico del PSI Bombacci, nel documento parlamentare di risposta al discorso della Corona del 1 dicembre, propose l’emendamento: «è quindi legittima la costituzione dei Consigli dei Lavoratori, assegnando ad essi tutto il potere politico ed economico, affinché anche in Italia, come nella
gloriosa Russia dei Soviets, si giunga ad un assetto sociale basato sul principio: Chi non lavora non mangia» (L’emendamento Bombacci, «Avanti!», Milano, 13 dicembre 1919, 1. Sulla questione, si veda il saggio di Steven Forti, «Tutto il potere ai Soviet!» Il dibattito sulla costituzione dei Soviet nel socialismo italiano del biennio rosso: una lettura critica dei testi, in Storicamente, 4 (2008), disponibile al link https://storicamente.org/sites/default/images/articles/media/804/forti.pdf

[10] Espressione usata in A. Scurati, Mussolini manuale d’odio, in “La Repubblica”, 17 settembre 2023. https://www.repubblica.it/robinson/2023/09/17/news/mussolini_fascismo_antonio_scurati_manuale_dodio-414713791/, in riferimento alla propaganda post bellica di Mussolini, il quale – scrive Scurati «soffia sulla paura, la alimenta, la ingigantisce: il socialismo è una barbarie, il socialismo è una pestilenza, il socialismo è l’orda. I socialisti, anche se italianissimi, poiché si ispirano alla rivoluzione russa, vengono dipinti come invasori portatori della “peste asiatica”.»

[11] Per una analisi storica che parte dai primi anni unitari alla mobilitazione patriottica della prima guerra mondiale, passando dalla ritualità fascista fino all’affermarsi di un patriottismo costituzionale nell’età repubblicana, si veda Maurizio Ridolfi, Le feste nazionali, Il Mulino, 2003.

[12] M. Ramperti, IV novembre, I morti in pace, in “Avanti!”, 4 novembre 1920.

[13] A. Gibelli, La guerra grande. Storie di gente comune, Laterza, Bari-Roma 2014. Questo libro ricostruisce la storia della prima guerra mondiale, raccontando le vicende personali di uomini comuni travolti dalla immane tragedia, attraverso le lettere inviate a casa dal fronte e dalla prigionia, i taccuini, i diari, le memorie scritte.

[14] Sul viaggio del Milite ignoto attraverso l’Italia, si vedano le immagini di repertorio dell’Archivio Luce Cinecittà  https://www.youtube.com/watch?v=P2vOemaTWWw

[15] B. Mussolini, Il cuore della Nazione ha celebrato il Milite Ignoto. Popolo, in “Il Popolo d’Italia”, 5 novembre 1921.

[16] Il culto dei caduti assume forme diverse nei vari paesi. Si veda il documento della Rai con immagini di repertorio: https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/mito-caduti/index.html#mito-caduti

[17] N. Labanca, Una storia immobile? Messaggi alle forze armate italiane per il 4 novembre (1945-2000), in N. Labanca (a cura di), Commemorare la Grande guerra, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, “Quaderni Forum”, XIX (2000), n. 3-4, p.77.

[18] Il Presidente della Vittoria celebra il 4 novembre, in “Corriere della Sera”, 5 novembre 1948.

[19] A. A. Mola, I Ministri della Difesa. 1945-1955, in L’Italia 1945-1955 la ricostruzione del Paese e le forze armate, atti del convegno, p.55, Ministero della Difesa, 2014, disponibile al link https://www.difesa.it/assets/allegati/43994/atti_2012_italia_1945_1955_ricostruzione_paese_ffaa.pdf

[20] Il Movimento dei Partigiani della pace, nato ufficialmente a Parigi nell’aprile del 1949,  ha rappresentato in Italia, a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, uno dei fenomeni maggiormente significativi, ed anche meno studiati, della lotta politica e culturale della sinistra italiana e del Pci in particolare. Si veda G. Petrangeli, I Partigiani della pace in Italia 1948-1953, “Italia contemporanea”, dicembre 1999, n. 217. L’Isec conserva il fondo con gli atti dei primi due congressi del Movimento (1949, 1952).

[21] Si veda, tra le altre cose, G. Mezzalira, Dalla crisi della prima autonomia al terrorismo in Alto Adige/Südtirol, in “Novecento.org”, n. 17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/08

[22] https://www.memoria.san.beniculturali.it/contesto-storico/-/contesto-storico/view/be3c59cc-71ff-4f64-a3e2-912d9595e559%23e1f19f79-5594-4d59-a571-fdf9cf8de11f/Terrorismo+altoatesino

[23] No alla Vittoria, Storia di un 4 novembre di cinquant’anni fa. – Azione nonviolenta – Lavori in corso causa guerra

[24] A. Moro, Siamo ad un bivio scegliamo la strada giusta, in “Il Popolo”, 5 novembre 1975. L’articolo è disponibile sul portale dell’Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, al link https://aldomorodigitale.unibo.it/edition/browse/work/142125

[25] Per la citazione, si veda il portale dell’Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro, al link https://aldomorodigitale.unibo.it/edition/browse/work/142125

[26] https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Linee+guida+Educazione+civica.pdf/9ffd1e06-db57-1596-c742-216b3f42b995?t=1725710190643

[27] Per consultare il decreto recante le “Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica. A partire dall’anno scolastico 2024/25”, si vada su https://www.miur.gov.it/-/educazione-civica-valditara-firma-il-decreto-scuola-costituzionale-in-prima-linea-nella-formazione-di-cittadini-consapevoli-e-responsabili-

[28] La citazione è tratta dalla famosa risposta di Don Milani, intitolata L’obbedienza non è più una virtù, all’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana, pubblicato con grande clamore su “La Nazione” il 12 febbraio 1965, con il quale si condannava l’obiezione di coscienza, ritenendola un insulto alla Patria e ai suoi Caduti, estranea al comandamento cristiano dell’amore ed espressione di viltà. La risposta ai cappellani militari costò a don Lorenzo Milani due processi per apologia di reato. Cit. da L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice fiorentina, p. 16, link https://cleliabartoli.wordpress.com/wp-content/uploads/2015/09/lobbedienza-non-c3a8-pic3b9-una-virtc3b9.pdf

[29] M. Saudino, 4 novembre: l’insegnante italiano ripudia la guerra, in “Volerelaluna”, 4 novembre 2019, https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2019/11/04/4-novembre-linsegnante-italiano-ripudia-la-guerra/

[30]  L’iniziativa dell’aerobase militare di Ghedi (Brescia) intitolata «Mettiamo le ali ai nostri sogni», ad esempio, prevede l’apertura, alle scuole, della sede bresciana dell’Aeronautica militare. Tale decisione ha sollevato un coro di proteste da parte di oltre 200 insegnanti di decine di istituti di ogni ordine e grado, che hanno sottoscritto una lettera di denuncia contro il fiorire di visite a mostre d’armi, a basi militari, a parate, ad addestramenti, ad alza-bandiera, a incontri con l’esercito. https://www.quibrescia.it/dibattiti/2024/04/02/ghedi-studenti-allaerobase-la-lettera-di-protesta-di-200-insegnanti/692024/

[31] Il 4 novembre a scuola – Comune-info

[32] 4 Novembre? Non è la nostra festa / Democrazia / Politica / Guide / Home – Unimondo

[33] Disegno di legge 170, art. 1. https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/19/DDLCOMM/0/1380587/index.html?part=ddlcomm_ddlcomm1

[34] https://www.secoloditalia.it/2023/07/4-novembre-il-discorso-di-menia-che-ha-emozionato-il-senato-per-voi-e-scontato-essere-italiani-video/

[35] https://www.secoloditalia.it/2023/07/4-novembre-il-discorso-di-menia-che-ha-emozionato-il-senato-per-voi-e-scontato-essere-italiani-video/

[36] Già Nicola Gallerano sottolineava negli anni Novanta il paradosso consistente nel fatto che convivono nel presente due fenomeni all’apparenza contradditori: un accentuato e diffuso sradicamento dal passato da un lato; e un’ipertrofia dei riferimenti storici nel discorso pubblico dall’altro. Si veda N. Gallerano, Introduzione a Idem (a cura di), L’uso pubblico della storia, F.Angeli, Milano, 1995.

[37] In occasione del Centenario della Grande Guerra, Charles Heimberg asseriva:“E non sono meno preoccupanti alcune pratiche commemorative del mondo politico che privilegiano un discorso patriottico e identitario, pretendono di attribuire un senso civico a quel massacro pazzesco che fu la Grande Guerra, confondono in modo deplorevole le dinamiche specifiche delle due guerre mondiali e dimenticano pure di associare tutti paesi belligeranti alle cerimonie. Queste tendenze forti pongono allora la questione del rapporto fra storia e memoria, e quella del peso della storia critica nella rimemorazione rituale del passato. (C. Heimberg, La Prima Guerra mondiale fra storia e uso pubblico del passato, in “Novecento.org”, n. 3, 2014. DOI: 10.12977/nov56)

Dati articolo

Autore:
Titolo: Memorie contese: il 4 novembre
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Numero della rivista: n.22, dicembre 2024
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Memorie contese: il 4 novembre, Novecento.org, n.22, dicembre 2024.

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