Il Laboratorio del tempo presente: la distanza fra la teoria e la pratica
Le opinioni di un insegnante di storia e filosofia
L’intrigante teoria di Huizinga
Questo articolo nasce dalla lettura del testo di Vanessa Roghi L’immagine, l’evento e la didattica della storia (Laboratorio del tempo presente), pubblicato nel dossier “Italia repubblicana, 70 anni di storia da insegnare”. In sostanza, si tratta di un’interrogazione sul perché vi sia così tanta distanza tra la teoria – il punto di vista di Vanessa, storica ed esperta di didattica multimediale – e la pratica – il punto di vista mio, sul campo.
Nell’articolo di Vanessa Roghi si pongono problemi importanti, riguardo al senso delle fonti audiovisive nel campo dell’insegnamento della storia. Queste vengono emancipate dal carattere strumentale che accompagna solitamente il loro utilizzo didattico: coinvolgere lo studente, rendere piacevole la trasmissione di un contenuto, catturare l’attenzione. Ci si interroga, invece, a partire da un’affermazione di Huizinga, su qualcosa che ha a che vedere sul “senso” dell’insegnare storia e contemporaneamente sullo statuto disciplinare della storia.
Huizinga dice, nel 1905, che, rispetto ai modi di intendere il passato, “il guardare ha preso il posto del leggere”, ovvero che le immagini hanno raggiunto una preminenza sulla lettura nell’apprendimento della storia e sulla costituzione della memoria storica. E ciò favorisce la presa di coscienza che la storia stessa non è semplicemente una “riproduzione” del passato, ma una “rappresentazione” impossibile senza l’intervento attivo dell’immaginazione dello storico. Nella prolusione di Huizinga l’immagine e l’immaginazione divengono la chiave di comprensione della realtà della storia come “costruzione” di storia e memoria. A partire da tale premessa, diviene possibile concludere che l’immagine contiene un potenziale esattamente contrario al suo potere (già ben noto a Platone) di fascinazione e di falsificazione: l’immagine, come testimonianza e come fonte storica, diviene la chiave di un processo critico di contestualizzazione, conoscenza del modo di produzione dell’immagine stessa e del modo in cui essa diviene documento.
Il precipitato, a livello didattico – e pedagogico – di una tale impostazione sta nel fatto che, dalla comprensione e dall’analisi attraverso la quale le immagini, le foto, i filmati, divengono fonti storiche e vengono a costituire contemporaneamente l’immaginario collettivo, è possibile ragionare criticamente sul modo in cui viene a costituirsi, in ciascuno, il “proprio” immaginario, ovvero la propria rappresentazione della storia. In sostanza, la proposta di Vanessa Roghi verte su una modalità d’insegnamento della storia che riconnetta tra loro, mediante una modalità critica ed analitica e non certo attraverso la semplice identificazione emotiva in eventi e personaggi, storia ed esperienza vissuta.
Una pratica sconsolante
Qui tuttavia – dato per acquisito il valore, dal punto di vista teorico, della proposta – si misura tutta la distanza tra la teoria e la pratica. Infatti questa materia, la storia, è proprio qualcosa che costringe a interrogarti sul senso di ciò fai in classe. Mi spiego: agli studenti – quasi tutti – la filosofia piace molto, e non è difficile trovare dei nessi con il già noto, ovvero con l’esperienza vissuta. La storia, invece, essenzialmente, i più, la odiano. Ci sono, senza dubbio, casi di studenti che si appassionano alla storia, ma sono minoritari. Per esempio, l’anno scorso avevo una studentessa, al linguistico, completamente italiana per cultura e lingua, ma anche molto legata alle sue radici polacche: sapeva tutto, non solo della storia polacca, ma anche della storia che avevamo fatto nel programma dell’anno prima.
Il problema basilare sta qui, nel “senso” di ciò che si studia. Intendo con questo termine sia ciò che può avere un significato “per te”, nel senso di legarsi alla tua esperienza e contribuire ad orientarti nelle tue interazioni e scelte, sia nel senso più “tecnico” di un sapere nuovo che viene appreso – come dicono i cognitivisti – in quanto si lega al già conosciuto. Non è che la storia, per la maggioranza degli studenti, ne abbia molto, di senso. In generale, è già un grosso problema che una classe che sta iniziando il programma di storia contemporanea si ricordi la successione Rivoluzione francese – Età napoleonica – Restaurazione. Inoltre, la storia è la materia in cui si incorre più di tutte alle brutte figure durante l’esame di maturità: ignoranza di cose banalissime.
Sulle ragioni della mancanza di “senso storico” io non condivido la tesi che si tratti di un guaio che tocca solamente le ultime generazioni: penso vi sia una accentuazione, dovuta al crescente disincanto e alla crescente spoliticizzazione, di qualcosa che apparteneva già alle generazioni passate. La comprensione della storia va di pari passo con la coscienza del “pubblico” (o del “comune” se si preferisce, ma io non ci vedo granché differenza). Senza dubbio, generazioni politicizzate hanno avuto maggiore senso storico, ma hanno probabilmente una formazione storica parziale, legata all’immaginario e alla mitopoiesi più che alla comprensione critica della storia. Altre generazioni, quelle dei nostri padri e dei nostri nonni, magari ricordano ancor oggi chi sono i fratelli Bandiera ma sono vissuti in un’epoca in cui il corpo insegnante ancora vedeva nella storia un mezzo di “educazione patriottica” e nel senso comune gli Enrico Toti e i fratelli Bandiera denotavano un senso di appartenenza, o, anche, di “distinzione”.
Analisi pessimista, esperienze ottimiste
Ogni processo di formazione implica il rapporto tra ciò che s’incontra nell’apprendimento scolastico e ciò che già si conosce. Ogni conoscenza nuova implica una “precomprensione” già contenuta nella propria esperienza passata. Sarebbe ottimistico e anche ingenuo pensare a un circolo ermeneutico che possa essere rigenerato mediante proposte didattiche. Il fatto è che questa esperienza viene a costituirsi attraverso un “capitale culturale” di carattere sociale altamente differenziato: proprio ieri mi è capitato che studentesse di terza (che hanno in programma medioevo ed età moderna) mi chiedessero consigli su libri inerenti la prima e seconda guerra mondiale, mentre recentemente ho scoperto che altre studentesse di linguistico non sapessero dove stanno le regioni italiane (e lo spazio geografico c’entra sicuramente con la storia).
Non mi è dato trarre conclusioni, poiché queste toccano la questione stessa di come si potrebbe formare una cultura comune all’interno di una società divisa e frammentata (volutamente dico così, scartando l’ipotesi che la colpa sia della eccessiva produzione di immagini nel mondo cibernetico della rete o dell’eccesso di stimoli cui sarebbero sottoposti i “nativi digitali”). Dico solamente che, se l’analisi è pessimista, singole esperienze, in questa campo, possono essere positive: due anni fa ho trattato il movimento dei diritti civili in una classe, Vanessa Roghi è venuta a presentare il suo bel documentario Rai su Martin Luther King e Malcom X, e un qualche impatto c’è stato, perché alcuni studenti di quella classe hanno portato sia l’uno che l’altro in “tesina” di maturità.