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Ricordo di Antonino Criscione

Ricordo di Antonino Criscione

Ideatore di novecento.org e primo Webmaster della rivista, Antonino Criscione si è spento il 18 settembre 2004.

Nato a Modica nel 1950, ha vissuto e lavorato a Milano come insegnante nelle scuole superiori dal 1977, impegnandosi nella ricerca storiografica e didattica e nei problemi formativi; i suoi interessi si sono poi sviluppati in direzione del rapporto fra insegnamento/apprendimento e nuove tecnologie, tema che ha coltivato con grande apertura alle questioni di impianto epistemologico. Ha collaborato con l’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio e poi, come insegnante comandato, con l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, della cui Commissione per la Formazione è stato membro attivo fino alla fine .

 I suoi interessi molteplici si sono concretizzati in numerose pubblicazioni e nella partecipazione a molte iniziative pubbliche.

Antonino Criscione ci ha lasciati e subito, acuto, ne abbiamo sentito il rimpianto. Dell’amico, del compagno di lavoro e di speranze. Della sua lucida e serena capacità di andare al cuore delle questioni, della sua ironia siciliana leggera e profonda, del suo modo di combattere battaglie di civiltà senza rabbia ma con ferma determinazione, usando l’arma dell’intelligenza colta e della ricerca di senso. Ci manca la sua meditata esperienza nelle nuove tecnologie, la sua generosità non ostentata nel risolvere problemi informatici in cui molti di noi si sono affannati con l’ansia del neofita. Ci manca la sicurezza che sapeva darci nella gestione delle risorse telematiche, www.novecento.org prima di tutto. Ci resta quanto ha dato, ci restano le idee che ci ha comunicato e che non lasceremo dimenticare.

E, nel suo ricordo, siamo vicini a Cettina ed a Francesco, la sua bella famiglia, con affetto.

Offriamo qui, non alla sua memoria, ma alla nostra riflessione, un articolo che scrisse un po’ di tempo fa e che tocca i punti centrali del nostro discorso con lui. Altro ha fatto, ma di lui altri diranno.

Aurora Delmonaco

 

Il sito https://www.novecento.org/

Per una comunità virtuale di docenti-ricercatori di storia

di Antonino Criscione

Il sito https://www.novecento.org/ è nato nel 1999 per iniziativa della Commissione didattica dell’Insmli, che coordina le attività svolte in questo settore dei 62 Istituti di storia della Resistenza. Il sito nasce come “rivista telematica” di didattica della storia del Novecento, anche se la sua evoluzione successiva ha oscillato tra questa caratterizzazione iniziale e l’essere una sorta di centro di risorse su questi temi, al quale gli insegnanti possono attingere per il loro lavoro. In questa doppia veste esso rappresenta la proiezione sul Web della riflessione e delle iniziative messe in campo da una rete di gruppi di lavoro e di attività relative alla didattica della storia, coordinata dalla Commissione didattica degli Istituti a partire dalla fine degli anni ’70. Punto di partenza di questa elaborazione e di questa rete è stato il Convegno su “L’insegnamento dell’antifascismo e della Resistenza: didattica e fonti orali”, organizzato da Insmli, Università e Comune di Venezia il 12-15 febbraio 1981, con relazioni e interventi di Guido Quazza, Luisa Passerini, Ivo Mattozzi, Peppino Ortoleva, Scipione Guarracino, David Ellwood, e altri, e i cui atti vennero pubblicati da Marsilio nel 1982 con il titolo La storia: fonti orali nella scuola. In questo Convegno sono confluiti vari filoni di ricerca e di elaborazione maturati negli anni precedenti nella rete degli Istituti, da questo Convegno sono partite molte iniziative che nel corso del tempo hanno prodotto esperienze e innovazione nel campo della didattica della storia in Italia. Nel 1983 si costituì a Bologna il Laboratorio nazionale di didattica della storia, un Istituto della rete dedicato a questi temi. Attualmente l’Insmli e il Landis sono agenzie di formazione accreditate presso il Ministero dell’Istruzione. Nel corso di questi 4 anni il sito ha seguito e documentato il dibattito sull’insegnamento/apprendimento della storia e sulle proposte di nuovi curricula, ha pubblicato interventi di storici e di insegnanti, è diventato in qualche modo un punto di riferimento del dibattito sui temi della didattica della storia del Novecento.

Un chiarimento va fatto riguardo a due termini presenti nel titolo di questa comunicazione: che cosa si intende per “comunità virtuale”?; che cosa si intende per “docente-ricercatore” di storia? Il termine e il concetto di “comunità” costituiscono un tema classico di discussione nelle scienze sociali, nella filosofia politica, nella storiografia. A questo dibattito faccio riferimento senza entrare nel merito per ragioni di tempo e di competenza. Mi limito qui a sottolineare come l’avvento e l’espansione di Internet abbiano in qualche modo riattualizzato e trasformato questo dibattito nel momento in cui hanno prospettato un’idea di “comunità” priva di alcuni dei suoi riferimenti tradizionali come il legame con un luogo, dei confini fisici, un territorio e le connesse “radici”. La “comunità” di cui stiamo parlando si caratterizza per il suo essere sganciata dall’appartenenza a un luogo, per il suo essere incentrata sulla comunanza di interessi, per il suo essere “virtuale”. Qui “virtuale” non sta per l’opposto di “reale”, ma indica un’altra modalità del reale, e precisamente il suo aspetto di “potenza”, “virtus”, “dynamis”. Howard Rheingold, in un libro del 1993 che può essere considerato un classico su questo argomento (Howard Rheingold, Comunità virtuali, Milano, Sperling & Kupfer, 1994), afferma che una “comunità virtuale” rappresenta un nuovo modello di socialità. Essa si costruisce attorno a tre “beni collettivi”: a) un capitale sociale, e cioe la fiducia reciproca tra i suoi componenti; b) un capitale di conoscenze su determinati aspetti del sapere, sui quali insistono le competenze e gli interessi di che ne fa parte; c) un’interazione intensa tra i suoi membri, fondata su relazioni di tipo simmetrico. A questi elementi si connette l’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione che per molti aspetti giocano in queste comunità un ruolo fondativo: esse da una parte rendono possibile la loro esistenza e dall’altra ne condizionano vita ed esiti per gli elementi che caratterizzano la comunicazione mediata dal computer. Una “comunità virtuale” è dunque una realtà particolare e di non facile costruzione. Essa per vivere ha bisogno di essere immaginata, ha bisogno cioè di esistere nella mente dei suoi componenti cosi come la nazione per esistere deve prima esistere nelle menti dei cittadini.

Per definire chi siano i “docenti-ricercatori” di storia occorre chiarire che qui si fa riferimento alla ricerca didattica, che è cosa diversa dalla ricerca scientifica. Essa infatti ha come oggetto le attività di mediazione didattica che governano i rapporti tra tre entità distinte: l´insegnante di storia; le conoscenze e le concettualizzazioni prodotte dalla storiografia; i bisogni di conoscenza e di formazione presenti tra gli studenti. L`insegnante-ricercatore di storia e prima di tutto uno specialista dell’apprendimento; lo specifico del suo lavoro consiste nello sperimentare strategie efficaci per la promozione di conoscenze e competenze proprie del sapere storico. Più che la “didattica” della storia, e cioè che cosa e come insegnare, a questo tipo di insegnante interessa la “matetica” della storia, e cioè che cosa sia l’apprendimento di storia, quali operazioni lo possano favorire, quali strutture e quali regole della disciplina siano principalmente coinvolte in queste operazioni, etc. L`insegnante-ricercatore di storia assume come punto di partenza e riferimento costante del suo lavoro la crisi evidente del paradigma didattico che ha plasmato per più di un secolo contenuti e metodi dell’insegnamento/apprendimento della storia. Tale paradigma indicava come scopo dell’insegnamento della storia la formazione dei cittadini (o dei sudditi, a seconda dei casi) dello stato-nazione, come compito dell’insegnante di storia quello di trasmettere la storia e la memoria condivise della nazione, come compito degli studenti quello di aderire alle verità scientifiche trasmesse dall’insegnante e di dimostrare tale adesione riproducendole. Le ragioni per cui questo paradigma è entrato in crisi sono varie, mi limito a citarne tre: a) il divorzio dalla storiografia, e cioè il fatto che questo paradigma non ha più molti rapporti con la storiografia, i suoi metodi, i suoi risultati. La storiografia alla quale esso faceva riferimento non c’è più; b) il divorzio dai destinatari, e cioè il fatto che questo paradigma didattico non è in grado di confrontarsi con bisogni e aspettative di conoscenza presenti tra gli studenti; c) il divorzio dagli insegnanti, e cioè il fatto che esso, nella scuola di massa, non è in grado di offrire soluzioni ai problemi che qualunque insegnante di storia si pone e che riguardano la validità e l´efficacia dell’apprendimento. E ciò accade in quanto questo paradigma è essenzialmente un discorso sull’insegnamento e non si pone il problema dell’apprendimento se non come verifica dei suoi risultati.

In uno dei pochi tentativi finora fatti di analisi del dibattito svoltosi negli ultimi anni su questi temi nel nostro paese Fabio Fiore ha proposto uno schema di lettura che individua due modi di reagire alla crisi della scuola e alla crisi della storia nella scuola: il “partito della resistenza” e il “partito della rincorsa” (Fabio Fiore, Rincorrere o resistere? Sulla crisi della scuola e gli usi della storia, in “Passato e presente, a. XIX, 2001, n. 52, pp. 97-115). Da una parte vi sarebbe una visione catastrofista della crisi, il rifiuto di ogni novità, la percezione dei giovani come entità impenetrabile ed estranea alla cultura storica, la nostalgia per un’idea forte, prescrittiva, scientista della disciplina; dall’altra parte vi sarebbe un’idea della crisi come sfida, e quindi rischio e opportunità, una forte spinta verso il cambiamento, l’accettazione a volte acritica delle nuove tecnologie, l’attenzione rivolta prevalentemente ai metodi e non ai contenuti. Il saggio di Fiore esce su “Passato e presente” del gennaio 2001, io credo che oggi, alla luce dello scontro verificatosi sulla questione del curricolo De Mauro tra gennaio e marzo 2001 e di ciò che è accaduto in questi due anni, possiamo riformulare questo schema. A me sembra che la divisione principale si possa riscontrare tra due prospettive: la prima ritiene che il problema stia dal lato della offerta di storia, la seconda ritiene invece che la crisi stia dal lato della domanda di storia. Secondo quest’ultima impostazione del problema la crisi della storia nella scuola nascerebbe dal fatto che le trasformazioni sociali e culturali in corso hanno determinato un progressivo disinteresse dei giovani per la storia. Ci troveremmo insomma, come afferma Paolo Prodi su “Il Mulino” del marzo 2001, di fronte ad un “rifiuto della storia” da parte delle nuove generazioni (Paolo Prodi, Insegnamento e funzione sociale della storia, in “Il Mulino”, 3/2991, a. L, n. 395, pp. 551-557). Da questa prospettiva non possono nascere soluzioni diverse dal riproporre le condizioni che hanno fatto nascere il problema oppure dall’auspicare una decisa svolta in favore di una forte selezione, soprattutto nella scuola superiore. Gli insegnanti-ricercatori di storia sembrano più orientati a prendere in considerazione l’altra prospettiva, e cioè quella che ritiene che la radice della crisi stia dal lato dell’offerta di storia. Secondo questo punto di vista la questione si pone nei seguenti termini: che cosa può offrire la scuola in termini di conoscenze, di cultura storica, di formazione al “pensare storicamente” alle attuali generazioni di studenti in un’epoca di grandi trasformazioni sociali, culturali, politiche? In questo quadro gli insegnanti-ricercatori di storia considerano le nuove tecnologie una possibile risorsa per l’innovazione e per l´efficacia del loro lavoro.

Per chi lavora a contatto diretto con gli studenti non risulta molto convincente l’immagine di nuove generazioni in fuga dalla dimensione storica e dalla dimensione collettiva della cittadinanza, in preda a sordità storica, non interessati a considerare lo spessore temporale del presente e la presenza in esso del passato. Si tratta di un’idea del rapporto tra giovani e storia che coglie alcuni aspetti della realtà ma ne trascura altri e che diventa fonte di equivoci se adottata come chiave di lettura esaustiva. A questo proposito io credo che si possano fare due osservazioni: a) la prima, di carattere generale, e che questa idea del “rifiuto della storia” da parte delle nuove generazioni sembra avere forti analogie con un altra idea che, sempre a proposito delle nuove generazioni, ha goduto in questi anni di largo credito, e cioè l’idea del “rifiuto della politica”. Quattro anni fa un libro della casa editrice de “Il Sole 24ore”, dedicato ai giovani e curato da Ilvo Diamanti si intitolava, e non a caso, “La generazione invisibile”. Nel saggio introduttivo il curatore poneva ad un certo punto una questione cruciale: “[…] il distacco che essi esprimono nei confronti della politica sottende davvero un atteggiamento di rifiuto, oppure segnala un diverso significato attribuito a questo concetto?” (pg.23). Nella ricerca IARD del 2000, pubblicata nel 2002 da Il Mulino, l’analisi delle varie forme di associazionismo giovanile portava gli autori ad affermare: “sembra corretto affermare che il protagonismo giovanile non è oggi assente dallo spazio pubblico; piuttosto si può dire che è sempre meno incanalato nella sfera della politica in senso tradizionale” (pg. 455). Chi volesse insistere sul “rifiuto della politica” da parte dei giovani dovrebbe oggi spiegare da quale pianeta siano venuti molti dei protagonisti delle manifestazioni che, a partire da Genova nel luglio 2001, hanno animato la cronaca italiana in questi ultimi due anni.; b) la seconda osservazione ha un carattere più circoscritto e riguarda vari tentativi svolti nel corso degli ultimi anni di studiare, attraverso indagini di vario tipo, il rapporto tra giovani e storia. Tra queste va ricordata la ricerca su “Giovani e storia” promossa dalla Koerber Stiftung di Amburgo, i cui risultati sono stati pubblicati nel 1997 (Magne Anvik, Bodo con Borries (eds), Youth and History. A Comparative European Survey on Historical Consciouness and Political Attitudes among Adolescents, Koerber Stiftung edition, Hamburg, 1997). Questa ricerca ha coinvolto ventisette paesi europei, oltre a Turchia, Israele, Palestina. Sono stati intervistati attraverso un questionario 32.000 studenti di quindici anni e 1250 insegnanti. Il campione italiano era costituito da 62 scuole con 1288 questionari restituiti. Il quadro che emerge da queste e altre ricerche di minore rilievo quantitativo e di diverso impianto metodologico non sembra confermare l’immagine di un netto “rifiuto della storia” da parte degli studenti. Si evidenzia piuttosto un quadro complesso e frastagliato, nel quale coesistono tendenze contraddittorie e si riflettono gli effetti di un’accelerazione sensibile di processi storici di grande rilievo in atto nel corso dell’ultimo decennio.

Con l´avvento del governo di centro-destra sono cambiate molte delle carte in tavola anche per quanto riguarda le questioni di cui stiamo discutendo. Alle due prospettive di analisi dei problemi della storia nella scuola sopra riportate se ne è affiancata una terza, che si può tranquillamente ricavare dai documenti prodotti in sede di Indicazioni per i nuovi programmi di storia per la scuola di base. Essi, come tutti i documenti di questo genere, hanno un valore di “segnale politico” lanciato al mondo della scuola e, in qualche misura, indicano una sorta di “canone delle conoscenze” ritenute indispensabili per lo studente. Predomina qui una concezione dell’insegnamento/apprendimento della storia guidata da finalità di tipo identitario. L´identità, che è una realtà complessa ed è sempre il risultato del rapporto con l’altro-da-sé, viene vista secondo un modello che ne privilegia i tratti di autoreferenzialità e di esclusione. La dimensione planetaria della storia e del mondo nei rapporti sociali, economici, culturali, non è oggetto di attenzione e/o di studio: basti pensare che tra i contenuti del programma di storia indicati per l’ultimo anno della scuola di base mancano sia il colonialismo sia la decolonizzazione. Per non parlare poi dell’assenza da questi contenuti di argomenti “classici” come l’industrializzazione e/o la modernizzazione: lo studente che uscirà dalla futura scuola di base per andare a lavorare non riceverà dalla scuola alcuna informazione in merito a ciò che è stata ed è l’industria per la società in cui vive e cerca lavoro. Il fascismo scompare, sostituito dal tema dei “totalitarismi”. Stando a quanto dichiarato a questo proposito dal Presidente del Consiglio nel suo messaggio in occasione della Giornata della Memoria del gennaio 2003, possiamo essere certi che i totalitarismi del Novecento certificati dal nostro Governo sono due: il nazismo e il comunismo. Se ne può dedurre che il fascismo non è mai esistito, e che sicuramente esso non esiste per quanto riguarda l’insegnamento della storia nella scuola di base. Si avvera quanto previsto da Emilio Gentile nella prefazione al suo libro Fascismo. Storia e interpretazione, Bari, Laterza, 2002 “Qualche studioso ha proposto di mettere al bando dalla comunità scientifica il concetto di “fascismo”, perché non avrebbe alcun significato preciso, corrispondente a un fenomeno storico reale. Con lo stesso argomento, altri studiosi hanno chiesto l’adozione di un eguale provvedimento per il concetto di “totalitarismo”. […] Non è da escludere, se dovesse diffondersi questa tendenza, che in un futuro prossimo sentiremo qualche storico o politologo revisionista, postmodernista o decostruzionista, venirci a dire che neppure il fascismo è mai esistito.” (pp. VI-VII). Diversamente da quanto previsto da Gentile l’autore di questa negazione non è un maligno storico decostruzionista ma la massima autorità politica del Paese che del Fascismo è stata la culla.

La linea di ricerca che prima abbiamo definito come relativa alla “offerta di storia” ha coinvolto nel corso degli ultimi venti anni un discreto numero di insegnanti di storia. Sono nate varie forme di aggregazione e di scambio nelle scuole, nelle associazioni disciplinari, attorno ad alcuni Istituti di storia della Resistenza. Internet può oggi essere considerato uno dei nuovi territori in cui questi rapporti e queste aggregazioni nascono e si sviluppano. In questo quadro può essere considerato il ruolo di diffusori di materiali e proposte, oltre che di luoghi di scambio e interazione, svolto da alcuni siti di didattica della storia come https://www.novecento.org. Non è da escludere che nei prossimi mesi o anni possiamo assistere alla nascita di “comunità virtuali” di insegnanti-ricercatori di storia, cosa che porrà in termini radicalmente nuovi la questione della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti di storia. Su questa prospettiva può essere interessante quanto dice Rheingold: “Anche se le immagini spaziali e il concetto di luogo sono utili metafore della vita in una comunità virtuale, le immagini della biologia sono pero più calzanti per descrivere l’evoluzione della cybercultura. Il cyberspazio può essere concepito come una coltura batterica, la Rete come il terreno di coltura e le diverse comunità virtuali come le colonie di microrganismi che si moltiplicano nella coltura. Ognuna di queste piccole colonie-comunità e un esperimento sociale in corso, anche se nessuno scienziato l’ha predisposto” (pg. 6). Le metafore biologiche sembrano essere più adeguate delle metafore tradizionali, prevalentemente ispirate alla meccanica o all’idraulica, a rappresentare i processi in corso nell’ambito della formazione degli insegnanti e della diffusione dell’innovazione su larga scala. Ovviamente tutto dipende anche dalle variabili di contesto e dalla misura in cui esse possono incidere in senso positivo o negativo, soprattutto quando diffondono attorno a sé un vago sentore di censura e/o di minaccia, come nel caso delle interviste e delle sortite dell’on. Garagnani.

Permettetemi di chiudere con una citazione da L’uomo senza qualità di Robert Musil, che dedico agli insegnanti-ricercatori di storia: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è. […] Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a un’esperienza reale o a una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i loro devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione”
(Einaudi 1972, pg. 12).