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Il paesaggio come fonte storica e strumento didattico: l’archeologia dell’età contemporanea

Il paesaggio come fonte storica e strumento didattico: l’archeologia dell’età contemporanea

Vista dall’interno dell’African Burial Ground National Monument.
Crediti: SpinklinkOwn work, CC BY-SA 4.0, Link

Abstract

L’articolo nasce dall’intervista realizzata ad Andrea Augenti durante la Summer school 2023 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, intitolata “Didattica della storia e territorio: paesaggi, luoghi di memoria, musei diffusi” e organizzata presso Casa Cervi e Istoreco Reggio Emilia dal 29 al 31 agosto 2023. Nel testo, l’autore fornisce alcuni elementi basilari per inquadrare l’approccio archeologico al passato e descrive come tale approccio viene applicato sempre più anche all’età contemporanea. Le nuove chiavi interpretative che emergono possono rappresentare una buona base metodologica per attività didattiche tanto nelle scuole del primo e secondo ciclo, quanto nelle aule universitarie.
La bibliografia è opera di Marianna Bucchioni, che ha preparato con Andrea Augenti l’intervista.

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The article stems from the interview conducted with Andrea Augenti during the 2023 Summer school of the Ferruccio Parri National Institute, entitled “Didattica della storia e territorio: paesaggi, luoghi di memoria, musei diffusi” (Didactics of history and territory: landscapes, places of memory, diffuse museums) and organized at Casa Cervi and Istoreco Reggio Emilia from 29 to 31 August 2023. In the text, the author provides some basic elements to frame the archaeological approach to the past and describes how this approach is increasingly being applied to the contemporary age as well. The new interpretative keys that emerge can represent a good methodological basis for teaching activities both basic and higher education.
The bibliography is by Marianna Bucchioni, who prepared the interview with Andrea Augenti.

Paesaggio e archeologia

Quando si parla di paesaggio è oggi ineludibile l’esigenza di coinvolgere l’approccio archeologico, soprattutto se è quello dell’archeologia dell’età contemporanea. Un primo passo fondamentale è quindi provare a definire meglio questa disciplina, delineando entro quale contesto e da quali spinte nascono gli studi archeologici sul passato recente e verso quali direzioni e temi si orientano.

L’archeologia ha avuto recentemente uno sviluppo che si origina da una vera e propria evoluzione del pensiero archeologico nel corso del tempo. Siamo ormai lontani anni luce sia dall’archeologia di Heinrich Schliemann a Troia, che da quella di Howard Carter in Egitto. Era, quella, un’archeologia interessata soprattutto alla scoperta clamorosa di oggetti bellissimi, di tesori. Lo stesso Carter, quando entra nella tomba di Tutankhamon, parla di wonderful things. E c’è chiaramente un immaginario legato all’archeologo cacciatore di tesori, rappresentato soprattutto da Indiana Jones. Per molti l’archeologia corrisponde a questa figura cinematografica, che però – per noi archeologi – è tutto tranne che un archeologo: Indiana Jones è un cacciatore di tesori; è – se vogliamo – il vero predatore dell’Arca perduta.

Oggi l’archeologia è meno interessata a questi temi, quantomeno a livello progettuale. Certo, se casualmente si incontra una tomba piena di oggetti preziosi, non ci si volta dall’altra parte. E tuttavia il punto è che oggi l’archeologia lavora molto più sul concetto di paesaggio, anzi di paesaggi, usato al plurale. Salvatore Settis lo ha detto molto bene: il paesaggio in realtà è una sovrapposizione di decine, centinaia di paesaggi che si sono stratificati l’uno sull’altro nel corso del tempo.[1] All’archeologo oggi interessa quindi ricostruire i paesaggi, i contesti. Questa è in effetti la parola chiave dell’archeologia, attualmente: contesto.

E poi, soprattutto, proprio perché abbiamo spostato il fulcro della nostra attenzione e abbiamo cominciato a lanciare sul passato uno sguardo più aperto, oggi l’archeologia non si concentra più esclusivamente su un passato molto antico, ma arriva fino alla storia più recente. Un esempio: fino a poco tempo fa, se in uno scavo di epoca medievale venivano trovati dei resti risalenti alle fasi dall’età preistorica all’età romana (sostanzialmente fino al tempo dell’imperatore Costantino, e quindi all’inizio del IV secolo d.C.), la giurisdizione legislativa era della Soprintendenza archeologica della regione in cui lo scavo era effettuato; ma se i resti appartenevano a fasi dal V secolo in avanti l’interlocutore cambiava, perché iniziava la giurisdizione della Soprintendenza ai beni architettonici. Questo ente tendenzialmente è nato per preservare e tutelare i beni architettonici conservati in elevato: chiese, palazzi eccetera eccetera. Però improvvisamente gli architetti si facevano archeologi nelle loro competenze e giudicavano quindi il lavoro degli archeologi veri e propri. Queste barriere, che erano anche giuridiche, recentemente sono state abbattute proprio grazie a un’archeologia sempre più consapevole che il suo ambito non si ferma a un certo secolo e dopo è competenza altrui, ma che essa è in realtà un approccio, un modo di fare storia. Gli archeologi, alla fine, sono storici; storici le cui fonti primarie sono le fonti materiali e il cui  oggetto principale di studi è la cultura materiale del passato.

Il concetto di cultura materiale è molto ampio, dentro di esso rientra il coccio più umile come il palazzo o la chiesa o il contesto archeologico più ampio possibile, come per esempio un intero centro urbano. E quindi, una volta che si è accettata questa definizione dell’archeologia, gli steccati cronologici non hanno più alcuna ragione di esistere. La dimensione diacronica è assoluta e senza confini. Questo nuovo approccio ha permesso di immaginare e realizzare archeologie che prima non esistevano, o che esistevano solo tra le righe: è il caso dell’archeologia medievale, che è la prima ad essere nata perché ovviamente più vicina cronologicamente al tipo di archeologia che era sempre stato fatto. Col tempo sono poi nate l’archeologia postmedievale e infine l’archeologia dell’età contemporanea.

Naturalmente questa evoluzione non è stata priva di momenti critici. Cito l’esempio di Daniele Manacorda e di un suo scavo a Roma – e quindi in un contesto urbano, che è un contesto diacronico per eccellenza.[2] Quando comincia a scavare nella cripta di Balbo (un annesso di un teatro del I secolo d.C.), Manacorda attraversa le fasi del 1800 e del 1700 (è bene ricordare che gli archeologi attraversano la stratificazione al contrario, quindi dalle fasi più recenti a quelle più antiche) e decide di pubblicare le tazzine da caffè del 1700, dando loro la stessa importanza che daremmo alla ceramica a vernice nera dell’età repubblicana. A quel punto nasce un vero e proprio scandalo. Molti altri archeologi si indignano ed esprimono il loro disappunto in modo quasi becero. Alcune delle reazioni sono di questo tenore: ma questa è archeologia? Queste sono le tazzine di tua nonna! Non prenderci in giro con questa roba perché non è archeologia, non è storia, non è niente. Per fortuna questo atteggiamento oggi non viene più esplicitato, e soprattutto non più con quei toni, però tra le righe, qua e là, resta un’idea abbastanza diffusa che l’archeologia vera e propria in teoria dovrebbe essere dalla preistoria fino all’età romana.

Di conseguenza le archeologie più recenti faticano ad affermarsi. Per esempio, non c’è un gruppo disciplinare universitario che le comprenda. Le archeologie postmedievale e contemporanea, nelle poche università in cui vengono insegnate, sono appannaggio in genere di chi fa archeologia medievale o metodologia della ricerca archeologica. Si tratta anche di storture del sistema universitario – e quindi ci riguardano fino a un certo punto – però sul piano culturale sono spie interessanti che ci fanno capire quanto il tema dell’archeologia contemporanea sia in fieri e non ancora affermato del tutto. In Italia esiste una rivista, Archeologia postmedievale,[3] ma non ne esiste una dedicata all’archeologia contemporanea. Si comincia ad avere giusto qualche monografia, qua e là. Eppure il passato ha una sua materialità molto forte, che peraltro è a rischio. Una materialità che inizialmente, fin dall’età medievale, aveva scoraggiato gli archeologi, per l’idea che l’archeologia aveva un senso fin dove c’erano poche fonti scritte. Non a caso, anche quando si è cominciato a indagare archeologicamente anche il Medioevo, ci si è concentrati molto di più sull’Alto medioevo, rispetto al quale ci sono meno fonti scritte, che non sul Basso medioevo, periodo rispetto al quale si registra un’esplosione documentaria veramente molto forte.

Eppure tutto questo non ha alcun senso, perché l’archeologia non è una maniera di riempire i buchi che mancano nelle fonti scritte; e non è vero che quando ci sono tante fonti scritte non bisogna fare archeologia. Faccio un altro esempio, che riguarda uno dei primi grandi progetti di archeologia del contemporaneo. Era intitolato il Garbage Project, il progetto dell’immondizia, ed è stato fatto in Arizona, a Tucson, da William Rathje.[4] Il progetto partiva da un assunto fondamentale: l’importanza delle discariche per gli archeologi. L’immondizia degli antichi è infatti una miniera, perché spesso ci cadono oggetti quasi interi, usati ma non frammentati in mille pezzi; e poi c’è di tutto: ci sono manufatti e ci sono anche ecofatti, cioè reperti di origine naturale. Qui torniamo al concetto di ambiente e al fatto che agli archeologi sempre interessano i contesti naturali in cui le tracce dell’uomo vengono rinvenute. Rathje deduce quindi che se è così importante l’immondizia degli antichi per capire il passato, allora, forse, per capire noi stessi, è necessario studiare la nostra immondizia. E questa idea geniale partorisce un progetto veramente rivoluzionario: Rathje avrebbe potuto semplicemente consultare i registri pubblici per fare un’indagine sociologica sulla città, e invece lui sguinzaglia i suoi studenti nei diversi quartieri di Tucson e li fa andare a curiosare nell’immondizia delle famiglie di diversi ceti sociali. Questa analisi fa emergere dati interessantissimi, che mostrano da un lato la differenziazione sociale basandosi sull’immondizia;  dall’altro però aggiunge un tassello che agli archeologi non è permesso e che invece è loro possibile aggiungere, proprio perché fanno archeologia del contemporaneo: intervistare i protagonisti. Quindi, mentre alcuni studenti frugano l’immondizia, altri vanno a intervistare i produttori di quell’immondizia. Il prodotto del confronto sono dati non solo incoerenti, ma addirittura contraddittori tra loro. Infatti, mentre gli intervistati sostengono di consumare non più di 5 lattine di birra a settimana, dai loro sacchi dell’immondizia ne risultano molte di più. A questo punto le strade sono due: o ci accontentiamo di concludere che gli intervistati mentono, oppure cerchiamo di andare oltre e di capire perché mentono. Questa seconda soluzione apre uno squarcio molto interessante sulla realtà sociale degli Stati Uniti del XX secolo, dove i cittadini hanno un ideale di se stessi alimentato dalla pubblicità, dall’idea del fitness, dall’idea salutista di una corretta e sana alimentazione che non gli permette di esplicitare quali siano i loro veri gusti, le loro vere attitudini, perché devono rientrare in quello standard e quindi si registra una discrasia tra il modello che viene tramandato e propugnato dalla società in cui vivono e la realtà della loro vita quotidiana.

Questo esempio dimostra quanto l’archeologia sia importante, quanto essa ci permetta di dire altre cose oltre a quelle che dicono le fonti documentarie, iconografiche o orali. È un altro approccio, che non può e non deve avere barriere cronologiche: attraverso di esso possiamo avvicinare il passato di qualunque epoca, che sia con lo scavo stratigrafico o con la ricognizione e la ricerca delle tracce archeologiche nel paesaggio, che passa per uno studio molto accurato dei reperti, che è la parte tipologica a cui noi archeologi ci dedichiamo molto spesso.

Luoghi, memoria, patrimonio

Delineato quindi quanto sia importante il rapporto tra archeologia e paesaggio, si può fare un ulteriore passo in avanti, valutando come l’archeologia possa essere oggi un essenziale strumento di individuazione e tutela dei del rapporto tra luoghi, della memoria e del patrimonio culturale.

L’archeologia effettivamente ha gli strumenti per portare all’attenzione di chi tutela e di chi cura il patrimonio situazioni e contesti che sono ad alto rischio. La distruzione del paesaggio storico, come è stato già scritto da Rossano Pazzagli,[5] è all’ordine del giorno. Questa distruzione fondamentalmente può avvenire per molte cause. Una delle prime è l’ignoranza, ovvero il non disporre degli strumenti utili per decifrare il paesaggio; per rendersi conto, in sostanza, che esiste in ogni territorio una rete di testimonianze che vanno a regime una con l’altra, e che tutte insieme, coralmente, raccontano una storia.

Marianna Bucchioni ha fatto una tesi di laurea molto bella sull’archeologia di Beppe Fenoglio intitolata Archeologia di Beppe Fenoglio. Uno scrittore partigiano raccontato attraverso i suoi oggetti,[6] che intreccia da un lato un passato letterario e dall’altro un passato profondamente legato a un territorio e alla guerra partigiana combattuta in quei luoghi. Bucchioni ha trovato tracce interessantissime, ad esempio, di una sparatoria, e le ha trovate sulla facciata di un edificio. Questa è archeologia, perché l’archeologia sempre di più si misura con l’analisi stratigrafica degli elevati, non solo di ciò che viene scavato. Così è ad esempio per i monumenti, che oggi vengono scomposti nelle loro parti, nelle loro fasi, in qualche modo sezionati per poter restituire alla conoscenza la complessità della loro lunga vita. La capacità di analizzare questo tipo di strutture in una maniera così dettagliata fornisce ovviamente nuovi elementi utili alla tutela dei beni culturali, una tutela che non può limitarsi soltanto a ripristinare l’edificio così com’era originariamente ma deve tenere assolutamente conto della presenza di queste tracce; così come deve tenere conto del fatto che queste tracce non sono isolate, ma si collegano ad altri luoghi della vita, a delle azioni o persino a delle opere letterarie, come nel caso dello studio di Bucchioni su Beppe Fenoglio.

Le archeologie contemporanee nascono poi ovviamente anche da spinte politiche molto forti, che concentrano l’interesse soprattutto su alcuni temi e meno su altri. Faccio alcuni esempi.

Un tema molto indagato sono le due guerre mondiali.[7] In Spagna, invece, una delle archeologie del contemporaneo più praticate è inerente alla guerra civile: Alfredo Gonzalez Ruibal è uno dei più importanti e accreditati archeologi del contemporaneo a livello internazionale, e ha legato il suo nome proprio a questa archeologia.[8] Esiste poi un’archeologia delle migrazioni forzate, dei rifugiati e dei transfughi, che è molto praticata. Anche il dibattito sulla rimozione delle statue[9] (la cui soluzione migliore mi pare sia il loro riposizionamento all’interno dei musei) mi aspetto che generi abbastanza presto un’ondata di un’archeologia tipologica che lavori sui messaggi lanciati da queste statue, che è qualcosa che ancora non è venuto fuori, se non sporadicamente.

È dunque evidente che archeologie di questo genere siano già molto attuate e consolidate. Tra queste, c’è l’archeologia del contemporaneo che riguarda i campi di prigionia e i campi di concentramento.[10]  Il tema è evidentemente delicato. A Treblinka è iniziato uno scavo effettuato dall’Università dello Staffordshire,[11] il cui staff ha compiuto lavori egregi tra scavo e indagini geofisiche attraverso le quali è stata ricostruita l’intera fisionomia del luogo.

Questo ha confermato quanto già si sapeva dai racconti dei superstiti, e cioè che le camere a gas simulavano la topografia e la struttura del bagno della terma a cui erano abituati ad andare gli ebrei, che era rivestita di un certo tipo di mattonelle con la stella di David. Riproducendo questo genere di decorazioni si cercava dunque di trarre in inganno gli ebrei, facendo loro credere – come molti raccontano – di essere in procinto di andare in bagno per farsi una doccia. Come detto, questo si sapeva già dai racconti, ma gli archeologi lo hanno ritrovato in tutta la sua devastante materialità.

Pensiamo anche al tema dei negazionisti. Quando ho visto il film La verità negata, che racconta il processo a David Irving,[12] e ho sentito l’imputato rifiutare l’esistenza delle camere a gas, la risposta naturale mi è sembrata quella di andare a scavare per dimostrare l’inesattezza delle sue credenze. Comprensibilmente però, in alcuni casi si creano dei blocchi – anche emotivi – che non sempre consentono all’archeologo di fare il suo mestiere e anzi suggeriscono che certe volte l’archeologia dovrebbe fare un passo indietro, come invece non ha fatto a Treblinka. Ma questo dipende dalle singole situazioni, ovviamente.

L’archeologia permette quindi una esperienza immersiva nel passato e consente la conservazione, la tutela e la perpetuazione della memoria di luoghi anche terribili del nostro passato. Essa aiuta a non dimenticare, a maggior ragione perché restituisce tutto l’orrore, anche attraverso gli oggetti, come gli effetti personali dei deportati di Treblinka o le mattonelle di cui parlavo poco fa.

L’archeologia può pertanto assolutamente contribuire a mantenere vivo il rapporto tra luoghi e memoria. Tanto più, appunto, in un momento come il nostro, in cui le SS vengono spacciate per bande musicali.[13] L’apporto della materialità del passato è quanto mai necessario e importante, è un elemento che conferisce una sostanza indelebile al ricordo.

L’archeologia fra didattica e dimensione pubblica

Nel restituire i patrimoni alle comunità del presente e del futuro, l’archeologia, nel suo ruolo pubblico, ha evidentemente anche un ruolo didattico. La sua prospettiva peculiare, e gli immaginari sviluppati intorno ad essa, possono inoltre giocare un ruolo emozionale ed evocativo nel campo dell’insegnamento

In effetti gli archeologi sono tra i pochi mestieri di questo genere raffigurati al cinema in maniera eroica. Non solo: come dico spesso ai miei studenti, Indiana Jones ha una sua sigla, mentre gli idraulici  o i bibliotecari non ne hanno una. Un mio collega l’aveva anche messa come suoneria del telefono…

Questo fascino dell’archeologia viene in realtà da lontano ed è dovuto a vari fattori, tra cui l’essere visti come cercatori di tesori è solo uno di molti. Gli archeologi giocano in maniera molto forte sul crinale tra presente e passato e in più, rispetto agli storici, quel passato lo toccano con le proprie mani, e lo possono mostrare in prima persona.

E tuttavia va rilevato che anche nell’evoluzione del pensiero archeologico e delle attitudini degli archeologi c’è stato un cambiamento nel corso del tempo. L’archeologia non è una pratica antica, nasce dall’approccio molto più disordinato, poco specialistico e poco scientifico dell’antiquaria, tra la metà e la fine dell’Ottocento. Nel corso del tempo siamo poi passati alla lunga fase dell’archeologia “colonialista”. Con questo termine non si intende l’archeologia che si faceva nelle colonie vere e proprie, e che è stata fatta tantissimo da tutti i paesi europei, compresa l’Italia. È un concetto ben più ampio, in effetti, e riguarda anche l’Occidente. Fino a poco tempo fa esisteva un forte scollamento tra il lavoro dell’archeologo e il contesto che lo circondava. L’idea sottesa era: ora arriviamo noi e vi spieghiamo il vostro passato, finalmente vi si aprono le porte della storia dal punto di vista materiale. Oggi tutto questo avviene sempre meno. Inoltre c’è un nuovo indirizzo della disciplina archeologica che è più onnicomprensivo, praticabile su tutte le archeologie, ed è l’archeologia pubblica, ovvero il corrispettivo di ciò che è la Public history per la storia.[14] Si tratta di un’archeologia partecipata, condivisa tra chi la fa da professionista e in prima persona, e la comunità del luogo in questione. Il concetto di base è proprio questo: l’archeologia deve restituire il proprio lavoro alle comunità locali, con atteggiamenti sempre meno colonialisti e sempre più attenti all’equilibrio che deve esistere tra la comunità attuale – con il suo passato – e il lavoro dell’archeologo. Questo processo, perciò, non può prescindere da una divulgazione in tempo reale di quello che facciamo; il che si traduce in scavi aperti, possibilità per la cittadinanza di parteciparvi, aggiornamenti continui, conferenze. Anche i social media e i forum (io per esempio li uso sempre) sono uno strumento fondamentale, perché contribuiscono a fare sentire coinvolte le Comunità e diventano un essenziale strumento di dialogo in cui gli archeologi possono raccogliere le istanze del pubblico. Ciò non significa naturalmente prendere “ordinazioni” su cosa fare, per noi archeologi, ma trattare, discutere, negoziare con le comunità e condividere con esse le tappe del nostro lavoro.

Faccio un altro esempio pratico, ovvero l’African burial ground a Manhattan, New York.[15] Proprio alla fine degli anni Ottanta, per l’esattezza nel 1989, viene trovato un cimitero degli schiavi di Manhattan. Gli scavi cominciano e procedono molto male, le ossa vengono asportate senza attenzione perché nella stessa area c’è un progetto di sviluppo urbano. La comunità afroamericana insorge, ci sono manifestazioni, dibattiti, tanto che è necessario l’intervento del sindaco e delle autorità. Il progetto viene quindi affidato a un anatomopatologo afroamericano, il che è una scelta estrema perché lascia intendere che si può fare archeologia solo su noi stessi e all’interno della nostra stessa comunità. Ciò equivarrebbe a non poter fare storia al di fuori del proprio Comune di  origine. E tuttavia, in quel caso, il  gesto estremo è stato un gesto politico molto azzeccato perché ha rimesso la vicenda sui binari giusti, ha aiutato il dialogo tra gli archeologi e la comunità di riferimento che sentiva minacciato il proprio passato.

Questo è un punto, secondo me fondamentale, su cui posso portare anche la mia testimonianza. In questo momento ho appena finito la mia nuova campagna di scavo a Cervia, durata tre anni. La storia di Cervia inizia in età forse preistorica, ma sicuramente romana. Va avanti con una serie di spostamenti nel corso del tempo, fino ad arrivare alla Cervia attuale. In realtà prima della Cervia attuale ce n’è perlomeno un’altra, che è la Cervia vecchia che sto scavando io e non corrisponde con il centro urbano attuale, ma è all’interno della zona delle saline. A causa dell’alluvione, prevedendo che avremmo trovato una falda acquifera molto alta, siamo andati in un luogo ancora più all’interno dove sapevamo di ritrovamenti sporadici e abbiamo trovato – con buona approssimazione di esattezza – la cattedrale più antica della città, risalente al V secolo d.C. Nel momenti in cui mi confronto con la cittadinanza, c’è una folla incredibile che vuole sapere tutto, che è assolutamente affamata dell’archeologia, affamata della sua stessa storia e con la quale abbiamo fatto un patto: e cioè che questo progetto racconterà tutta la storia sulla lunga diacronia, dall’età più antica fino alla Cervia nuova, che viene fondata nel 1700, accanto alla linea di costa. Tutto questo per dire che, appunto, le comunità in realtà sono molto ansiose di riconquistare la loro stessa storia e che tutto questo può essere fatto di volta in volta, mettendo l’accento sui punti forti di quella storia. A Cervia c’è  una storia di progressivi interventi dell’uomo sul paesaggio: la modifica dovuta alle saline non è solo archeologia dei paesaggi, è anche archeologia della produzione.

Se io ad esempio facessi archeologia a Marzabotto non mi occuperei soltanto della città etrusca, ma arriverei fino agli eventi della guerra, alla strage del 1944, perché il paesaggio è un contesto, è una rete di relazioni tra luoghi e punti fermi, anche nel tempo, che vanno uniti. In questo l’archeologia aiuta molto.

Una cosa molto importante va detta: nel caso di Cervia, è stata una circostanza fortunata aver trovato un’amministrazione comunale particolarmente sensibile. che peraltro ha capito molto bene che dopo l’alluvione non si può ripartire soltanto dal tessuto produttivo, dall’industria e dai posti di lavoro – per quanto importanti – ma anche dalla storia e dell’archeologia, che fanno parte del patrimonio culturale.

Evidentemente però l’archeologia è dispendiosa, costa più della storia, perché è un lavoro che sempre di più si fa in équipe, in modo interdisciplinare e attraverso i laboratori, attraverso modalità molto onerose di recuperare i nostri dati.

Per chiudere, vorrei citare una vignetta di un grande autore irlandese, Tom Gauld, che a mio avviso è l’emblema dell’archeologia. La vignetta ripropone una citazione di un testo di Kierkegaard: la vita può solo essere capita all’indietro, ma deve essere vissuta in avanti. Io trovo questo disegno straordinario ed è la perfetta sintesi di ciò che per me sono l’archeologia e la storia e di ciò che deve essere il nostro rapporto col passato.

Bibliografia (a cura di Marianna Bucchioni)
  • A. Augenti, Scavare nel passato. La grande avventura dell’archeologia, Carocci, Roma 2020.
  • C. Colls, Holocaust Archaeologies, Springer, Berlino 2015.
  • G. De Felice, Archeologie del contemporaneo, Carocci, Roma 2023.
  • A. González Ruibal, Archaeology of the Spanish civil war, Routledge, Londra 2020.
  • D. Manacorda, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Electa, Milano 2001.
  • W. L. Rathje, The Garbage Project & the archaeology of us, in “Encyclopaedia Britannica’s Yearbook of Science and the Future” 1996.
  • J. Schofield, Aftermath. Readings in the archaeology of recent conflict, Springer, New York – Londra 2009.
  • S. Settis, Il paesaggio come bene comune, La scuola di Pitagora, Napoli 2013.
  • G. Volpe, Archeologia pubblica, Carocci, Roma 2020.

Note:

[1] S. Settis, Il paesaggio come bene comune, La scuola di Pitagora, Napoli 2013

[2] D. Manacorda, Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Electa, Milano 2001.

[3]  Archeologia postmedievale è una rivista fondata da Marco Milanese nel 1997, edita da All’Insegna del Giglio (Firenze). https://www.insegnadelgiglio.it/categoria-prodotto/periodici/apm/.

[4] Si veda W. L. Rathje, The Garbage Project & the archaeology of us, in “Encyclopaedia Britannica’s Yearbook of Science and the Future” 1996 e anche A. Augenti, Scavare nel passato. La grande avventura dell’archeologia, Carocci, Roma 2020.

[5] R. Pazzagli, Paesaggio e patrimonio territoriale. Dalla storia alla coscienza di luogo, in “Novecento.org”, n.18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/06

[6] Parte della ricerca è già stata pubblicata in M. Bucchioni, Archeologia di Beppe Fenoglio. Uno scrittore partigiano raccontato attraverso i suoi oggetti, in “Novecento.org”, n.17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/21

[7] J. Schofield, Aftermath. Readings in the archaeology of recent conflict, Springer, New York – Londra 2009.

[8] A. González Ruibal, Archaeology of the Spanish civil war, Routledge, Londra 2020.

[9] Tra le tante riflessioni scritte a riguardo, segnaliamo per efficacia e varietà quella curata da David Dean su International Public History: D. Dean (a cura di) Fallen monuments, in “International Public History”, vol. 1 issue 2,  october 2018.

[10] C. Colls, Holocaust Archaeologies, Springer, Berlino 2015.

[11] La pagina online del progetto è disponibile sul sito dell’Università: https://www.staffs.ac.uk/research/projects/finding-treblinka-project

[12] David Irving è uno dei più noti negazionisti dell’olocausto, famoso anche per l’arresto che ha subito in Austria

[13] V. Ricciardi, La Russa riscrive la storia: dai fascisti memorabili, ai partigiani contro le bande musicali, in “Domani”, 31 marzo 2023. https://www.editorialedomani.it/politica/la-russa-riscrive-la-storia-dai-fascisti-memorabili-ai-partigiani-contro-le-bande-musicali-q3m249i9

[14] G. Volpe, Archeologia pubblica, Carocci, Roma 2020.

[15] Si veda https://www.nps.gov/afbg/index.htm. Inoltre ne parla A. Augenti in un episodio del podcast Dalla Terra alla Storia: l’avventura dell’Archeologia, Rai Radio 3, disponibile su Radio Play Sound https://www.raiplaysound.it/audio/2021/08/DALLA-TERRA-ALLA-STORIA-La-storia-negata-Un-cimitero-africano-a-Manhattan–fe115705-442d-4f04-abc1-992e7e2de7b0.html

Dati articolo

Autore:
Titolo: Il paesaggio come fonte storica e strumento didattico: l’archeologia dell’età contemporanea
DOI: 10.52056/9791254696965/13
Parole chiave: , , , ,
Numero della rivista: n.21, giugno 2024
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Il paesaggio come fonte storica e strumento didattico: l’archeologia dell’età contemporanea, in Novecento.org, n. 21, giugno 2024. DOI: 10.52056/9791254696965/13

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