Ernst Jünger, la guerra mondiale, il lavoro, la fotografia
Una mostra acquisita dall’Insmli
L’INSMLI di Milano ha ricevuto in donazione dalla casa editrice Mimesis di Milano i materiali che compongono la mostra La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger. La mostra consta di 70 pannelli (120×90 cm) oltre a 20 pannelli di carattere biografico legati alla vita e alle opere di Jünger che hanno lo scopo di offrire al visitatore alcuni punti di riferimento di carattere biografico e storico.
Questa esposizione ha visto la luce nel settembre 2007 nell’allestimento che ho curato insieme a Silvana Turzio all’interno della chiesa sconsacrata di San Carpoforo, da diversi anni utilizzata come suggestivo spazio espositivo e didattico dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Nella sua prima edizione la mostra è stata sostenuta dall’editore Mimesis, dall’Accademia di Belle Arti di Brera, dall’Università degli Studi di Bologna, dal Goethe-Institut Mailand. Negli anni successivi la mostra è stata allestita a Ravenna (Università degli Studi di Bologna), a Roma (Istituto Italiano di Studi Germanici di Villa Sciarra Wurts), a Verona (Centro Studi della Fondazione Campostrini) e a Roma (Università degli Studi di Roma III). Nell’aprile 2015 alcuni pannelli di immagini sono stati selezionati come materiale espositivo della mostra Figli di Marte. A b cdella guerra negli atlanti di Warburg, Jünger, Brecht a cura del Seminario Mnemosyne, tenutasi allo IUAV di Venezia (http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=2399) di cui è disponibile il catalogo on-line http://www.engramma.it/eOS2/index.php.
In occasione della prima edizione della mostra è stato pubblicato E. Jünger, E. Schultz, Die veranderte Welt. Eine Bilderfibel unserer Zeit, (Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo) ed. anastatica a c. e tr. it. di Maurizio Guerri, Mimesis, MetisPresses, Milano, Ginevra 2007 che – esaurito da tempo – sarà a breve ristampato in una nuova edizione da Mimesis.
L’idea di allestire una mostra dedicata a Ernst Jünger nasce dall’esigenza di portare alla luce un aspetto sostanzialmente dimenticato di una delle figure più ricche, significative e complesse della cultura europea del XX secolo. Anche grazie a questa mostra e alla pubblicazione del volume in lingua italiana, nell’arco di pochi anni, l’attenzione al tema degli aspetti di cultura visuale presenti nel pensiero di Jünger si è diffusa tra gli studiosi in Italia e in Europa.
Jünger, la Prima guerra mondiale e i “sillabari fotografici”
L’interesse di Jünger per lo sguardo fotografico attraversa le sue opere dagli anni Trenta fino agli ultimi scritti. In particolare, in alcune sezioni centrali di opere come L’operaio. Dominio e forma (1932) e Sul dolore (1934), Jünger dedica riflessioni di importanza fondamentale allo sguardo fotografico come “modo di guardare del Lavoratore”. Inoltre, tra il 1930 e il 1933 cura l’edizione di ben cinque volumi fotografici, che solo di recente sono tornati a essere al centro delle ricerche di studiosi di storia contemporanea, di visual culture, di filosofia. Le immagini della mostra La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger sono tratte proprio dalle fotografie raccolte in questi volumi.
Passando in rassegna i titoli dei volumi fotografici curati da Jünger, è possibile comprendere che le questioni affrontate dai principali scritti jüngeriani degli anni Trenta sono anche i temi delle raccolte di fotografie: Luftfahrt ist Not! [L’aviazione è necessaria], Vaterländischer Buchvertrieb Thankmar Rudolph, Leipzig 1930; Das Antlitz des Weltkrieges. Fronterlebnisse deutscher Soldaten, [Il volto della guerra mondiale. Esperienze sul fronte dei soldati tedeschi] e Hier spricht der Feind. Kriegserlebnisse unserer Gegner [Qui parla il nemico. Esperienze di guerra dei nostri avversari] editi rispettivamente nel 1930 e nel 1931 dall’editore Neufeld & Henius di Berlino. Nel 1931 viene pubblicato anche Der gefährliche Augenblick. Eine Sammlung von Bildern und Berichten [L’attimo pericoloso. Una raccolta di immagini e resoconti] Junker und Dünnhaupt Verlag, Berlino, mentre nel 1933 esce probabilmente il testo fotografico più importante curato da Jünger Die veränderte Welt. Eine Bilderfibel unserer Zeit [Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo] W.G. Korn Verlag, Breslau 1933.
Le prime questioni che sorgono prendendo in considerazione i volumi fotografici di Jünger sono le seguenti: per quale ragione lo scrittore e filosofo Jünger si impegnò così a fondo in un confronto con la fotografia che lo portò a pubblicare ben cinque raccolte di immagini nel giro di quattro anni? In secondo luogo: per quale ragione la fotografia ricopre un ruolo così importante per l’interpretazione jüngeriana del mondo contemporaneo?
La Mobilitazione totale e la normalizzazione della guerra nel sistema del lavoro
Per cercare di mettere a fuoco queste domande occorre considerare brevemente le questioni che attraversano le opere fondamentali di Jünger in quegli anni. In primo luogo, bisogna concentrarsi su un piccolo ma fondamentale testo di filosofia della guerra come La mobilitazione totale (1930): l’importanza che ricopre di questo scritto all’interno della riflessione jüngeriana è testimoniata dalle numerose rielaborazioni e levigature che il testo subisce, fino all’ultima edizione pubblicata nel 1980.
Nel I paragrafo di La Mobilitazione totale Jünger precisa che la trattazione eviterà accuratamente di occuparsi della guerra in senso universale, quale “materia pura dell’emozione”: come la diversità dei “paesaggi” che circondano lo Hekla e il Vesuvio “tende a svanire quanto più ci si avvicina alle fauci incandescenti del cratere”,[1] così svaniscono le differenze relative ai “mezzi” e alle “idee”, qualora si intenda osservare la guerra quale “nuda lotta per la vita e per la morte”. Ma per Jünger la questione fondamentale è invece quella di guardare e di comprendere i “paesaggi” che danno forma alla superficie e quindi di riuscire a “raccogliere alcuni dati che distinguono l’ultima guerra, la nostra guerra, il maggiore e più fatale evento di quest’epoca, da tutte le altre guerre di cui la storia ci ha tramandato il ricordo”.[2] Già nel 1925, Jünger aveva sottolineato l’importanza di fissare lo specifico tratto espressivo della “facies bellica”[3] di ogni guerra perché
lo stile di un’epoca si manifesta in battaglia con la stessa chiarezza con cui si rivela in un’opera d’arte o nel volto di una città. Per tale ragione nessuna guerra è uguale all’altra, in ciascuna si combatte in nuove forme e con nuovi mezzi in vista di nuovi obiettivi, e in ciascuna fa la sua entrata sulla scena cruenta degli eventi un nuovo tipo d’uomo.[4]
Nel modo specifico di conduzione delle battaglie si esprime dunque lo “stile di un’epoca” e con esso il “tipo d’uomo” che compare sulla scena della storia. Quale sia lo “stile” bellico che si forma in Europa nel corso della Prima guerra mondiale emerge da una delle più nitide definizioni jüngeriane di totale Mobilmachung: la Mobilitazione totale, si legge nell’omonimo scritto, è “un atto con cui il complesso e ramificato pulsare della vita moderna viene convogliato con un sol colpo di leva nella grande corrente della energia bellica”. In questa sintetica definizione si coglie un rovesciamento di prospettiva rispetto all’usuale modo di guardare alla guerra: come ha osservato il grande filosofo ceco Jan Patočka, per Jünger non si tratta di guardare alla guerra dal punto di vista degli “interessi del giorno e della pace” o secondo prospettive estranee a una comprensione “positiva” della guerra stessa, ma di riuscire ad analizzare secondo quali modalità e con quali risultati, tutta l’esistenza umana sia diventata effettivamente riconducibile a uno specifico stile della guerra. Per il dispiegamento della Mobilitazione totale, scrive Jünger, “non è più sufficiente armare il braccio” ma è necessario “un armamento che arrivi fino al midollo, fino al più sottile nervo vitale”.[5] Sul piano individuale il simbolo dell’azione in guerra non è più rappresentato dal solo braccio: ora è la totalità della sua vita, che diventa disponibile per essere utilizzata come arma. Tutto ciò è reso possibile dal totale inserimento dell’individuo nel sistema del lavoro. D’altro canto, sul piano collettivo non è sufficiente che la massa sia coinvolta politicamente; piuttosto è necessario che essa si muti in “massa disciplinata” e cioè che sia assolutamente “disponibile” a funzionare secondo le leggi del lavoro, da intendersi secondo la visione esposta in Der Arbeiter non nei termini di semplice “attività tecnica” (technische Tätigkeit)[6] ma quale “totalità dell’esistenza” che “è in atto anche nei sistemi della scienza”.[7] Come scriverà Jünger in Maxima-Minima. Adnoten zum Arbeiter (1964):
“La giornata lavorativa si compone di ventiquattro ore; pertanto la distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero diventa secondaria. Quando lascia il posto di lavoro l’essere umano accede a un’altra funzione del sistema trasformandosi di volta in volta in consumatore, in utente della rete di trasporto o in fruitore di informazioni”[8].
“Il fronte della guerra e il fronte del lavoro sono identici”
Occorre osservare che Jünger negli scritti di questi anni riconosce che la popolazione appartenente a qualsiasi Stato è stata coinvolta in un processo che l’ha condotta a essere trasformata in un “esercito del lavoro in assoluto”: le masse indistintamente rispetto al sistema politico in cui sono organizzate si mutano in “carne disciplinata [diszipliniert] e uniformata [uniformiert]”[9] che non si ordina più secondo un sistema stabile, ma si rende disponibile a funzionare secondo il processo di dispiegamento della forza, a lavorare in conformità alle leggi della mobilità e del rischio, al punto che la guerra non ha più uno spazio limitato nell’ordine dello Stato, ma occupa illimitatamente le membra del singolo e della collettività; pertanto come si legge già nelle pagine dell’Arbeiter:
“Diventa sempre più arduo stabilire in quali luoghi venga compiuto in modo decisivo il lavoro della guerra [Kriegsarbeit]. Pensiamo soprattutto a come proprio nel corso della guerra entrino in campo, imprevedibili, nuove categorie di armi e nuovi metodi di combattimento, ciò ancora una volta dimostra il fatto principale, che il fronte della guerra e il fronte del lavoro sono identici”.[10]
Affermare che il fronte della guerra e il fronte del lavoro sono identici, equivale a rilevare un’effettiva erosione del confine tra guerra e pace, che tramuta la guerra stessa in un processo sempre più ubiquo, anonimo, onnipresente non più gestibile in termini di strumento politico, limitato giuridicamente.
L’irruzione della dimensione lavorativa nei settori specifici della guerra è testimoniata da molti fenomeni caratteristici del primo conflitto mondiale, primo fra tutti, ricorda Jünger, l’inedita difficoltà che un osservatore incontra nel distinguere un ufficiale rispetto al resto della truppa: siamo in presenza della irruzione della “totalità dell’azione di lavoro” che, si legge nell’Operaio, “cancella le differenze di classe e di stato sociale”[11] o assumono una funzione differente rispetto al passato. La Mobilitazione totale in quanto riconduzione di tutta la vita sub specie bellica non è solo descrivibile a livello “negativo” come mera distruzione dei vecchi confini tra ufficiali e soldati, tra campagna e città, tra umano e materiale, tra armamento regolare o irregolare, tra dimensione convenzionale e non convenzionale dello scontro armato, e infine tra pace e guerra, ma è concepibile in modo “positivo” – come non si stanca di ripetere Jünger nelle sue opere – quale configurarsi di un nuova dimensione spazio-temporale dominata dalla normalità della guerra che scorre nel corpo della collettività. In un saggio del 1930 pubblicato in Das Antlitz des Weltkrieges Jünger si esprime in termini estremamente chiari:
“In che cosa si distingue dunque, la mobilitazione del lavoro [Arbeitsmobilmachung] nell’epoca delle masse e delle macchine dal concetto di mobilitazione quale si era sviluppato nel XIX secolo? Appunto nel fatto che essa non cerca più di mettere in moto soltanto il corpo militare dello Stato, bensì tutta la sua forza lavoro, della quale le prestazioni militari non sono che una sola forma di espressione”.[12]
L’Arbeitsmobilmachung, la “mobilitazione del lavoro”, dunque, come punto di svolta e di radicale mutamento della “prestazione militare” che, in quanto tale rappresenta solo una parte della normalità della guerra nell’era della dimensione totale del lavoro. A questo proposito Carlo Galli ha osservato che nella lettura jüngeriana la Mobilitazione totale “significa essenzialmente che la prospettiva e la rappresentazione della guerra governano anche lo stato di pace”, ovvero che il ritmo della Mobilitazione “è anche politica della mobilitazione, e che tale politica ha per scopo essenziale la potenza, la possibilità della guerra”.[13]
“L’età del colpo mirato è ormai alle nostre spalle”
Questa nuova dimensione della violenza bellica connessa al rapporto intrinseco con la dimensione lavorativa costituisce non solo un potenziamento illimitato rispetto all’esercizio ottocentesco della guerra, ma per certi versi rappresenta il rovesciamento dell’ideale clausewitziano di guerra, oltre che il definitivo annullamento rispetto all’ethos del guerriero (e del cittadino) occidentale. Scrive Jünger:
“L’età del colpo mirato ormai è alle nostre spalle. Il comandante di una squadriglia aerea che a notte fonda impartisce l’ordine di bombardare non fa più alcuna distinzione tra militari e civili, e la nuvola di gas letale passa come un’ombra su ogni forma di vita. Ma la possibilità di siffatte minacce non presuppone una Mobilitazione parziale o generale: presuppone una Mobilitazione totale, che si estende anche al bambino nella culla. Esso è minacciato come tutti gli altri se non addirittura di più”.[14]
Jünger sapeva bene che la storia della guerra da sempre è una vicenda di sangue, di oppressioni, di soprusi, anche a danno degli indifesi. Ma all’interno della storia, il sangue è sempre stato confinato in ambiti della vita particolari, religiosamente o giuridicamente circoscritti. Se la Mobilitazione totale s’impone come l’annullamento dell’ultimo confine dell’esercizio della violenza – il confine giuridico-politico –, se la guerra non può più essere regolamentata dagli Stati che ne vengono travolti, d’ora in poi sarà normale che la violenza bellica minacci con maggior forza aggressiva proprio chi, come il bambino nella culla, è privo di difese. Dopo che durante la Prima guerra mondiale sono caduti i confini della guerra sanciti dalla organizzazione politico-giuridica dello Stato – secondo un’analisi analoga a quanto sostenuto da Carl Schmitt nel Nomos della Terra – questo nuovo genere di violenza inizia a penetrare nelle membra della società e a normalizzarsi, fino a stabilizzarsi. Da questo momento in avanti, secondo Jünger la questione della libertà tende a spostarsi dal piano della dialettica politica tra cittadino e Stato alla scontro tragico e privo di mediazione tra l’”organismo” e l’”organizzazione”. Nel suo complesso, lo spazio della politica, si muta in “scenario” bio-politico.
L’annullamento dei confini della guerra, che si realizza e diventa operativo nella Mobilitazione totale, rende la violenza bellica ubiqua, muta la guerra da strumento politico violento ma limitato in mano agli Stati, in “scenario”. Il lavoro della guerra sarà d’ora in avanti non più strumento politico, ma situazione. È opportuno rimarcare che questo genere di analisi svolte da Jünger sulla dimensione della Prima guerra mondiale e sulla fuoriuscita della guerra stessa dai confini politico-giuridici e religiosi, è di grande rilevanza ai fini di una messa a fuoco della sfuggente dimensione della violenza contemporanea frammentata in operazioni di polizia internazionale, guerre al terrore, bombardamenti umanitari e azioni di impianto della democrazia attraverso missioni militari.
Nell’appello degli Stati alla mobilitazione totale per sostenere con tutte le proprie forze i rispettivi eserciti al fronte, Jünger non vede solo uno smisurato impiego di energie per portare a termine lo sforzo bellico, ma riconosce l’emersione di un inedito processo di fusione tra guerra e lavoro che produce il nuovo scenario in cui si svolge oggi la vita, rispetto al quale la violenza della Prima guerra mondiale è inscindibile. La Mobilitazione totale per Jünger è essenzialmente questo: un processo di fusione di guerra e lavoro che non dà come risultato la semplice somma delle due attività così come si svolgevano nel passato, ma segna una svolta epocale, una mutazione genetica della storia, un nuovo scenario spazio-temporale fatto di normalità violenta in guerra e di violenza normalizzata in pace. La Mobilitazione totale che inizia a operare allo stesso modo sui fronti e nelle retrovie della Prima guerra mondiale sancisce la totale convertibilità del soldato in Lavoratore, trasforma gli Stati in un unico “mondo liscio” dove è annullato il confine tra stato di guerra e stato di pace. Questo confine è risucchiato dalla dimensione normale e seriale del lavoro che irrompe nella sfera fino ad allora circoscritta, limitata, rituale della guerra.
La Prima guerra mondiale e la fotografia
La Prima guerra mondiale è il primo conflitto a essere fotografato in modo sistematico: gli stati maggiori degli eserciti utilizzano le immagini fotografiche per documentare gli avvenimenti e per correggere le operazioni militari, gli ufficiali utilizzano macchine fotografiche per riprendere le operazioni, anche molti soldati sono dotati di apparecchi portatili per produrre immagini che entrano a far parte di un’inedita testimonianza diffusa. Macchine fotografiche sono montate su palloni sonda, su aeroplani e dirigibili e perfino su piccioni viaggiatori per portare alla visibilità le armi nascoste nelle retrovie nemiche.
In Der Arbeiter (1932) una delle opere filosofiche fondamentali di Jünger la fotografia è definita “il modo di guardare il mondo del Lavoratore” e il lavoro nel mondo contemporaneo è l’unica forza attiva ed efficace al punto da assimilare e rendere funzionali a sé ogni forma di rapporto pratico o teorico con le cose. Come si è dunque trasformato l’uomo nella sua percezione del mondo? Com’è mutata la sua sensibilità e la sua capacità di dare forma alle cose con la nascita della fotografia?
Fotografia, dolore e Seconda coscienza
Jünger nel saggio Sul dolore (1934) sceglie di usare come pietra di paragone il dolore quale “unità di misura immutabile” per riuscire a comprendere in che modo l’uomo abbia mutato il proprio rapporto con le cose. È proprio in questo contesto che si rende necessaria una fenomenologia dello sguardo fotografico quale modo di vedere del tipo umano del Lavoratore e come modalità di istituzione di un inedito rapporto estetico tra uomo e dolore.
Quando l’uomo inizia a guardare fotograficamente, è – scrive Jünger – già all’opera una “Seconda coscienza”[15]: con questa locuzione s’intende tracciare una netta distinzione tra la coscienza come luogo della morale individuale e la Seconda coscienza invece come espressione sovra-individuale, o meglio tipica condivisa da tutti i membri del “tipo del Lavoratore” per il quale le dimensioni sociologiche di massa e di individuo costituiscono unità di misura secondarie. La Seconda coscienza caratterizza il Tipo umano del Lavoratore, realizzandosi quale “crescente capacità di vedere se stessi come oggetto” che risulta sempre più “estraneo alla sfera del dolore”. Nel sistema planetario del lavoro che inizia a prendere forma nel corso delle guerre mondiali esistono solo due elementi significativi: l’organizzazione del lavoro e il corpo del Lavoratore. Questa estraneità dell’uomo dal dolore diventa necessaria nella misura in cui all’interno del sistema del lavoro il corpo in quanto tale assume il ruolo di “valore supremo” della vita umana: in questo contesto il dolore viene inteso al pari di una “potenza che va innanzitutto evitata”, poiché “non colpisce il corpo come semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa”. Alcuni “simboli” sono particolarmente significativi per cogliere l’imporsi della Seconda coscienza nell’uomo contemporaneo: il lavoro sempre più diffuso “con organi artificiali” e il prendere forma di spazi sempre più vasti della vita umana in cui osserviamo un sempre più profondo “accordo intraspecifico” tra uomo e organi sensoriali artificiali. La fotografia raccoglie in un’unica immagine visibile ambedue queste caratteristiche: è la prima immagine prodotta indipendentemente dai sensi umani e, in quanto particolare “visione obiettiva”, testimonia del suo essere divenuta lo sguardo del Lavoratore. Vita organica e oggetto sono per lo sguardo fotografico “insensibile e invulnerabile” poste sullo stesso piano: questo è il “nostro modo specifico di vedere” e la macchina fotografica “non è altro che uno strumento di questa specificità“. Lo sguardo fotografico non solo opera nella direzione di una normalizzazione del processo di oggettivazione della vita, rendendola funzionale in quanto “oggetto” al sistema del lavoro, ma modifica anche il modo in cui gli eventi assumono senso: è dalla trasmissibilità e dalla riproducibilità in quanto tale che qualcosa trae la propria esistenza. In questo quadro deve essere inserita anche la questione della “obiettività” dello sguardo fotografico: esso è obiettivo nella misura in cui, perché qualcosa possa essere definito esistente, deve uniformarsi alle regole della visibilità e della trasmissibilità fotografica, ovvero deve entrare a far parte della Seconda coscienza. Parte integrante di questa obiettività è costituita dal processo di “anestetizzazione” che opera attraverso lo sguardo fotografico: come nell’anestesia il corpo è affrancato istantaneamente dal dolore, ma si rende disponibile a un’intrusione meccanica come corpo senza vita, così il corpo del Tipo del Lavoratore è sottoposto, anche mediante la diffusione globale della forma dell’osservatore fotografico a una sempre più sistematica, più profonda - e percepita come normale – intrusione dell’ambito tecnico nella sfera della vita.
Dare forma ai sillabari del presente
Nei suoi volumi fotografici Jünger dà forma ad atlanti del presente, cioè a raccolte di immagini che aspirano a essere una modalità di comprensione attraverso la capacità di orientare il lettore nel mondo. La fotografia insieme alla didascalia offre un’interpretazione, indica una direzione nella massa di immagini in cui l’uomo contemporaneo si trova. Non è un caso che il testo più ambizioso di Jünger si intitoli proprio Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo: attraverso le immagini fotografiche è possibile dare forma a un “sillabario” che permette all’uomo di imparare a leggere e a comprendere le mutazioni essenziali che caratterizzano il mondo contemporaneo. Il sillabario attraverso il montaggio di immagini e testi compone una mappa del mondo in cui viviamo. La guerra produce oscurità, terrore e afasia. I sillabari insegnano a leggere e a parlare, attraverso la parola e le immagini – dunque attraverso il pensiero e lo sguardo – insegnano comprendere e bisogna decidere, prendere posizione, in nome della propria libertà. Attraverso un viaggio nelle immagini possiamo vedere come stava mutando il mondo: gli antichi ordinamenti (i sistemi politici, gli assetti giuridici, i valori morali) continuano a essere efficaci solo nella misura in cui sono funzionali al dispiegamento planetario della produzione del lavoro e del controllo delle masse. Che l’obiettivo fissi le parate fasciste, le manifestazioni degli operai sovietici o le sfilate lungo le strade di New York, assistiamo sempre e comunque a un’analoga disciplina delle masse, a una mobilitazione che diventa tanto più impressionante quanto più la società ha adottato un sistema politico democratico: qui a livello collettivo e individuale l’ordinamento è automatico, l’essere umano si muta attraverso una miriade di pratiche di vita in un collaboratore al controllo di se stesso.
Note:
[1] E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id Foglie e pietre, tr. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, p. 113
[2] Ivi, pp. 113-14.
[3] E. Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919-1933, tr. it. di A. Iadicicco, LEG, Gorizia, vol. I. p. 65.
[4] Ibidem.
[5] E. Jünger, La mobilitazione totale, in Foglie e pietre, cit., p. 118.
[6] E. Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, tr. it di Q. Principe, Guanda, Parma 1992, p. 82.
[7] Ivi, p. 83.
[8] E. Jünger, Maxima-Minima. Adnoten zum Arbeiter, in Id., Sämtliche Werke, Klett-Cotta, Stuttgart 1978 e sgg., vol. 8, p. 362.
[9] E. Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, cit., p. 181
[10] E. Jünger L’Operaio, p.103, cit., (tr. it. modificata).
[11] Ivi, p.102.
[12] E. Jünger, Scritti politici e di guerra, cit., vol. III, p.110.
[13] C. Galli, Ernst Jünger: La mobilitazione totale e il nichilismo, in L. Bonesio (a c. di), E. Jünger e il pensiero del nichilismo, Herrenhaus, Seregno 1999, p. 75.
[14] E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id., Foglie e pietre, cit., p. 120.
[15] E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., pp. e sgg. Attualmente, nel panorama internazionale la più importante raccolta di studi sul rapporto del pensiero di Ernst Jünger (e del fratello Friedrich Georg) con le questioni di cultura visuale è: S. Gorgone, G. Guerra, L’eco delle immagini e il dominio della forma. Ernst e Friedrich Georg Jünger e la visual culture, Mimesis, Milano-Udine 2014.