Don Milani il sovversivo. Storia di una Lettera e del suo messaggio
By Lmagnolfi – Own work, CC BY-SA 4.0, Link
Abstract
Il libro di Vanessa Roghi La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Laterza 2017, è strumento essenziale ed utile a chi insegna oggi per comprendere, nella giusta prospettiva storica, il messaggio di don Milani. Vi si ripercorre la vicenda di Lettera a una professoressa dalla genesi alla fortuna critica, attraverso cinquant’anni di storia e di scuola italiana.
Esperienze pastorali, inchiesta sociale
Vanessa Roghi ci invita a leggere l’opera di don Milani in prospettiva storica, senza dare nulla per scontato. Per introdurci a questo compito, l’autrice ricostruisce la genesi dell’opera del priore di Barbiana, la sua formazione, il suo percorso biografico e culturale, la sua vicenda religiosa e spirituale, calata nella realtà duramente laica della sua sperduta parrocchia.
Intorno lui, tratteggia il quadro culturale della Firenze cattolica, con le sue peculiarità di “laboratorio politico fondamentale per il cattolicesimo italiano”; la Firenze di Giorgio La Pira, di Ernesto Balducci che fonda nel ’58 la rivista “Testimonianze”; la vicenda di un cattolicesimo che sceglie i poveri come campo di azione e di fede.
Sono gli anni di San Donato a Calenzano. Qui don Milani entra in contatto con la scuola popolare, con il mondo della religiosità paesana, con lo scollamento della società dalla Chiesa. Trova l’ispirazione per scrivere Esperienze pastorali, “l’autobiografia di un curato di campagna ma anche un’inchiesta sociale, uno studio sociologico, un’etnografia della pietà popolare” (p.29). Un libro talmente rivoluzionario da provocare la condanna del Sant’Uffizio. Fu una “gettata di lava incandescente”, come dice David Maria Turoldo. Un libro letto e meditato, nonostante la condanna, da molti preti e da tanti intellettuali, come testimoniano la recensione di Luciano Bianciardi e l’apprezzamento di Aldo Capitini.
Nel dicembre del 1954, don Milani sale a Barbiana, forse una punizione, in realtà una ripartenza.
Nel minuscolo e sperduto borgo montano non ci sono né luce né acqua, né strade decenti, né scuole. Nell’assenza di tutto, Milani analizza l’ambiente sociale e umano, riflette profondamente. Costruisce un nuovo modello di scuola, fondata sull’articolo 3 della Costituzione, che ribadisce la funzione dello Stato nel “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Qui ce ne sono, eccome, di ostacoli da rimuovere, e il primo, il più difficile è quello della lingua.
Don Milani e il professor De Mauro
Il verbo, la parola, il linguaggio sono il lievito per rimuovere gli ostacoli, per trasformare i parrocchiani in contadini di montagna, capaci di capire e di accogliere la parola divina scongiurandone una fede superstiziosa. Ma il priore vuole che in primis Il linguaggio li renda soprattutto in grado di usare la parola civile ed umana in modo da emanciparsi dai vincoli di una secolare minorità.
La questione della lingua viene delineata da Roghi nell’intreccio con gli studi pedagogici che cominciano a farsi strada, sin dai “programmi Ermini”, i primi dell’Italia repubblicana, e dalla successiva introduzione della scuola media unica nel 1963, che è perfettamente consapevole delle differenze tra il linguaggio dei figli della borghesia e quello dei figli dei poveri, ma non fornisce gli insegnanti degli strumenti per provare ad accorciare le distanze tra i ragazzi delle diverse estrazioni sociali.
In questo contesto, è essenziale, per don Milani, il doppio obiettivo di non azzerare la cultura contadina “imborghesendone i figli”, e di riconoscere a questa la sua profonda dignità: il problema, per lui, è quello di aggiungere stimoli culturali e linguistici senza sottrarre e svilire ciò che c’è già.
Nello stesso anno viene pubblicata per Laterza la Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, che pone prepotentemente il problema linguistico su un piano del tutto nuovo per i tempi, quello di una lingua che è viva e che non sottostà alla formula unica dei classici della letteratura, ma chiede di “riferirsi al linguaggio parlato come mezzo di controllo del patrimonio linguistico tradizionale”. Soprattutto, De Mauro mette con forza in rilievo il legame tra capacità di usare la lingua, scolarità e redditi. Considerazioni che oggi dovrebbero essere acquisite, allora vennero scambiate per comunismo. Un fatto che sottolinea, ancora una volta, come la questione della lingua risulti sempre sovversiva.
“Trovo l’ostacolo della lingua e alla lingua mi dedico, considerando la lingua tutti i problemi della scuola, da capo a fondo” dice Don Milani.
Una lettera scritta da ragazzi
Roghi tratteggia, poi, con passione e chiarezza, la vicenda umana ed intellettuale della scuola di Barbiana fino alla stesura della Lettera a una professoressa, della quale coglie la fiducia nella scuola, intesa come la “capacità degli insegnanti di andare oltre l’esperienza delle cose viste nelle strade, nelle case, nei boschi, trasformandole in conoscenza” (p.97). Questa Lettera viene indagata e analizzata, alla ricerca del suo messaggio essenziale, profondamente immerso nella sua realtà storica, sociale e culturale del tempo. Lettera che è frutto di una scrittura collettiva dei ragazzi di Barbiana, e non opera di don Milani, che pure ne è il profondo ispiratore. L‘autrice ne restituisce con rigore scientifico la paternità ai ragazzi. Da Mario Lodi, infatti, don Milani aveva appreso la tecnica della scrittura collettiva durante una breve stagione di contatti tra i ragazzi di Barbiana e quelli di Vho di Piadena.
L’Autrice continua tracciando la storia dell’eredità scomoda di un’opera, che, uscita nel ’67, poco prima della morte di don Milani, fu indelebilmente segnata da una lunga stagione di consensi, equivoci, distorsioni, strumentalizzazioni, tentativi di interpretazione, nel tumulto e nella complessità degli anni successivi. Ne esamina la fortuna, la critica anche internazionale, e il suo lungo viaggio fino a noi, che ne hanno prodotto visioni disparate e lo straniamento dal suo contesto. Fu accolta dai linguisti come un prontuario di indicazioni pratiche per una pedagogia linguistica democratica; dai professori come un vademecum per una scuola alternativa; dagli studenti come un viatico per la rivoluzione” (p.115). Dai nemici di qualsiasi riforma fu, al contrario, intesa come la causa prima della eccessiva democratizzazione e conseguente decadenza e distruzione della scuola, il motivo per cui non si studia più e soprattutto non si fa più grammatica, come scrivono Paola Mastrocola, Galli della Loggia ed altri. Secondo questi la scuola italiana non forma e non seleziona, ma come rileva Roghi, il loro assunto non prende atto dei dati cruciali relativi ai tassi di abbandono e ripetenze che, oggi come ieri, riguardano gli studenti provenienti da famiglie povere con bassi livelli d’istruzione.
Storia culturale e storia personale
Il libro di Vanessa Roghi tratta una materia difficile, terreno di scontro politico e intellettuale, con rigore storico e quella maestria narrativa che proviene all’autrice dalla sua attività di documentarista (suo il documentario prodotto dalla Rai Don Milani, il dovere di non obbedire, in onda su La Grande Storia di Rai Tre l’ 8 giugno 2017). Riflette lucidamente su un fenomeno culturale che ha cambiato le nostre vite, se, come ci fa notare, molti dei nostri nonni erano umili e forse analfabeti, mentre a noi è stato concesso il privilegio-diritto di accedere agli studi universitari.
Vi è, nel racconto dei fatti storici, un uso consapevole dell’esperienza personale, forse il ritorno ad una dimensione esistenziale: l’io che narra la storia, si fa storia per misurare sulla propria pelle gli effetti dei cambiamenti e delle persistenze. Singolare e accattivante elemento che ha determinato forse anche la scelta della prima presentazione del libro nella sua città natale, Grosseto, dove l’autrice, bambina, ha sperimentato quella scuola a tempo pieno, nata appunto dal tentativo di ridurre le distanze culturali di partenza e allineare i traguardi degli studenti.
Il potere delle parole
Questo libro ha il merito di far emergere l’attualità del dibattito sulla lingua. La lingua avvicina e fa i cittadini consapevoli. Ma è una lingua che muta e non è una cristallizzazione letteraria. È un qualcosa di vivo, che serve, certo, per scambiare idee, ma resta ancora il veicolo essenziale per imparare. È la lingua della scuola di Barbiana, quella che Mario Lodi insegna “tutto il tempo” e sulla quale il gruppo di ricercatori e insegnanti (GISCEL) riflette, con Tullio de Mauro, nelle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del 1975. http://www.giscel.it/?q=content/dieci-tesi-leducazione-linguistica-democratica
Quella lingua è il fondamentale strumento nella scuola di un obbligo, protratto fino a 16 anni ma non accompagnato da una riflessione didattica adeguata. Oggi ancora più necessaria nelle nostre classi, dove convivono ragazzi delle più varie estrazioni sociali, ragazzi che vengono da mondi diversi e geograficamente lontanissimi. Non parlano italiano, o, se lo fanno, non hanno gli strumenti per decifrare un testo di una qualsiasi materia. Leggono e scrivono, soprattutto sui social. Sanno usare il mezzo digitale, ma padroneggiano con difficoltà quello linguistico.
Il messaggio milaniano, dunque, è ancora scottante. Ma come rispondere? Non certo, utilizzando la Lettera come un libretto rosso, un feticcio da venerare o un totem da abbattere, ma intendendola come testimonianza collocata in una realtà storica. In questo modo, possiamo comprenderla a pieno e distillarne lo spirito, il succo: rimuovere gli ostacoli.
Vanessa Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Laterza 2017