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Memorie contese: il 10 febbraio

Memorie contese: il 10 febbraio

Le mani giunte dei Presidenti Mattarella e Pahor a Basovizza il 13 luglio 2020.
Crediti: https://confinepiulungo.it/

Abstract

L’articolo si propone di delineare una genealogia del discorso sulle foibe e sull’esodo così come, a partire dagli anni ’90, si è imposto nella narrazione pubblica e istituzionale italiana. Nella convinzione che ogni sedimentazione memoriale debba essere adeguatamente contestualizzata all’interno del campo di forze storico nel quale assume il suo peculiare valore, si è cercato di ricostruire le tappe significative di una storia che ha visto l’alternarsi di momenti di grande diffusione a momenti di oblio. Nel delineare questa genealogia, particolare attenzione viene posta ai luoghi in cui si è prodotta la narrazione e ai gruppi politici interessati a che essa assumesse uno specifico valore polemico e identitario.

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The article aims to outline a genealogy of the discourse on the foibe and the exodus as it has imposed itself in the Italian public and institutional narrative since the 1990s. In the conviction that every memorial sedimentation must be adequately contextualised within the field of historical forces in which it assumes its peculiar value, an attempt has been made to reconstruct the significant stages of a history that has seen the alternation of moments of great diffusion and moments of oblivion. In outlining this genealogy, particular attention is paid to the places where the narrative was produced and the political groups interested in it taking on a specific polemical and identity value.

double blind peer review double blind peer review Questo articolo è stato sottoposto a revisione in doppio cieco (double blind peer review)

Introduzione

Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, il Parlamento italiano ha istituito il Giorno del ricordo, una nuova solennità civile da commemorare ogni 10 febbraio, giorno in cui, nel 1947, venne firmato il Trattato di pace con l’Italia, che comportò, tra l’altro, la cessione alla Jugoslavia della quasi totalità della Venezia Giulia, dell’Istria, di Zara e delle isole dalmate.

Leggendo l’articolo 1 del testo di legge si viene a conoscenza dell’argomento del ricordo, il quale si articola in tre momenti significativi: le foibe, l’esodo e la più complessa vicenda del confine orientale. Si tratta di due eventi precisamente nominati e di un terzo che rimane piuttosto indefinito, se non come giudizio di maggiore complessità rispetto a una vicenda che, tuttavia, non è meglio precisata. Esiste perciò uno scarto tra due eventi definiti e una categoria che deve essere riempita di contenuto.

È possibile ipotizzare che tale sproporzione nel testo della legge sia l’effetto di una mediazione politica conclusiva di un percorso avviato dalla metà degli anni Novanta, che ha avuto come protagonisti principali quei partiti che erano usciti profondamente trasformati dalla crisi della cosiddetta «prima Repubblica» e dai mutamenti internazionali riconducibili simbolicamente alla caduta del muro di Berlino.

Le vicende legate al cosiddetto «confine orientale» sono state infatti un cavallo di battaglia del Movimento sociale italiano che, nonostante le trasformazioni interne avvenute con la svolta di Fiuggi del 1995 e il conseguente cambio di nome (An – Alleanza nazionale), ha mantenuto saldo il riferimento alla memoria delle foibe e dell’esodo dei giuliano-dalmati, proponendo, già nel 1995, una legge dal significativo titolo di Concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati.[1] Sebbene non discussa, la legge verrà riproposta nel 1996, per poi tornare, dal 2001, al centro del dibattito parlamentare che condurrà all’approvazione, a larghissima maggioranza, della legge nel 2004.[2] Dal 2001, infatti, il nuovo governo di centro destra farà proprio un programma di istituzionalizzazione e celebrazione del tema delle foibe, trovando una sponda disponibile al dialogo nelle forze del centro sinistra, le quali già da alcuni anni, come dimostra l’incontro di Luciano Violante e Gianfranco Fini a Trieste nel 1998, procedevano a una cesura ideologica nei confronti del passato bagaglio politico, anche in relazione alla necessità di  legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica nell’inedito contesto emerso dal crollo dei sistemi comunisti esteuropei e dallo sfaldamento della «prima Repubblica».

Nel proporsi come affidabili forze di governo, i vertici della Quercia non esitarono ad assumersi colpe e responsabilità nella rimozione di drammi passati come le foibe e l’esodo. Un mea culpa che, nelle parole del senatore Ds (Democratici di sinistra) Miloš Budin, rappresentava «un atto doveroso per una sinistra che ha mantenuto su queste vicende per decenni un atteggiamento giustificazionista e/o reticente», e che avrebbe contributo all’acquisizione delle vicende del confine orientale «da parte di tutti nella memoria collettiva e condivisa».[3] È tuttavia interessante rilevare che tale atteggiamento volto all’interpretazione del provvedimento in chiave di «memoria condivisa» trascurò alcuni elementi critici che una certa lettura della proposta di legge avrebbe potuto far emergere. In primo luogo, durante la seduta parlamentare del 4 febbraio 2004 l’onorevole Alessandro Maran (Ds) faceva notare, con una certa inquietudine, che nella relazione che illustrava la proposta di legge da parte dell’onorevole Roberto Menia, vi fosse «il riferimento al ristabilirsi di presidi italiani e alla difesa del confine orientale ad opera di reparti come la X MAS», manifestando perciò il timore che dietro la memoria delle foibe si celasse «il rancore politico e sociale della destra sconfitta dalla guerra».[4] Inoltre, dal dibattito in Senato, sembra emergere una finalità piuttosto chiara della legge: considerando degne d’attenzione le sole vittime italiane delle violenze, si vuole produrre unilateralmente una «memoria capace di unire la comunità nazionale come solo può unire l’esperienza del dolore collettivo».[5] Così facendo, però, si privilegia un approccio parziale, che mal si adatta alla comprensione di una regione multinazionale come quella dell’alto adriatico.

Già dall’intervento del senatore di An Piergiorgio Stiffoni durante la discussione in Senato, infine, emerge, senza particolari infingimenti, il tentativo della destra di equiparare le foibe con la Shoah, nei termini che sono stati spesso riproposti nel discorso pubblico degli anni successivi:

Quali le differenze tra chi è responsabile di queste uccisioni di massa e i campi di sterminio? Non c’è alcuna differenza, se non per il modo con cui è avvenuta l’eliminazione […]. Non esistono infatti massacri di serie A o di serie B. Non esistono morti che gridano vendetta e morti e basta.[6]

Indubbiamente, l’istituzione del Giorno del ricordo ha reintegrato nel discorso pubblico e istituzionale una memoria dolente che rischiava di andare perduta: un atto sicuramente doveroso, benché tardivo. Ha altresì rappresentato un’occasione di approfondimento delle “complesse vicende del confine orientale” grazie, in particolare, alle numerose iniziative della rete degli Istituti per la storia della Resistenza[7] e ai progetti volti esplicitamente alla formazione dei docenti,[8] attraverso i quali «è stato possibile allargare lo sguardo a quelle che la legge istitutiva del Giorno del ricordo chiama sbrigativamente “le altre vicende” del confine orientale, recuperando una dimensione di lungo periodo».[9]

D’altra parte, però, nella retorica pubblica e a livello mass mediatico, dopo l’istituzione del Giorno del ricordo hanno abbondantemente circolato messaggi semplificati volti alla valorizzazione di una sola memoria, quella degli «italiani», lasciando nell’ombra le complessità nazionali, politiche, sociali della realtà alto adriatica, «territorio plurale nel quale si sono sedimentate memorie fortemente antagoniste».[10] Già dalle discussioni parlamentari emerge in maniera neppure troppo velata che quello che avrebbe dovuto essere un terreno di incontro in nome della pacificazione nazionale tra le forze politiche collocatesi stabilmente all’opposizione durante la “Prima Repubblica”, fosse nei fatti un tentativo di imporre modi e linguaggi di una ben determinata narrazione.

La guerra della memoria

In effetti, dietro il contenitore vuoto della memoria condivisa, tra anni Novanta e Duemila ha avuto luogo una vera e propria guerra della memoria,[11] segnata in profondità dall’iniziativa egemonica di una destra politica che non solo non aveva radici nell’esperienza antifascista, ma che trovava terreno fertile in quel revisionismo che ormai da più di un decennio vantava consensi e visibilità pubblica[12].

Il nesso tra politica e memoria non è certo nuovo né sconosciuto. La memoria pubblica è da sempre un luogo in cui si misurano le scelte politiche, le quali intervengono per stabilire cosa ricordare e cosa dimenticare, consapevoli della fondamentale importanza che ha il passato o, meglio, ciò che di esso val la pena celebrare, ai fini di una costruzione identitaria collettiva[13]. Sarebbe tuttavia eccessivamente semplicistico attribuire solo al livello istituzionale la capacità di definire la memoria pubblica, perché essa si modella nell’intersezione di molteplici discorsi e artefatti culturali che occupano lo spazio comunicativo di una società.[14]

Di conseguenza, a fianco delle iniziative istituzionali, non possiamo sottovalutare il ruolo che la televisione, il cinema e i giornali hanno avuto nell’introdurre nella memoria pubblica italiana “pezzi” dimenticati di storia, affiorati alla coscienza dopo il sommovimento tellurico prodotto dalla fine del comunismo e della guerra fredda. Liberi dalle maglie ideologiche del mondo bipolare, gli italiani hanno potuto confrontarsi con eventi negati o colpevolmente dimenticati, che nel tornare alla luce hanno mantenuto tutta quella carica veritativa propria degli eventi di rivelazione. Da una parte, la struttura narrativa di tali affioramenti soddisfaceva le logiche del discorso mass mediatico e giornalistico, che quindi diede ampio spazio alle vicende negate; dall’altra, però, fu non poco indotta da scelte politiche ben determinate e derivanti, spesso, dalle iniziative del Ministro per le telecomunicazioni Maurizio Gasparri. Quest’ultimo infatti dopo aver sollecitato uno sceneggiato Rai su Perlasca nel 2002, si dedicò alla produzione di una fiction sulle foibe dalla dubbia consistenza storica dal titolo Il cuore nel pozzo, che apparve sugli schermi degli italiani proprio in concomitanza della prima ricorrenza del Giorno del ricordo nel 2005.[15] Nel frattempo, un incisivo intervento è stato fatto nel campo della toponomastica, con l’introduzione di nuove titolazioni a città, piazze o edifici pubblici dedicate ai “martiri delle foibe” o a personaggi del fascismo.[16]

Con l’istituzione del Giorno del ricordo, perciò, assistiamo al culmine di una galassia di coerenti interventi volti a ridefinire i paradigmi memoriali, slegandoli dalla tradizione antifascista. Scrive Focardi: «Da sempre cardine della memoria della guerra coltivata dalla destra neofascista, le foibe sono diventate così parte della memoria pubblica nazionale».[17]

Questa riscoperta delle vicende legate al «confine orientale» è avvenuta, oltre che in un contesto pubblico di generale ignoranza del fenomeno, anche nel disinteresse, se non addirittura nella diffidenza, per le letture maturate nell’ambito della ricerca storica. Un esempio su tutti: la relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena[18], che concluse i suoi lavori nel 2000 con una sintesi di lungo periodo, non venne mai citata, sebbene rappresentasse un ottimo punto di avvio per perimetrare la sensatezza storica delle narrazioni in circolazione sulle foibe e sull’esodo.

Il discorso di Napolitano

Nel 2007, un anno dopo la vittoria della coalizione di centro sinistra, il neoeletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante la terza ricorrenza del Giorno del ricordo, descrisse con parole dure le vicissitudini giuliane,[19] parlando di «un moto di odio e di furia sanguinaria», di «un disegno annessionistico slavo […] che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica»,[20] per concludere con «la congiura del silenzio», che avrebbe impedito agli eventi di diventare patrimonio pubblico. [21]

Il discorso di Napolitano produsse immediate reazioni da parte della Slovenia e, soprattutto, del presidente croato Stjepan Mesić, il quale non esitò, in una nota indirizzata all’Ufficio della Presidenza, a individuare nel discorso di Napolitano «elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e ricerca di vendetta politica» che mal si coniugano con il «dichiarato desiderio di promuovere le relazioni bilaterali tra i due Paesi».[22]

Non ci soffermeremo sulle ragioni che hanno condotto Napolitano a pronunciare un intervento dai toni così divisivi, benché sia difficile non cogliere in alcuni passaggi temi e linguaggi provenienti dal discorso revisionista della destra. Il nostro problema, piuttosto, sarà quello di comprendere genealogicamente quali sono stati i luoghi di produzione e strutturazione del discorso sulle foibe e sull’esodo, così come abbiamo imparato a conoscerlo da parecchi decenni. Nel tentativo, riteniamo necessario partire da una determinata espressione utilizzata da Napolitano nel discorso analizzato, cioè la «congiura del silenzio».

La congiura del silenzio

L’espressione «congiura del silenzio» riportata da Napolitano è inserita in un discorso piuttosto vago, in quanto rimangono indeterminati i soggetti della congiura, le ragioni dei congiurati, i contenuti tacitati e, infine, il momento preciso in cui essa è avvenuta.

Nel tentativo di storicizzare la «congiura del silenzio» è necessario partire dal momento in cui la questione delle violenze legate alle foibe emerse nel discorso pubblico. Terminus a quo è l’ottobre del 1943, quando i tedeschi conclusero la conquista dell’Istria con una brutale offensiva volta a sradicare la momentanea presa del potere da parte dei partigiani in seguito alla capitolazione del Regno d’Italia l’8 settembre. L’operazione sbaragliò in breve i residui focolai di resistenza e instaurò su tutta la Venezia Giulia il potere nazista, che incluse la regione istriana nella Zona di Operazioni Litorale Adriatico, un territorio non solo occupato militarmente, ma anche direttamente sottoposto all’autorità civile ed amministrativa germanica.

Il periodo dell’occupazione nazista si caratterizzò per una forte attenzione alla propaganda: la complessità etnica della regione e la sua nuova collocazione geopolitica voluta dai nazisti comportarono la ridefinizione della posizione di Trieste all’interno di un’area il cui centro di gravità non sarebbe più stata l’Italia, ma l’Europa centrale e sudorientale. Per ottenere consensi e favori da parte della popolazione italiana, le nuove autorità, esperte di massacri sovietici, in stretta collaborazione coi fascisti collaborazionisti, capirono subito il valore propagandistico delle foibe,[23] che venne ampiamente utilizzato al fine di compattare gli italiani in un fronte antipartigiano in nome della difesa dell’italianità sostenuta dalla fondamentale protezione dei nazisti. Iniziò una campagna di recuperi delle salme, guidata da un reparto dei Vigili del fuoco di Pola al comando del maresciallo Arnaldo Harzaric,[24] che espletò il macabro compito seguito da presso dai quotidiani resoconti della stampa, soprattutto da Il piccolo, giornale locale della borghesia nazionalista italiana, e dal Corriere istriano, organo della Federazione del Partito fascista repubblicano. Titoli e contenuto dei giornali sono molto significativi nel delineare il tratto propagandistico dell’operazione: Parenzo colpita al cuore dalle belve slavo-comuniste piange i suoi figli migliori barbaramente uccisi (Corriere istriano del 28-10-43); Gli slavocomunisti volevano distruggere l’italianità dell’Istria sopprimendo i nostri uomini migliori (Corriere istriano del 27-10- 43) I massacratori di Vines hanno superato quelli di Katyn (Il Piccolo del 23-10-43); Tra le salme veniva trovata la carogna di un cane nero […]. Vittime del bestiale odio balcanico contro tutto ciò che sa di italiano (Il Piccolo del 6-11-43); la catena del martirologio istriano (Il Piccolo del 1-12-43).

L’eco degli eventi istriani non si limitò alla zona di operazioni Litorale Adriatico. Grande attenzione ebbe anche nella Repubblica sociale, dove la stampa si impegnò a diffondere le notizie provenienti dal fronte orientale, come è testimoniato dal quotidiano di Roberto Farinacci Il regime fascista, del 30 gennaio 1944, che propone un ampio stralcio della nota numero 31 dell’agenzia «Corrispondenze repubblicane» in cui si imputava a «slavocomunisti» la responsabilità della morte di centinaia di istriani, o dall’opuscolo intitolato Le macabre foibe istriane, probabilmente risalente all’inizio del 1944, ricco di macabre foto di cadaveri e con un testo di Pavolini, in cui si descrive il bolscevismo con toni volgari e quasi satanici.

Manifesto prodotto dal Nucleo di propaganda del Ministero della cultura popolare della Repubblica sociale italiana nel 1944. Immagine tratta da Manifestipolitici.it, banca dati della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna.

Il 30 gennaio del 1944, peraltro, la Repubblica sociale organizzò la prima commemorazione dei martiri delle foibe, durante la quale vennero onorati i caduti nell’intento di rafforzare il sentimento di vendetta e ritorsione.[25] Prese così avvio una sorta di

duplicazione del fenomeno delle foibe. Da un lato un oggetto storico, reale nella sua tragicità, ma che può essere indagato con metodo critico e quindi anche contestualizzato e discusso; dall’altro invece un costrutto mitico, che diviene parte integrante dell’identità collettiva degli italiani d’Istria e che può solo venire accettato e continuamente riproposto nell’ambito di una narrazione controversistica e rivendicativa.[26]

Che si tratti di una narrazione dai tratti mitici che avrà una lunga storia, coinvolgendo, nel dopoguerra, settori dell’associazionismo giuliano e la destra neofascista, ce lo testimoniano anche le ricerche di Natka Badurina,[27] la quale ha messo in evidenza alcuni schemi strutturali e ricorrenti del discorso che si è sviluppato a partire dalla propaganda nazi-fascista. Vi è la predilezione per strutture semplici, possibilmente binarie, sia a livello temporale (prima-dopo), sia spaziale (casa propria-mondo circostante, spazio urbano-bosco), sia valoriale (civile-incivile), sia, infine, morale (bene-male). Si tratta di una narrazione che insiste sulla paura e sull’orrore ed enfatizza smisuratamente la contrapposizione nazionale, che assume caratteristiche metastoriche. Secondo questa lettura, gli italiani uccisi nelle foibe sono martiri che hanno mostrato con l’estremo sacrificio il loro amor patrio, il quale si connota anche per una decisa e quasi naturale opposizione politica a un nemico etnico, da cui si fa derivare una connotazione ideologica: antislavismo e anticomunismo si fondono nel nemico slavo-comunista. A partire da questa narrazione polarizzata, binaria e metastorica, qualsiasi presa del potere del nemico giurato viene compresa esclusivamente nei termini di un mondo alla rovescia, che assume in sé le caratteristiche del negativo, senza sfumature, senza possibilità di redenzione, al di là del tempo.

Il lungo Dopoguerra triestino

Con la fine della guerra, l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia e le violenze denominate foibe giuliane, la divisione momentanea della regione in una zona A amministrata da un governo militare alleato e una zona B amministrata da un Governo militare jugoslavo, che rimase operante fino al Trattato di pace del 1947, si aprì per l’area alto adriatica una nuova e drammatica fase storica. Alfred Bowman, capo del GMA della Venezia Giulia dalla metà del 1945, sostenne che la Guerra fredda fosse iniziata nel nord Italia e che il suo punto focale fosse il confronto politico ideologico per Trieste,[28] e Winston Churchill, in un telegramma a Truman del maggio del 1945,[29] non esitò a collocare Trieste sul crinale di una cortina di ferro che parte da Lubecca per giungere a Corfù.

La città di San Giusto fu oggetto nel maggio del 1945 di una duplice avanzata, anglo-americana e jugoslava, ricordata solitamente come “corsa per Trieste”. Gli jugoslavi però avevano, a differenza degli anglo americani, un ben preciso progetto politico volto all’annessione della Venezia Giulia e all’instaurazione di un regime comunista che facesse da ponte per la penetrazione dell’ideologia verso occidente.[30] Le violenze che vediamo dispiegarsi nella regione, perciò, furono il frutto di una volontà di

epurazione preventiva diretta a eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, al progetto del nuovo potere: un progetto che era al tempo stesso nazionale e politico, dal momento che consisteva nell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista.[31]

I quaranta giorni di occupazione jugoslava cessarono solo il 9 giugno 1945 con gli Accordi di Belgrado e l’instaurazione di un Governo militare alleato. Le violenze lasciarono profonde lacerazioni nella società triestina e giuliana, divisa al suo interno tra il consenso rivolto dalla componente slovena e dalla classe operaia di lingua italiana di orientamento comunista all’amministrazione jugoslava, e il netto rifiuto da parte di molta popolazione di lingua italiana.[32]

Trieste rappresentò un luogo di frizione tra quelli che diventeranno, di lì a breve, due mondi contrapposti e caratterizzati da profonde differenze ideologiche ed economiche. Lo scontro tra comunismo e capitalismo segnò infatti la regione in profondità, definendo i toni e le ragioni di un conflitto politico che non esiterà ad attingere a vecchie strutture retoriche ricollocandole all’interno di contesti inediti.

Il problema dei confini orientali fu già dall’immediato dopoguerra uno dei principali temi della politica estera italiana, nonché un nodo importante della dialettica politica interna,[33] la quale si intrecciava con le esigenze internazionali e la sempre più decisa collocazione del paese a fianco degli Stati Uniti. La questione del confine orientale, pertanto, venne ritenuta risolvibile solo all’interno dei rapporti con gli angloamericani, di fronte ai quali era necessario screditare le azioni jugoslave. Un ruolo vitale fu perciò assegnato alla mobilitazione propagandistica, che attinse largamente i suoi argomenti da un patrimonio anticomunista e da «antiche diffidenze e ostilità nei confronti degli «slavi», appartenenti alla più trita tradizione nazionalistica e alimentate dalla stessa propaganda fascista […]».[34] Le geografie politiche della regione Giulia erano per conseguenza fortemente polarizzate tra una fazione filoitaliana e una filo-jugoslava, le quali nella Zona A sotto controllo alleato si esprimevano principalmente a livello di propaganda e nelle piazze, non potendo trovare sbocchi elettorali.[35]

Il tema delle foibe, cui si aggiunse quello delle recenti deportazioni, venne ripreso e usato dalla stampa filoitaliana per delegittimare le pretese jugoslave all’occupazione della regione. Vennero avviate, inoltre, delle iniziative volte al recupero dei corpi di infoibati, che si avvalsero di associazioni speleologiche private come la Squadra esplorazioni foibe, accompagnate da una martellante campagna di stampa,[36] soprattutto da parte del Giornale di Trieste e del Messaggero Veneto.

Iniziarono inoltre ad apparire, soprattutto a partire dalla primavera del 1946, gruppi di fascisti e squadristi che contenderanno la piazza alle squadre comuniste.[37] Di fatto, bande e gruppi di ispirazione neofascista trovarono ben presto spazio nell’agone politico triestino all’interno delle file del Msi, il quale si farà difensore dell’italianità di Trieste. Nella città di San Giusto l’interminabile dopoguerra e il protrarsi dell’esasperazione nazionalista, che durerà fino alla metà degli anni Cinquanta, favoriranno lo sviluppo delle forze di estrema destra, aiutate finanziariamente anche dall’azione dell’Ufficio Zone di Confine,[38] il quale, in nome dell’identità nazionale della città, non esiterà a investire ingenti mezzi in “propaganda all’italianità” nonché a offrire spazio e legittimazione alle forze antidemocratiche e di destra.

Esuli e propaganda

Con la responsabilità dei poteri popolari, che favorirono e in un certo senso prepararono le partenze, già dagli ultimi mesi di guerra la popolazione giuliano-dalmata inizierà un lungo esodo che durerà anni e si svilupperà in diverse ondate.[39] E tuttavia è con l’esodo di Pola, quando la stragrande maggioranza della popolazione lasciò la città in modo organizzato e sotto gli sguardi attenti dei giornalisti, che i profughi giuliani e dalmati si ritaglieranno uno spazio rilevante nel discorso pubblico non solo triestino, ma anche nazionale. La figura del fuggitivo da un regime comunista divenne di per sé un monito di ciò che sarebbe accaduto qualora il comunismo fosse salito al potere. Questo capitale propagandistico non venne affatto ignorato, soprattutto in occasione delle elezioni del 18 aprile del 1948, quando fu esplicito «il tentativo di usare il profugo, per le sue vicissitudini e caratteristiche, ai fini del rafforzamento di una politica anticomunista».[40] I Comitati civici di Gedda, per esempio, produssero dei manifesti raffiguranti un enorme scarpone chiodato che giungeva da Est ed era sul punto di schiacciare la penisola istriana. La scritta «astensionista, ricordati dell’Istria», svolgeva la funzione di richiamare l’elettore al voto in chiave anticomunista e filoccidentale.

Archivio storico dell’I.R.C.I. – Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste

Da parte sua il Pci, l’altra grande forza politica uscita rafforzata dagli anni della Resistenza, non indugiò nell’usare gli esuli giuliani ai propri fini propagandistici. In particolare, dal suo ritorno alla fine del 1946 da un incontro con Tito a Belgrado, Togliatti incentivò una campagna di stampa che da un lato valorizzava la Jugoslavia comunista come un paese caratterizzato da enormi successi materiali e da rinnovamento politico e sociale,[41] dall’altro, e coerentemente, non poteva che inquadrare il fenomeno degli esuli, in fuga dal paradiso socialista, nella categoria di esasperati nazionalisti e reazionari che si erano compromessi con il precedente regime fascista.[42] Fino, almeno, al 1948, quando si consumò lo scisma sovietico-jugoslavo, il Pci condusse una campagna propagandistica volta a dipingere gli esuli come fascisti in fuga dagli splendori di un paese comunista, senza mai lontanamente considerare la possibilità che tra le cause dell’esodo potessero esserci i poteri popolari.[43]

Con la firma del trattato di pace e l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, e fino almeno al Memorandum di Londra del 1954, il clima politico del Territorio libero di Trieste non cessò di essere incandescente. Alcuni temi precedentemente battuti dalla propaganda saranno messi in secondo piano rispetto ad altri, che ora assunsero una notevole centralità: la difesa dell’italianità di Trieste e le tentazioni revisioniste nei confronti del trattato di pace.

Nel discorso nazionalista volto alla strenua difesa dell’italianità di Trieste si inserirono progressivamente i profughi giuliano-dalmati, le cui caratteristiche di italiani in fuga dagli «slavocomunisti» si intrecciarono con le esigenze politiche di difesa dell’italianità portate avanti dal Movimento sociale italiano e sostenute dall’Ufficio Zone di Confine, delineando una progressiva convergenza, nel decennio successivo, tra alcune componenti dell’associazionismo degli esuli e le parti politiche più conservatrici e di ispirazione neofascista.

La rimozione

Dalla fine della guerra a tutti gli anni Cinquanta, le vicende del «confine orientale» furono inoltre ampiamente diffuse a livello pubblico da film come La città dolente del 1949, e da canzoni popolari come Vola colomba, interpretato da Nilla Pizzi, che contiene espliciti riferimenti alla città di San Giusto. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, tuttavia, l’attenzione nei confronti delle vicende alto adriatiche calò repentinamente ed esse furono oggetto di una rimozione incrociata:[44] si trattava di una storia scomoda per diverse culture e forze politiche. Cosa era cambiato?

È bene innanzitutto precisare che la questione delle foibe e dell’esodo continuò ad essere al centro dei dibattiti e delle polemiche pubbliche a Trieste e dintorni senza soluzione di continuità, così come, d’altronde, a livello storico sarebbe errato parlare di completo disinteresse da parte degli studiosi.[45] È tuttavia sensato parlare di una scomparsa del tema a livello di discorso pubblico nazionale, e ciò per alcuni motivi che si possono agevolmente identificare. Innanzitutto, bisogna ricordare l’intrecciarsi di tre eventi fondamentali: gli equilibri della Guerra fredda, con l’Italia decisamente schierata con l’Occidente, la scomunica della Jugoslavia da parte dell’Unione sovietica con la conseguente espulsione dal Cominform nel giugno del 1948 e la risoluzione del contenzioso di Trieste con il memorandum di Londra del 1954.

Gran Bretagna e Stati Uniti si resero immediatamente conto del vantaggio ideologico e strategico di un’eresia comunista in Jugoslavia[46], di conseguenza i rapporti del mondo occidentale nei confronti dello stato jugoslavo mutarono sensibilmente, coinvolgendo le relazioni che la Repubblica italiana aveva nei confronti del suo vicino. Certo, la nuova collocazione della Jugoslavia avrebbe comportato non solo aiuti economici da parte degli occidentali, ma anche la messa in sordina di questioni spinose come le violenze jugoslave nella Venezia Giulia e la lista di circa 800 criminali italiani segnalati dalla Jugoslavia alla commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite.[47]

Non di rado, inoltre, affermazioni pubbliche richiamano alle responsabilità del Partito comunista italiano nelle faccende di smemoratezza pubblica dell’Italia di allora. Dall’estate del 1941, il Partito comunista si decise per un sostegno alla causa jugoslava, il che comportò la rottura del fronte del Cln nell’area giuliana e le dipendenze dei reparti italiani dalla resistenza slovena e croata.[48] Tale appoggio non giovò, soprattutto dopo le stragi del ’45 ad opera di un movimento dichiaratamente comunista, all’immagine di movimento di massa affidabile sul piano nazionale che Togliatti, leader del Pci, voleva offrire del suo partito. Di conseguenza, i comunisti contribuirono attivamente alla rimozione, non avendo comprensibilmente alcun interesse a sollevare la questione.

A questi elementi dobbiamo aggiungerne un ultimo, non meno importante dei precedenti: tra gli anni Sessanta e Settanta i partiti che dominavano la scena politica del tempo, la Democrazia cristiana e il Partito comunista, diedero vita a una «memoria condivisa» della guerra fondata su due  pilastri:[49] la Resistenza come eroica lotta popolare e di liberazione nazionale; gli “italiani brava gente” vittime di Mussolini. Sollevare la questione delle foibe e dell’esodo avrebbe scoperchiato un vaso di Pandora in grado di destabilizzare il quadro memoriale precedentemente definito, da un lato intaccando l’immagine della Resistenza, dall’altro portando alla luce i crimini di guerra compiuti dagli italiani e i campi di concentramento.

Gli effetti di questa «rimozione incrociata» hanno fatto sì che

la memoria dolente e drammatica dell’esodo e delle foibe [sia] stata per decenni tenuta ai margini o al di fuori della memoria pubblica nazionale: è rimasta a lungo patrimonio quasi esclusivo delle organizzazioni dei profughi (e della destra politica), inevitabilmente portate […] a far iniziare la storia dal 1945 e a non considerare il suo più lungo e antico snodarsi.[50]

Memoria e identità

Ci accingiamo ora ad approfondire quella memoria dolente di cui parla Guido Crainz. In particolare, cercheremo di individuare i luoghi in cui si è trasmessa e sedimentata la memoria delle violenze e dell’esilio, nonché le narrazioni che in tali luoghi si sono strutturate e sviluppate, coinvolgendo inevitabilmente il modo stesso in cui i singoli portatori di memoria hanno rappresentato sé stessi, le proprie sofferenze e le proprie aspettative.

In questo breve percorso analizzeremo la memoria nella sua relazione con lo strutturarsi di una identità collettiva, consapevoli che la prima non è una sorgente pura che si conserva intatta al mutare delle esperienze,[51] ma un luogo multiforme e poroso, particolarmente sensibile alle sollecitazioni pubbliche e istituzionali. Trattandosi, quindi, dell’elaborazione di una identità collettiva, della creazione di una «comunità immaginata»,[52] nella quale una parte fondamentale viene svolta proprio dall’elaborazione dell’esperienza della fuga e dell’esilio dalle terre di origine, è necessario partire da un presupposto metodologico fondamentale: non abbiamo a che fare con individui già naturalmente definiti dalla categoria di esuli, di italiani o di slavi, ma con individui le cui fedeltà e identità, mutando nel tempo e in relazione alle circostanze, si strutturano incessantemente formando gruppi riconoscibili sul piano sociale e politico. Per usare le parole di Ernesto Sestan, incaricato nel 1944 di delineare la storia etnica della regione Giulia:

La nazionalità [in Istria] non è sempre un dato inequivocabile di natura, ma spesso un atto di elezione. […] Moltissimi di questi elementi delle masse slave (ma anche, se pur in misura minore, delle masse italiane), non si domanderebbero: sono slavo o italiano, ma: sotto chi starò meglio, sotto l’Italia o sotto la Jugoslavia?[53]

Indifferenti? Approfittatori? Opportunisti? Difficile giudicare. Sicuramente, però, esseri umani esposti al divenire storico, che ha condotto alcuni di essi a divenire parte di un “popolo”, così come, in occasione di un’omelia tenuta nel febbraio del 1975, il vescovo di Trieste Santin, a sua volta esule da Capodistria, così si espresse riguardo alla comunità degli esuli: «[…] stabilire un’ora nella quale tutti noi, sparsi su tutta la terra, pellegrini che portano nel cuore una storia e una speranza, idealmente ci uniamo e formiamo un popolo, il nostro popolo.»[54]

La memoria degli esuli

Al di fuori dell’ambito privato, le associazioni dei profughi e la destra politica, legata agli ambienti del Movimento Sociale, sono stati i principali luoghi in cui la memoria degli esuli è stata coltivata e si è tramandata fino agli anni Ottanta. Una memoria tenuta ai margini dai discorsi pubblici, offesa dal silenzio calato su di essa, quindi dolente e costretta a prolungare in maniera risentita il ricordo e il dolore ad esso legato. Al disinteresse e alla rimozione della memoria pubblica, profughi provenienti da parti geografiche diverse, per motivazioni non sempre coincidenti e appartenenti a differenti strati sociali, hanno risposto con una vera e propria invenzione della tradizione, costruendo pratiche cerimoniali condivise ed elaborando una identità collettiva.

La memoria dell’esilio si è strutturata e modellata intorno a vere e proprie cornici narrative, o metanarrazioni, come le ha chiamate l’antropologa americana Pamela Ballinger nel suo fondamentale testo sull’argomento.[55] Esse svolgono la funzione di mediare i ricordi e le esperienze personali con nuclei di senso più ampi, capaci di informare il modo stesso in cui i singoli testimoni ricordano e interpretano il loro passato. È anche un modo, probabilmente, per elaborare il lutto e il dolore, attribuendo una esemplarità all’esperienza singola che altrimenti andrebbe perduta nel flusso inconsapevole del tempo.

Una prima cornice narrativa individuata da Ballinger è l’irredentismo.[56] Riprendendo la terminologia del sacrificio religioso-nazionalistico della Grande guerra, esso ha mantenuto tutta la sua validità sia per le associazioni degli esuli, sia per il Msi, che ancora nel 1992 inondò la città di Trieste di volantini che invocavano un «nuovo irredentismo».[57] L’irredentismo ha permesso di collocare nel lungo periodo le esperienze degli esuli all’interno di quelle lotte secolari contro i nemici austriaci e i loro «alleati» slavi, le cui finalità «snazionalizzatrici» sotto l’Austria vengono considerate equivalenti a quelle degli jugoslavi, monarchici o socialisti che fossero. Le radici di questa campagna antitaliana vengono così collocate «in una intrinseca natura slava», completamente destoricizzata e che attenua, se non addirittura cancella, l’importanza del fascismo o del comunismo nel dar conto degli eventi della Dalmazia e dell’Istria dopo il 1943.

Volantino Msi del 1992 reperibile sulla pagina web https://www.cnj.it/immagini/meniafini.jpg

Un’altra cornice narrativa estremamente importante è quella che legge le partenze attraverso il prisma dei temi cristologici legati al martirio e alla via crucis. La tematica, magistralmente trasposta figurativamente dalle vignette dell’artista istriano Gigi Vidris e assurta a elemento di lettura storiografica nel testo di padre Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, forniva materiale narrativo ben radicato nella cultura occidentale, in grado quindi di produrre comprensione immediata di una vicenda storica che, appunto, innalzava gli esuli a figure metastoriche di martiri. Rocchi, infatti, usa l’espressione «Calvario degli infoibati» per le vittime delle stragi del 1943 e del 1945 e di Via Crucis dei sopravvissuti, per descrivere coloro che dovettero subire con dolore l’esodo dalle loro terre d’origine.

Archivio storico dell’I.R.C.I. – Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste

L’interesse della figura del martire e di linguaggi desunti dalla tradizione religiosa cristiana è tanto maggiore in quanto ha non solo l’effetto di «creare un’implicita distinzione tra italiani dotati di principi morali e slavo-comunisti senza dio»,[58] ma anche di indurre a pensare alle vittime di queste violenze come se fossero state sacrificate per i peccati di altri. In un certo senso, il ricorso a questi linguaggi non fa che avvalorare e rinforzare il mito del bravo italiano, inducendo a una lettura ancora una volta destoricizzata degli eventi relativi alla regione alto adriatica.

Un terzo elemento narrativo ricorrente nella memoria degli esuli, ma che è il risultato di una riconfigurazione memoriale avvenuta in relazione a eventi storici successivi, riguarda il tornante degli anni Novanta e, in particolare, le guerre jugoslave. Nelle interviste condotte da Ballinger durante la sua ricerca avvenuta nel corso degli anni Novanta, da cui prese corpo il testo La memoria dell’esilio, ricorrono, nelle testimonianze degli esuli, suggestive quanto infondate interpretazioni di lungo periodo relative a una presunta natura slava bestiale che si esprime ricorsivamente attraverso la violenza e i massacri: «quello che gli slavi si stanno facendo l’un l’altro adesso l’hanno fatto a noi cinquant’anni fa»;[59] «Perché sono belve e lo dimostrano oggi che sono belve perché il genocidio che stanno facendo laggiù oggi con i musulmani e con i serbi contro i croati, e viceversa, dimostrano quello che hanno fatto 50 anni fa in Istria.»[60]

Le guerre jugoslave perciò hanno fornito le «prove» delle tendenze genocidiarie degli slavi, oltre che una cornice di lungo periodo in cui collocare la propria esperienza e il rapporto tra italiani e slavi. Unitamente alla narrazione irredentista e a quella cristologica, «il tornante degli anni Novanta è risultato quindi decisivo per la sedimentazione del giudizio sulla separazione storica e antropologica fra italiani e slavi, con la riproposizione di immagini quasi ferine, attribuite agli slavi, che venivano dall’interno dei boschi, contrapposti agli italiani civili abitanti nelle città».[61]

L’antropologa statunitense ha inoltre notato come nelle testimonianze degli esuli venisse progressivamente accostato al termine genocidio, per descrivere le azioni degli slavi nei confronti, tra gli altri, degli italiani, quello di pulizia etnica, diffusosi proprio nel corso degli anni Novanta.

Tale lettura degli eventi alto adriatici si inserisce indubbiamente in una generale riconfigurazione dei paesaggi memoriali avvenuta con la conclusione della Guerra fredda e la fine del comunismo, tendente a leggere i conflitti in termini etnico-nazionali piuttosto che politici. Molti gruppi di vittime ignorate dalle esigenze di Realpolitik durante la Guerra fredda, infatti, riconfigurano ora le persecuzioni ai loro danni come legate ad antagonismi etnico-nazionali, in ciò sostenute dalla possibilità legale di leggere le violenze in termini genocidiari, così come stabilito dalla Convenzione sul Genocidio del 1948. Tale interpretazione ha condotto parte del mondo della diaspora giuliana, in ciò sostenuto ampiamente da forze politiche di destra, a paragonare le proprie vicende alla Shoah. Come sostiene un’esule intervistata nel 2007: «Siamo un po’ come ex deportati liberati dai lager, la tragedia del nostro popolo fa pensare al genocidio degli ebrei, anche noi siamo vittime di odio razziale.»[62]

Rivendicare le proprie sofferenze in termini genocidiari, oltre ad avere il vantaggio della imprescrittibilità del crimine nel caso di inchieste giudiziarie, puntualmente avvenute nel corso degli anni Novanta da parte della procura di Roma per punire i responsabili delle foibe, possiede un indubbio capitale morale che ha ulteriormente compattato la comunità degli esuli attraverso la costruzione di «un’identità collettiva centrata intorno alla vittimizzazione».[63]

Una narrazione unitaria

La storiografia ha rivelato la continuità, nella cerchia degli esuli e delle loro associazioni, di una memoria che eredita alcune strutture narrative di quel discorso fortemente nazionalista che, attingendo a stereotipi ben radicati nella cultura e nella politica fascista del ventennio, ha iniziato a delinearsi nei mesi successivi alle foibe istriane del 1943 nella propaganda della Rsi. Dall’antislavismo, vero e proprio fiume carsico nella cultura giuliana,[64] alla tesi del genocidio nazionale,[65] arricchitasi durante gli anni Novanta, come abbiamo visto, di un nuovo linguaggio, si tratta di tematiche continuamente riproposte «dagli ambienti di estrema destra, dagli epigoni della Rsi e dalle associazioni degli esuli istriani».[66]

Il traguardo più significativo, dal punto di vista politico, di questa difesa e preservazione della memoria delle persecuzioni e dell’esodo è avvenuto proprio nel 2004, con l’istituzione del Giorno del ricordo. La celebrazione ha a sua volta avuto degli effetti notevoli sulla memoria stessa della comunità degli esuli,[67] i quali hanno abbandonato la precedente ostilità nei confronti dello stato italiano, per il mancato riconoscimento simbolico e materiale delle sofferenze del dopoguerra, a favore di una progressiva rimozione di parti della loro storia per renderla funzionale alle nuove narrazioni nazionali. Con l’impatto pubblico del Giorno del ricordo, infatti, «le memorie locali e sociali degli “esuli” (particolarmente traumatiche nelle regioni “rosse”) si sono via via conformate e amalgamate a un modello unico e stereotipato di memoria pubblica nazionale. […] In questo processo di stereotipizzazione della memoria degli “esuli” l’accento si è spostato progressivamente, e quasi esclusivamente, sulle colpe degli “slavi” e sulle foibe».[68]

Discorso pubblico e istituzionalizzazione negli anni Novanta

Questi sono i discorsi e le narrazioni a disposizione nel momento in cui i temi legati alle foibe e all’esodo si sono imposti sulla scena pubblica italiana negli anni Novanta, cioè quando in tutta Europa si è assistito al recupero delle «memorie negate». La scarsa conoscenza delle vicende del confine orientale e il ruolo attivo che i media e la pubblicistica hanno avuto nel diffondere a livello nazionale una certa immagine degli eventi, a netto discapito della ricerca storica, hanno contribuito alla diffusione di una narrazione profondamente legata agli ambienti dei portatori di memoria e sostenuta dal solo Movimento sociale italiano.

Non stupisce, quindi, che nel febbraio 2007 il discorso del presidente Giorgio Napolitano sia stato così profondamente connotato da una prospettiva esclusivamente nazionale all’interno della quale lo slavo appare come nemico giurato e la categoria di pulizia etnica venga impropriamente utilizzata.[69] Come suggerisce Tenca Montini, la narrazione che emerge e che si sedimenta a livello istituzionale nella prima decade degli anni 2000 sembra essere funzionale a una ritrovata identità nazionale attraverso la pacificazione, fortemente incentrata, tuttavia, sul ruolo degli italiani come vittime e sui crimini del comunismo. Di fatto, i temi legati alle foibe e all’esodo sono entrati immediatamente in risonanza con quei nuovi discorsi capaci di segnare delle linee di legittimazione o delegittimazione pubblica, cioè il paradigma vittimario e quello antitotalitario. Di conseguenza, benché l’istituzione del Giorno del ricordo abbia stimolato spunti, riflessioni e nuove piste di ricerca nell’ambito della ricerca storica, la quale ha conosciuto «nel corso degli anni una crescita così marcata, da rendere semplicemente lunare la riproposizione di slogan quali “una storia negata”, “la verità infoibata” e altre sciocchezze del genere»[70], nella sfera pubblica sembra circolare con maggiore facilità una versione semplicistica e fortemente connotata delle vicende. Sicuramente, un contributo in tal senso è dato dalla persistenza nello spazio pubblico italiano di discorsi autoassolutori, come il mito del bravo italiano[71] e l’incapacità di cogliere la multidimensionalità di categorie come quelle di vittime e di perpetratori. Il paradigma vittimario, soprattutto, garantisce ai discorsi una forza emotiva notevolmente superiore rispetto a qualsiasi articolato ragionamento storiografico.

L’irruzione delle «memorie negate», tra cui ovviamente quella delle foibe, rischia tuttavia di minare quei principi di convivenza e tolleranza su cui si è costruita la memoria europea. Utilizzare il genocidio nazionale condotto da un regime comunista, infatti, se da una parte rientra concettualmente nelle possibilità di ciò che può e deve essere ricordato, dall’altra confligge con le memorie degli altri, in particolare di sloveni e croati, che non hanno avuto esperienza del buon italiano, ma della snazionalizzazione fascista, dell’occupazione dei loro territori, delle stragi contro civili e partigiani e delle deportazioni in campi di concentramento.

Si potrebbe, in conclusione, porsi un dubbio sulla legittimità del recupero di un discorso volto alla valorizzazione di una specifica comunità nazionale all’interno della compagine europea. Non tanto sulla presa di coscienza del paese circa un complesso traumatico di eventi che effettivamente appartiene alla storia nazionale, quanto al fatto che ciò sia avvenuto, almeno a livello della sfera pubblica, con una scarsa riflessione critica, assumendo, in chiave nazionalistica, la vulgata neofascista e la memoria delle associazioni di esuli. Ci si chiede se questo lessico nazionalista, riproposto nel contesto globale del XXI secolo, sia effettivamente

la migliore attrezzatura che la comunità repubblicana può mettere in campo per affrontare le sfide dell’emigrazione, della globalizzazione, del multiculturalismo […]. L’identità nazionale (italiana, ma anche padana, irlandese, croata, rumena o quel che si vuole) non è l’unico modo possibile di concepire le comunità politiche; ma è, appunto, un modo artificiale, storicamente determinato, carico di specifiche narrazioni e di particolari gerarchie di valori.[72]

Riconciliazione?

Fortunatamente, dopo il 2007 il Quirinale ha cambiato toni e strategia nell’affrontare la ricorrenza relativa al 10 febbraio, attraverso due salti di qualità sul piano del riconoscimento e del rispetto alle memorie dolenti che ha coinvolto i presidenti delle repubbliche di Slovenia e Croazia. Innanzitutto, nel 2010 i presidenti dei tre paesi confinanti nella regione alto adriatica si sono riuniti, dopo una serie di passaggi sui luoghi simbolo delle tragedie novecentesche, in piazza Unità d’Italia a Trieste per assistere a un concerto diretto da Riccardo Muti e composto da musicisti di tutte e tre le nazionalità. Nel 2011 i presidenti italiano e croato si sono incontrati nuovamente a Pola, mentre nel 2020 i presidenti italiano Mattarella e quello sloveno Pahor si sono recati in visita alla foiba di Basovizza e al vicino monumento dei fucilati sloveni del 1930, in un gesto di omaggio alle reciproche sofferenze subite. Un percorso di avvicinamento che sembra continuare, con la nomina a città capitale della cultura europea del 2025 di Gorizia-Nova Gorica.

Negli ultimi quindici anni, perciò, pare che il Quirinale, in accordo con le presidenze di Slovenia e Croazia, abbia cercato di trasformare una memoria nazionalista fortemente contrappositiva, in una memoria europea riconciliata, basata cioè sul riconoscimento reciproco dei torti e delle violenze in vista di una collaborazione nella casa europea. Tuttavia, ci si chiede quanti discorsi pubblici sono stati fatti in seguito a tali gesti, quante trasmissioni televisive dedicate al riconoscimento dei torti e delle responsabilità, quante fiction dedicate alla «complessa vicenda del confine orientale», e non solo alle violenze subite da innocenti italiani a danno di bestiali partigiani «slavocomunisti».

Purtroppo, a fianco di tali iniziative delle più alte cariche dello stato, bisogna segnalare attacchi frequenti al mondo della ricerca da parte di esponenti del mondo politico di destra, che hanno coinvolto storici con la sola colpa di aver pubblicato volumi ritenuti intollerabili o articoli di giornale in cui si “osava” criticare la legge istitutiva del Giorno del ricordo.[73] Lo stesso Raoul Pupo, tra i principali studiosi delle vicende novecentesche dell’Alto adriatico, è stato accusato di riduzionismo per il contenuto di alcuni passaggi di un utile e ponderato documento pubblicato dall’Istituto del Friuli-Venezia Giulia, il Vademecum, in cui si cercava di venire incontro alle esigenze di chiarezza da parte del mondo della scuola e, più in generale, di coloro che vogliono sbrogliare una matassa non semplice.

A ciò bisogna aggiungere le mozioni della regione Friuli-Venezia Giulia nel 2019 e di quella del Veneto nel 2021, che hanno dato vita a iniziative volte non solo a sospendere i contributi finanziari a quei soggetti che concorressero a ridurre o negare il dramma delle foibe e dell’esodo, ma anche, come nel caso del Veneto, a quantificare le vittime e gli esuli, adducendo cifre che nessuno storico accademico accetterebbe.

È evidente che in questi ultimi anni ci sono stati svariati tentativi della destra e di buona parte dell’associazionismo degli esuli, con ricadute istituzionali, da un lato di applicare la concettualità del negazionismo della Shoah al campo delle foibe e dell’esodo,[74] dall’altro di ottenere l’esclusività sulla gestione del tema, soprattutto in occasione di ricorrenze pubbliche o manifestazioni scolastiche. Il presupposto di questo atteggiamento proprietario è l’assoluta centralità e sacralità della vittima: nel momento in cui un gruppo assurge al ruolo di vittima, allora non c’è più spazio per la critica; in un discorso che oppone l’innocenza assoluta al male assoluto, infatti, l’unica forma che può assumere la critica è il sacrilegio e la profanazione.[75]

Come è stato sottolineato, i risultati della ricerca storica, nonché i progetti didattici e le iniziative formative rivolte al mondo della scuola, hanno in questi tre decenni raggiunto notevoli risultati analitici e di elevata consapevolezza critica. Purtroppo però pare sussistere (e in qualche caso divaricarsi) una distanza con quello che accade nel discorso pubblico, dove prevale un taglio fortemente emotivo e volto alla costruzione di una nuova identità nazionale, coerentemente, d’altronde, con il clima politico del Paese, fortemente influenzato da un neonazionalismo che, in Italia come altrove, ha pervaso anche le pubbliche istituzioni, sia a livello locale che a livello statale.[76] L’atteggiamento negligente con cui la Commissione mista italo-slovena venne accolta in Italia nel lontano 2000, non sembra essere mutato di segno: gli specialisti continuano a essere percepiti come una minaccia al tentativo di creare una memoria pubblica compattante la comunità nazionale attorno ai temi delle foibe e dell’esodo.

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Note:

[1] Camera dei deputati, Proposta di legge presentata l’11 luglio 1995.

[2] Cfr. la ricostruzione del dibattito sull’istituzione di questa giornata commemorativa in G. De Luna, La Repubblica del dolore, Feltrinelli, Milano 2011, pagg. 74-81.

[3] Senato della Repubblica, 561^ Seduta pubblica, giovedì 11 marzo 2004.

[4] Camera dei deputati, Resoconto 418, seduta di mercoledì 4 febbraio 2004.

[5] Senato della Repubblica, 561^ Seduta pubblica, giovedì 11 marzo 2004. Mila Orlić fa notare, diciassette anni dopo, come foibe ed esodo siano effettivamente diventati due pilastri della memoria pubblica italiana incentrata sulla «costruzione di una nuova identità nazionale, in cui prevale l’attenzione – non di rado ossessiva – per le vittime» (M. Orlić, Verso una patria ostile. Le migrazioni nell’altro Adriatico nel secondo dopoguerra: questioni interpretative, in “Ricerca di storia politica”, 3, 2021, pag. 291).

[6] Senato della Repubblica, seduta pubblica di martedì 16 marzo 2004.

[7] Sono molti gli Istituti che da anni approfondiscono con rigore le vicende della Venezia Giulia, a partire dall’Irmsl-Fvg, dall’Istoreto, fino alle iniziative degli istituti toscani. Cfr. per una valutazione generale R. Pupo, Giorno del ricordo e divulgazione storica, in “Contemporanea”, 2, 2021 e, per un approfondimento sul caso toscano, Simone Malavolti, Leggi memoriali, conflitti nazionali e progetti didattici. L’esperienza degli istituti storici toscani della Resistenza, “Italia contemporanea”, 298, 2022.

[8] Già del 2005 è un articolato corso di formazione per insegnanti e formatori promosso dall’Istoreto, da cui è nata una raccolta di saggi pubblicata nel 2009: AA. VV. Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino, 2009.

[9] R. Pupo, Due vie per riconciliare il passato delle nazioni? Dalle Commissioni storico culturali italo-slovena e italo-croata alle giornate memoriali, in “Italia contemporanea”, 282, 2016.

[10] Pupo, 2021, p. 306.

[11] Cfr. F. Focardi, Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoah, Foibe, Viella, Roma 2020, in particolare il capitolo Il passato conteso.

[12] Cfr. Focardi, 2020, Il passato conteso e De Luna, 2011, p. 56.

[13] «La memoria pubblica è sempre un terreno conteso: da ciò che si decide di includervi o escludervi, dai modi di interpretare il passato che vi acquistano l’egemonia, dipende la legittimazione o meno dei diversi progetti che nel presente competono nella collettività» (P. Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pag. 63).

[14] Cfr. P. Jedlowski, La difficile costruzione di una memoria autocritica, in M. Castoldi (a cura di), 1943-1945: i bravi e i cattivi, Donzelli, Roma 2016, in particolare le pp. 93-94.

[15] Per una valutazione critica del film, cfr. M. Verginella, Tra storia e memoria. Le foibe nella pratica di negoziazione del confine tra L’Italia e la Slovenia, in L. Accati, R. Cogoy, Il perturbante nella storia. Uno studio di psicopatologia della ricezione storica, QuiEdit, 2010 (ed. or. 2007), e F. Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, Kappavu, 2015, in particolare il capitolo Foibe e massmedia.

[16] Focardi, 2020, pp. 212-213. Nel suo paragrafo intitolato Della scomparsa dei corpi. Storia e memoria delle foibe, Rolf Wörsdörfer, autore di un testo sull’area di crisi dell’alto adriatico, nota a sua volta che la toponomastica «rinvia al tentativo della destra politica di fare breccia nell’egemonia esercitata dall’antifascismo sulla cultura della memoria. Il discorso sulle foibe conferisce identità […]. A partire dalle foibe è insomma possibile ricostruire l’italianità e attualizzarla in modo sempre nuovo». (Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, il Mulino, Bologna 2009, pag. 239).

[17] Focardi, 2020, p. 213.

[18] Cfr. R. Pupo, Due vie per riconciliare il passato delle nazioni? Dalle Commissioni storico culturali italo-slovena e italo-croata alle giornate memoriali, cit.

[19] Per approfondire l’analisi del discorso del Presidente Napolitano, cfr. Tenca Montini, 2015, in particolare il capitolo Le foibe al servizio della nazione, e G. Franzinetti, Le riscoperte delle foibe, in J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino, 2009.

[20] Il discorso integrale è consultabile sul sito del Quirinale, alla pagina https://l.quirinale.it/elementi/54223.

[21] In maniera alquanto sorprendente, non vi sono cenni alla sconfitta dell’Italia nella guerra di aggressione da essa voluta anche a danno di una Jugoslavia che, con il suo movimento di liberazione, uscirà vincitrice dal conflitto assieme alla coalizione antifascista che aveva sconfitto le forze dell’Asse. Ma soprattutto, non sono neppure nominate le politiche repressive e criminali operate dal fascismo né prima della guerra, né, tantomeno, dall’invasione della Jugoslavia del 1941 in poi.

[22] F. Tenca Montini, 2015, pag. 147

[23] Cfr J. Pirjevec, 2009, pagg. 49-66 e R. Spazzali, Foibe: un dibattito ancora aperto, Lega Nazionale, Trieste, 1990, pagg.  135-164.

[24] Per il resoconto del Maresciallo Harzaric, rimandiamo a R. Pupo-R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

[25] Vedi Corriere della sera e La Stampa del 20-01-1944; R. Spazzali, 1990, p. 153.

[26] R. Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza, Roma-Bari 2022, pag. 136.

[27] Cfr. N. Badurina, L’uso politico del folclore nella memoria dell’esodo istriano, in “Italia contemporanea”, 298, 2022 e N. Badurina, Fear, the fantastic, and the political in the italian memory of the istrian exodus, in N. Badurina, U. Bauer, R. Jambrešić, J. Marković, Encountering fear, Institute of ethnology and folklore research, 2020. Sulle rappresentazioni dei partigiani e della forza immaginativa rappresentata dal bosco come elemento selvaggio e inquietante, cfr. i lavori di Gloria Nemec, in particolare Fuori dalle mura. Cittadinanza italiana e mondo rurale slavo nell’Istria interna tra guerra e dopoguerra, in Marina Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.

[28] P. Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità ai confini dei Balcani, Il Veltro editrice, Roma 2010 (2003), p. 126. Recentemente, tuttavia, la storiografia ha superato la tradizione interpretativa che vedeva nella crisi di maggio un’anticipazione della Guerra fredda. Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005, pagg. 94-95.

[29] R. Pupo, Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 172.

[30] E. Miletto, Novecento di confine. L’Istria, le foibe, l’esodo, Franco Angeli, Milano 2020, pag. 85.

[31] Pupo, 2005, pag. 100.

[32] Sugli effetti di lungo periodo di questa lacerazione sulle memorie nell’area triestina cfr. P. Ballinger, Exhumed histories: Trieste and the politics of (exclusive) victimhood, in “Journal of Southern Europe and the Balkans”, 2, 2004.

[33] E. Miletto, 2020, pag. 177.

[34] C. Colummi-L. Ferrari-G. Nassisi-G. Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1980, pag. 316

[35] Cfr. R. Pupo, 2021 pagg. 226-242 e 2010 pag. 282 e sg.

[36] Cfr. J. Pirjevec, 2009 pagg. 108-124 e R. Spazzali, 1990 pagg. 165-170.

[37] Cfr. Pupo, 2010 e N. Tonietto, Organizzazioni nazionaliste e neofasciste al confine orientale nella transizione del dopoguerra (1945-1949), in “Qualestoria”, 2, 2019.

[38] Cfr. N. Tonietto, 2019. Per uno sguardo più ampio sull’azione dell’Ufficio per le zone di confine, si rimanda al volume di D. D’Amelio, A, Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), Il Mulino, Bologna 2015.

[39] Per una ricostruzione della complessità dell’esodo, che si protrasse fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, cfr. almeno: C. Colummi-L. Ferrari-G. Nassisi-G. Trani, 1980; R. Pupo, 2005; P. Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975, Kappavu, Udine 2010; R. Pupo, La catastrofe dell’italianità adriatica, Qualestoria, 2, 2016; E. Miletto, 2020. Per un inquadramento del fenomeno su scala europea e per un approccio comparativo, si consiglia: M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo, Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000 e G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici, Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008.

[40] C. Colummi-L. Ferrari-G. Nassisi-G. Trani, 1980 pag. 288.

[41] P. Karlsen, Frontiera rossa. Il Pci, il confine orientale e il contesto internazionale, LEG, Gorizia 2010, pagg. 175-186.

[42] E. Miletto, 2020, pag. 128.

[43] In questo contesto si devono interpretare le manifestazioni di ostilità che si verificarono all’arrivo degli esuli in Italia, tra cui si ricorda quello avvenuto alla stazione di Bologna nel febbraio del 1947, dove i ferrovieri comunisti, dopo aver fermato il convoglio in stazione, impedirono ai profughi di scendere e alle associazioni caritatevoli di fornire loro il necessario vettovagliamento. Idem, pagg. 189-190.

[44] R. Pupo, 10 febbraio, Giorno del ricordo, in A. Portelli (a cura di), Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Roma, Donzelli 2017, pag. 30.

[45] Come dimostrano i lavori di Ennio Maserati, Galliano Fogar, Mario Pacor, Teodoro Sala, Elio Apih, che già dai primi anni Sessanta produssero lavori di alto valore scientifico, nonché la corposa ricerca avviata dall’Istituto friulano negli anni Settanta e che concluse i suoi lavori nel 1980 con la pubblicazione di Storia di un esodo. Istria 1945-1956.

[46] Cfr. J. Pirjevec, 2009 pagg. 147-152.

[47] Pirjevec parla di una sorta di gentlemen’s agreement, J. Pirjevec 2009, pag. 149.

[48] Cfr. G. C. Bertuzzi, Resistenza italiana e movimento di liberazione sloveno e croato nella Venezia Giulia, in AA. VV., Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[49] Cfr. E. Gobetti, E allora le foibe? Laterza, Roma-Bari 2021, par. 9.

[50] G. Crainz, Il difficile confronto fra memorie divise, in G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici, 2009, pagg. 188-189.

[51] Come scrive Gloria Nemec: «ciò che recuperiamo dalla memoria non è acqua lustrale, sorgente pura alla quale attingiamo solo noi e per la prima volta. Lungi dal conservarsi indenni, in una condizione d’isolamento asettico, le memorie individuali sono state oggetto di molteplici interventi e scambi, di frequenti rivisitazioni e ridefinizioni che ne hanno favorito la trasmissione e quantificato il grado di coinvolgimento nelle diverse politiche della memoria», in G. Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, LEG, Gorizia 1998, pag. 11.

[52] Il riferimento è, ovviamente, a B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 2009 (1983).

[53] E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Udine, Del Bianco 1997, pagg. 184-186.

[54] Citazione tratta da R. Spazzali, Memoria e storia dell’esodo, in E. Miletto (a cura di), Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Edizioni Seb, Torino 2012, pag. 40.

[55] Ballinger, 2010.

[56] Ballinger, 2010, pagg. 87-117.

[57] Ballinger, 2010, pag. 88.

[58] Ballinger, 2010, pag. 230.

[59] Ballinger, 2010, pag. 237.

[60] Ballinger, 2010, pag. 249.

[61] P. Audenino, La casa perduta. La memoria dei profughi nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2015, pag. 160.

[62] Il resto del Carlino Modena», 9 febbraio 2007, in M. Orlic, Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi, Viella, Roma 2023, pag. 183.

[63] Ballinger, 2010 p. 268.

[64] T. Catalan, Linguaggi e stereotipi dell’antislavismo irredentista dalla fine dell’Ottocento alla Grande Guerra, in T. Catalan (a cura di), Fratelli al massacro. Linguaggi e narrazioni della Prima guerra mondiale, Viella, Roma 2015, p. 41.

[65] Cfr. R. Pupo-R. Spazzali, 2003 pp. 110-112.

[66] Pupo, Spazzali, 2003 pag. 111 e Audenino, 2015 pag. 109: «la costruzione di una identità collettiva e di una memoria condivisa dai profughi si riallaccia direttamente alla sponsorizzazione politica offerta dai partiti neofascisti, che hanno fatto della difesa di questo gruppo una componente rilevante del loro discorso nazionalista».

[67] Cfr. M. Orlić, Se la memoria (non) mi inganna… L’Italia e il “confine orientale”: riflessioni sulla storia e sul suo uso pubblico, in “Acta Histriae”, 3, 2015.

[68] M. Orlić, 2023 pag. 193.

[69] Cfr. sulla questione il Vademecum per il giorno del ricordo, a cura dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia, e P. Purini 2010, in particolare le pagg. 228-235.

[70] Pupo, 2021.

[71] Cfr. F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013.

[72] A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011, pagg. 207-208.

[73] Cfr. F. Focardi, Introduzione a Memorie di confine. L’Alto Adriatico fra rinazionalizzazione ed europeizzazione, in “Italia contemporanea”, 298, 2022, pag. 185.

[74] Per una lettura critica, vedi L. Cajani, Storia, memorie e diritto penale: il caso dell’Unione Europea, in F. Focardi-B. Groppo (a cura di), Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, Viella, Roma 2013.

[75] Cfr. P. Lagrou, L’Europa come luogo di memoria comune? Riflessioni su vittimizzazione, identità ed emancipazione dal passato, in F. Focardi-B. Groppo 2013.

[76] Pupo, 2021, pag. 307.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Memorie contese: il 10 febbraio
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Numero della rivista: n.22, dicembre 2024
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Memorie contese: il 10 febbraio, Novecento.org, n.22, dicembre 2024.

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