Dittature e Cinema
Mussolini e Hitler: il cinema d’intrattenimento come strumento bellico per le coscienze.
Fin troppo ambizioso era il piano politico di Mussolini e Hitler per rinunciare proprio all’arte come arma, non contro i nemici, ma verso i propri connazionali. La nascita della nuova Italia per il Duce e della nuova Germania per Hitler avrebbe dovuto prima di tutto fare i conti con le coscienze dei due popoli, considerati gli impulsi caustici e repressivi alla base di entrambe le ideologie. Senza il popolo dalla loro parte, che speranze di riuscire avrebbero mai potuto avere i due dittatori? Il popolo stabilisce chi deve governare e da ciò dipende la durata di un governo, anche se autarchia, anche se per questo ha predisposto tutti gli strumenti più idonei per far sì che non s’incuneino nel medesimo processo autarchico impedimenti di sorta. Il popolo può ribellarsi e rovesciare anche il governo più potente. E a parte ciò, un complice volontario rende il processo politico più interessante agli occhi del dittatore, perché lo avalla, alimentando la dinamo dell’ideologia. Più adepti disposti circoscrivono i reticenti lasciandoli da soli; i volontari compiaciuti diventano lo strumento di repressione aizzato dal dittatore contro i ribelli. Dunque, se alla base di tutto c’é il corpo di una dittatura, con i suoi piani davanti al popolo, non può essere omesso dal despota il presupposto per cui quel popolo giunge a quel crocevia portando con sé importanti retaggi, provenienti dalla sua storia, dalla religione, dai precedenti governi, etc. Una trama di pieghe talmente radicata nelle rispettive coscienze nazionali, da rendersi necessario, mentre si procede verso i nuovi orizzonti imposti, uno strumento indolore ed efficace, che giorno dopo giorno spinga quei popoli alla radicale rinuncia di ogni premessa. Come, per intenderci, fa il ferro da stiro su un lenzuolo: tabula rasa col vapore di “false” pieghe, per crearne di nuove. Così la propaganda nazifascista attraverso il cinema è riuscita nell’arco di pochi anni in Germania e in Italia non solo a imporre nuovi orizzonti di pensiero, ma anche a superare se stessa, cangiando percorsi e tattiche, sagomandosi ai nuovi assetti: edulcorare l’evidenza delle precedenti menzogne nei discorsi del dittatore e nei film, che vendevano al popolo l’immagine di nazioni invincibili, contraddette presto dagli alleati. In Italia e in Germania i percorsi perseguiti dalla propaganda nel cinema furono piuttosto differenti, poiché difforme era il sostrato culturale di riferimento.
Il modello fascista
Il giornalista Luigi Freddi, uomo politico, noto come vicesegretario dei Fasci italiani nella seconda metà degli anni Trenta e all’inizio degli anni Quaranta, è uno degli uomini di rilievo che ci aiutano a capire il ruolo di condizionamento del Regime nel cinema. Andrà persino a Hollywood pur di attingere indizi possibili d’azione da instillare nel tessuto italiano. L’idea di Freddi era un organismo unico, cui facessero capo tutte le attività cinematografiche di regime, con autorità e competenze indiscusse per controllare, premiare o punire, tutte le forme e tutte le manifestazioni. Tuttavia, per una riorganizzazione radicale di tutti i settori dell’industria cinematografica, bisogna attendere il 1934 quando, proprio in questa data, la linea di Freddi è incoraggiata dal trasferimento al Ministero per la Stampa e Propaganda del controllo di tutte le attività cinematografiche, con la creazione di un organo disciplinatore: la Direzione Generale per la Cinematografia (DGC). Il regime incomincia a far pressione sulle stesse produzioni cinematografiche ma Freddi subisce un brusco contraccolpo non appena Dino Alfieri si avvicenda alla guida del Ministero per la Stampa e Propaganda che si chiama MinCulPop. Costui, giunto al ministero, emanerà una legge (1939) portavoce di una corrente di pensiero totalmente contraria (ben presto affiancata da Mussolini stesso) a quella di Luigi Freddi, opponendosi categoricamente a un’intromissione diretta dello Stato nel processo d’ideazione, produzione, distribuzione dei film, in nome dell’arte, a suo dire, per sua stessa natura, bisognosa di una certa autonomia. Secondo Alfieri l’arte andava guidata non educata e se il fascismo si fosse riprodotto in quel ruolo di guida certamente gli artisti avrebbero cooperato, senza ripensamenti. Ciò che tutt’al più la Legge Alfieri si prefiggeva, era limitare (non bloccare) la distribuzione di film stranieri in Italia, premiando le produzioni cinematografiche nazionali, sostenendole anche economicamente, se necessario. I film americani giunsero così nel mercato italiano durante il fascismo, prima del conflitto, poiché servivano come mood activators, generatori di uno stato d’animo intorno al cinema, in un terreno culturale che ostentava sicurezza e disponibilità verso prodotti “alieni” in nome di un’idea del fascismo ben predisposto e consapevole in ambito culturale. Una lungimiranza, nella falsa benevolenza, che tuttavia permetterà al nostro cinema di svilupparsi – anche nel confronto con le differenti tendenze internazionali – come arte a tutti gli effetti, più libera che in Germania, con un suo grado di sperimentazione destinato a lungo a far parlare di sé.
Cinecittà e il nuovo cinema italiano
Tale cortina fumogena intorno al Regime doveva creare l’effetto di un miraggio entro una sceneggiatura ben orchestrata per un fascismo modernista antireazionario, tollerante davanti all’arte e al passo con il progresso e le migliori tecnologie; necessarie anche alla buona riuscita degli esiti cinematografici, con soggetti poetici e melodrammatici da costruire anche in sedi idonee all’avanguardia proposte ai registi dal Regime stesso. Ancora Freddi è personaggio chiave, poiché a Hollywood si era appassionato non solo all’idea del cinema come “industria”, ma anche nei suoi aspetti empirici legati alla produzione. Appunto, questo fu il primo passo verso la ricerca dei capitali, impegnandosi nella promozione del cinema nazionale, per sostenere le grandi produzioni di quegli anni, Scipione l’Africano di Carmine Gallone (1937) e Luciano Serra Pilota di Goffredo Alessandrini (1938). La Direzione della cinematografia costituì l’ENIC (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche) che concentrò risorse ingenti per la creazione dei teatri di posa di Cinecittà i cui studi cinematografici dovevano essere epifania di un’industria propagandistica del cinema fascista. Con la misteriosa vicenda dell’incendio degli studi della Cines nella notte del 26 settembre 1935, la piccola casa cinematografica di via Veio a Roma, si apriva la strada anelata dall’ENIC. Freddi appunto, inteso a «provvedere e prevenire i tempi nuovi», ne approfittò: individuata, in piena campagna romana, sulla Tuscolana, un’area di cinquecentomila metri quadrati, v’impose la realizzazione della nuova città del cinema. La zona, che in passato era stata latifondo dell’aristocrazia laziale, si chiamava Località Cecafumo, dal precedente uso per lo smaltimento dei rifiuti della Capitale dati alle fiamme. All’architetto Gino Peressutti fu affidata la realizzazione dei primi dodici teatri di posa, ma non finiva lì. Oltre ad essi si provvide alla creazione di un centro industriale cinematografico integrato che comprendeva stabilimenti di sviluppo, stampa e montaggio, la nuova sede dell’Istituto Luce e quella del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il 28 aprile 1937, Mussolini inaugurò i nuovi stabilimenti del Quadraro. Allo stesso anno risalgono diciassette produzioni tra cui Il feroce saladino di Mario Bonnard, dall’omonimo celebre concorso di figurine della Perugina. Nel 1940 furono quarantotto i film ivi girati. Nel 1942 i film furono cinquantanove. Nel 1943 invece a causa della guerra la produzione di pellicole non superò le venti. Un dissesto che ne provocò uno peggiore: i circa mille dipendenti di Cinecittà furono licenziati. Non era la morte del cinema fascista, ma il suo trasferimento a Venezia, nei padiglioni della Biennale presso i Giardini di Castello e alla Giudecca (Cinevillaggio). Per mano nazista Cinecittà invece si trasformava in un campo di concentramento per civili e prigionieri politici in transito, e di ricovero a fine conflitto.
Il modello nazista
Se in Italia, come visto, occorrono anni perché il principio di un cinema di stato si assesti, con alti e bassi, e spesso in mezzo a polemiche, in Germania invece l’azione del Regime è immediata e poggia su una strategia ben articolata, prevedendo fin dal principio che gli aiuti finanziari alle case produttrici siano assegnati secondo criteri politici. Gli effetti non si avranno nell’immediato, ma nel dopoguerra, quando la Germania distrutta si renderà anche conto di non aver alle spalle (a differenza dell’Italia) che miserrime produzioni in confronto alle più straordinarie di un’intera epoca, precedente a Hitler. Un imbarazzo che nel 1950 fungerà da propulsore, con l’organizzazione del Festival del Cinema di Berlino (Berlinale), avente proprio lo scopo politico di riassestare la Germania tra le nazioni che avevano dato de facto un contributo fondamentale al cinema europeo, prima della parentesi nazista. Più che in Italia, anche se fu Mussolini a dire “il cinema è l’arma più forte”, proprio in Germania fu conferita massima evidenza alla settima arte, come strumento in funzione della germanizzazione del popolo, a tutti i costi. Il cinema secondo Goebbels, il Ministro della Propaganda nazista, influenza il pubblico, è una potente arma politica, il cui effetto pedagogico va oltre ogni attesa. Che cos’è il cinema in fondo, se non la fabbrica dei sogni? La gente lo ama perché il cinema permette l’incantesimo delle emozioni, lontano da tutti i problemi e i disagi del quotidiano, al buio, di fronte a un grande schermo che ci dice ciò che vorremmo sentirci dire. Quale occasione migliore per far passare attraverso il sogno, nascosto in esso, quello dell’ideale nazista? Su questi presupposti poggiava la serie di strategie atte a attrarre nel fulcro del Ministero di Goebbels le produzioni cinematografiche tedesche. Per prima cosa, in perfetta coerenza col programma razziale, furono gettati fuori dal mondo del cinema tutti gli ebrei, anche se – per buona parte produttori – possedevano mezzi finanziari. Un gesto aspramente criticato da Freddi, che vedeva nel rigore verso il cinema da parte dei nazisti un altro modello: “La violenta azione contro gli ebrei ha scombussolato profondamente tutto il sistema economico, sottraendo alle possibilità di produzione e di sfruttamento i quadri migliori e i legami più redditizi”. Quel che Freddi non aveva capito, era proprio il senso differente tra il nazismo e il suo cinema, rispetto al fascismo. Nel cinema fascista furono impiegati, dal regime, amanti della settima arte; in Germania burocrati, intesi a far quadrare il “credo”. In Germania nei primi anni della guerra (1940 – 1942) si costruì addirittura una congiuntura favorevole alla nascita di un genere cinematografico con tematiche attuali e una forma stilistica avvincente. Senza badare ai costi ingenti di programmazione e realizzazione dei film. Negli ultimi anni di guerra invece aumentano i cosiddetti “Zeitnahe-Filme” che avevano avuto un grande sviluppo nel periodo precedente e non lo avranno anche nel periodo postbellico. In Italia invece, alla luce di quanto si è già detto, il cinema pur ricevendo molte pressioni in epoca fascista riuscirà a vivere fino in fondo il proprio destino, tanto che molti dei registi considerati a torto “di regime” avranno una parabola artistica nel dopo fascismo fortunata, lasciando come Roberto Rossellini un segno nella storia della settima arte. Hitler per mano di Goebbels procede alla creazione di una Reichskulturkammer, per inquadrare arti e artisti all’interno di un progetto culturale di marca nazista. Se si vuole lavorare, se si è artisti intesi a operare, occorrerà procedere alle iscrizioni nella lista dei Kulturschaffender (“operatori culturali”). Sarà fondato addirittura un istituto di credito allo scopo di finanziare il cinema, la Filmkreditbank che avrà il compito di traghettare il cinema tedesco fuori dalla crisi. Da mediatore tra case di produzione e istituti bancari la Filmkreditbank finirà con l’accentrare su di sé le erogazioni. Ma il regime si spingerà pur oltre, progettando, così come si ebbe sotto Stalin in Unione Sovietica, la statalizzazione del cinema anche in Germania. Non dunque secondo il principio della confisca, quanto dell’acquisto sistematico delle case di produzione. Da un lato per far fronte alla crisi finanziaria, lo Stato sapeva di essere l’unica garanzia che l’industria cinematografica avesse per non rimanere schiacciata dalla crisi, ma dall’altro ciò era consono al progetto di accentramento delle produzioni nelle mani del regime. In sintesi esser garante dei profitti in qualità di proprietario. Quando Goebbels con un prestanome nel 1937 farà comprare al Regime l’UFA (Universum Film AG) si dà inizio alla inesorabile morte delle piccole case di produzione, spinte a fondersi con quelle più grandi. Con la scomparsa del pluralismo, si avrà un unico modo di intendere il cinema durante il nazismo, dunque solo le pellicole conformi all’ideologia del regime riescono ad ottenere dei finanziamenti e un pubblico. Per continuare a tenere sottocontrollo il settore, verranno istituiti organi di censura capillari. In Germania vi è dal 1934 la Lichtspielgesetz che introduce un sistema capillare di controllo sulle sceneggiature, sulla scelta degli attori da scritturare nonché sulle stesse colonne sonore. Su imitazione italiana, verrà inserito obbligatoriamente sul set dei film in lavorazione il Reichsfilmdramaturg con funzione di revisore dei film. In Italia Luigi Freddi aveva proposto la medesima figura, che sarà scarsamente considerata. A ben vedere comunque in entrambi i paesi vi era l’idea di una censura preventiva che chiudeva il cerchio dei rimandi, considerando quella in vigore anche in U.S.A. col Production Code attivo dal 1930 (fino al 1968).
Filmstudio Babelsberg
Speculari all’Italia, ma in forma ben più ridondante per motivi di prestigio e di antagonismo, saranno riadattati e modernizzati i teatri di posa a Babelsberg (Potsdam). Sono in verità i teatri di posa più vecchi del mondo e durante gli anni del Terzo Reich raggiunsero il culmine con produzioni importanti per il regime e la sua propaganda. Qui Goebbels fece produrre almeno cento film come Jud Süß (1940) o Stukas (1941). Lo studio cinematografico si estendeva su un’area di 25.000 m2, e nella zona occupata oggi c’è anche un parco a tema chiamato “Filmpark Babelsberg” cui sono solite attrazioni, talk show e stunts di vari artisti. La storia della fondazione risale al 1911, anno in cui la società Bioscop posò la prima pietra per la costruzione di un edificio dedito alla lavorazione di piccole produzioni cinematografiche. Il primo film ripreso al Babelsberg è datato febbraio 1912, ma non si sa nulla su esso poiché è andato perduto. Al termine della grande guerra, la Deutsche Bioscop Gesellschaft si fonde con la francese Eclair Decla e, i Babelsberg furono posti sotto il contratto Decla-Bioscop. Nel 1921, si scioglie il patto Decla-Bioscop ed entra come socio agli studi la neonata casa cinematografica Universum Film, che successivamente si occupò dell’allargamento edilizio con nuove aule e teatri di posa. Grazie ai miglioramenti apportati, nel 1926 allo studio fu offerto di coprire la lavorazione del film fantascientifico Metropolis di Fritz Lang. Nel 1929, gli studi saranno nuovamente oggetto di ampliamento, e viene costruito il primo laboratorio per il sonoro (Tonkreuz), cosa che permette la produzione del primo film con audio della storia cinematografica tedesca, Melodie des Herzens di Hanns Schwarz con Willy Fritsch. Quando Hitler salì al potere, affidando a Goebbels il Ministero della propaganda, impose il loro riutilizzo previo un ampliamento delle strutture, con aggiunta di nuove. La sua idea era quella di affidare alla regista di regime, Leni Riefenstahl, la direzione dei grandi teatri di posa, per poter trasformare i vecchi Studios nel fiore all’occhiello del Partito. I rapporti di reciproca intolleranza tra Goebbels e la Riefenstahl fecero naufragare il progetto della direzione: “Per quel che penso – disse la giovane regista a Hitler – Babelsberg servirebbe al cinema non a beghe di partito”.
Audiovisivi di riferimento
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Orientamento bibliografico:
S. Haffner, Hitler, appunti per una spiegazione, Garzanti, 1978.
E. Collotti, Nazismo e società tedesca, 1933-1945, Loescher, 1982.
E. Giudici, Riflessioni sulla cultura del periodo fascista, ICS, Roma, 1989
E. Collotti, Hitler e il nazismo, Giunti, 1994
G. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, 2004.
F. Dalla Pria, Dittatura e Immagine – Hitler e Mussolini nei Cinegiornali, Storia e Letteratura, Roma, 2012