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Metodologie applicate alla didattica della Shoah

Metodologie applicate alla didattica della Shoah

Visita guidata all’ex campo di Fossoli.
Crediti: https://www.fondazionefossoli.org/news-ed-eventi/eventi/visite-in-libera-aggregazione/

Abstract

Una ricognizione su alcune delle principali metodologie didattiche della Shoah attraverso l’analisi di casi studio e il supporto di una bibliografia specialistica. Un resoconto sui risultati ottenuti e gli interrogativi che pongono. Spunti per trascendere dalla didattica alla pedagogia della Shoah, l’opportunità e il rischio dell’attualizzazione. Breve prontuario, a disposizione di docenti o educatori, con istruzioni molto operative per raggiungere l’interesse degli studenti e facilitare l’apprendimento.

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A survey of some of the main teaching methodologies of the Shoah through the analysis of case studies and the support of a specialised bibliography. An account of the results obtained and the questions they raise. Hints for transcending from didactics to pedagogy of the Shoah, the opportunity and the risk of actualisation. A short handbook, available to teachers or educators, with very operational instructions to reach students’ interest and facilitate learning.

double blind peer review double blind peer review Questo articolo è stato sottoposto a revisione in doppio cieco (double blind peer review)

Didattica tout court e didattica della Shoah

Alcune precisazioni preliminari. Certe osservazioni che appaiono nel seguente lavoro sono il depositato di riflessioni personali che l’autore ha maturato nella sua attività di operatore storico culturale, con gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado.

Se la didattica della Shoah soggiace alle stesse dinamiche che regolano l’apprendimento di ogni altra materia, l’attenzione riguardo al metodo, qui ancor più che altrove, dovrebbe rimanere massima. Ma nella didattica in generale, non meno che in questa situazione specifica, il vecchio adagio gentiliano “sii uomo e sarai maestro”, l’idea che la formazione del docente coincida meramente con la “sua preparazione culturale ed umana”[1], o che in fondo conti solo la passione dell’insegnante[2] pare ancora in auge. Ed è assai frequente che chi ha alle spalle vent’anni di docenza sia riluttante rispetto alla necessità di rimettere in discussione i suoi modelli e le sue metodologie, prediligendo invece pratiche educative consolidate dall’esperienza, adottate secondo il mero buon senso o mutuate da contesti diversi[3].

La ricerca contemporanea ha però ampiamente dimostrato che i metodi didattici possono fare una rilevante differenza, a parità di scuola, di materia e di contesto socio-culturale. Si è anche giunti all’adozione di un’unità di misura, l’ES (effect size), per attribuire un indice di efficacia della specifica azione o strategia didattica[4]. C’è chi per altro, come lo storico francese Henry Rousso, trova inconsueto, per non dire sospetto, che mentre «tutte le politiche pubbliche […] sono soggette a forme di valutazione e benchmarking»,[5] quella della memoria, ivi inclusa la didattica della Shoah, siano ancora esenti da questo genere di controllo.

Allora come trasmettere gli insegnamenti della Shoah nel modo più efficace sul piano didattico, con rigore storico e senza scadere in celebrazioni demagogiche?[6]

Principi metodologici generali

Quanto acquisito dalla ricerca scientifica circa alcuni principi metodologici didattici generali, rimane certamente valido anche per l’insegnamento della Shoah.

Si consideri in primo luogo il principio di segmentazione, ovvero la necessità di scomporre un problema/interrogativo complesso in questioni (relativamente) più semplici. Pertanto, alla domanda “come sono state possibili le deportazioni?” si risponderà trovando le ragioni dell’ascesa del fascismo e del nazismo, del loro consenso presso i gruppi e dirigenti, del supporto della popolazione[7].

Inoltre, dal momento che il rischio in ogni contesto didattico è il cosiddetto sovraccarico cognitivo, ovvero quella condizione di calo d’attenzione causata da un eccesso di informazioni ricevute, anche nell’apprendimento della materia in oggetto è necessario applicare i principi della modalità e della multimedialità. Il primo di questi afferma semplicemente che il discorso orale, piuttosto che quello scritto, alleggerisce notevolmente il carico cognitivo, risultando, non solo per questa ragione, più efficace a livello comunicativo. Ma quand’anche l’oralità prevalga sulla scrittura, il secondo principio, quello di multimedialità, suggerisce di integrare l’apprendimento, com’è ovvio, con l’utilizzo di immagini fornendo elementi più ricchi per la memorizzazione.[8] Per quanto possibile poi il suggerimento è quello di ricorrere a un alto livello di partecipazione, richiedendo magari feedback e sollecitando domande. Nei confronti di studenti poco propensi ad avanzare domande, una pratica molto utile è riportare loro alcuni interrogativi che l’insegnante ha raccolto da coetanei, per esempio di un’altra classe, quindi procedere con la risposta. A quel punto spesso dalle retrovie qualcuno mormora «era proprio quello che volevo chiedere».

Regola aurea è poi quella di attivare le preconoscenze dell’allievo. L’apprendimento infatti avviene laddove queste, anche se lacunose, siano rapportate alle nuove informazioni, riformulandone il significato e producendo schemi interpretativi nuovi.[9]

Preconoscenze o pregiudizi?

Oggigiorno non c’è allievo di quinta elementare avulso da preconoscenze in merito alla Shoah[10] e queste sono preconoscenze condivise sulle quali il docente o chi per lui può innestare una spiegazione esaustiva di quanto accaduto. Dal punto di vista didattico però, in alcune occasioni può valere il procedimento opposto, ovvero quello di abbattere certe preconoscenze, disorientare lo studente per poi ricondurlo verso la strada maestra.[11]

Gli studenti, per esempio, sono soliti associare Auschwitz al freddo e all’inverno, eppure nel lager un problema assai più gravoso era quello rappresentato dal caldo in estate quando la sete, rammenta Primo Levi, diventava insopportabile.

La sete ci straziava. É più imperiosa della fame: la fame obbedisce ai nervi, concede remissioni, può essere temporaneamente coperta da un’emozione, un dolore, una paura (ce ne eravamo accorti nel viaggio in treno dall’Italia); non così la sete, che non dà tregua.[12]

Con le classi in visita a Fossoli, un interessante elemento di disorientamento può essere introdotto invitando gli studenti a osservare qualche edificio in particolare, per esempio quello che negli anni Sessanta era un bar, oppure una scuola elementare o ancora un negozio alimentare. Quasi tutti rimangono basiti nel sapere che in un ex campo di concentramento, dove loro si aspettano di essere arrivati, sia sorto del dopoguerra un centro profughi con tutte le caratteristiche di un piccolo paese, nella fattispecie il Villaggio San Marco abitato da esuli istriani. Questo non è soltanto un modo per catturare la loro attenzione, suscitando incredulità e dunque curiosità, ma anche una introduzione alla stratificazione complessa del luogo (partendo dalla fine, come si fa nelle migliori sceneggiature).

Il trasferimento di quanto appreso in contesti diversi, ovvero nella sua attualizzazione, principio metodologico promosso da illustri pedagogisti (Hattie per citarne uno), nel caso della Shoah è questione assai delicata che rimandiamo al paragrafo successivo.

Ciò detto, si considerino i grandi vantaggi che offrono i luoghi di memoria sul piano delle strategie didattiche. Una visita guidata in un campo di concentramento come Fossoli, la Risiera di San Sabba, presso un memoriale come quello della Shoah a Milano, per rimanere all’Italia, o in altri luoghi di sicuro interesse storico, è un’esperienza che riveste per gli studenti una grande rilevanza didattica, proprio in quanto coglie quegli aspetti di cui sopra. Non ci si riferisce ai viaggi della memoria, più impegnativi a livello organizzativo, di cui si dirà oltre, ma alla conduzione degli studenti fuori dal contesto educativo formale per intavolare una lezione sulla Shoah nei luoghi in cui quella, a diverso titolo, si è consumata.[13]

Principi metodologici specifici

 Emozioni e fatti storici

«La didattica della Shoah dovrebbe ruotare intorno a due cardini imprescindibili, se si desidera davvero produrre negli studenti un apprendimento duraturo e profondo: emozione e conoscenza».[14] Questa dicotomia è pressappoco la medesima che si riverbera in quella tra testimoni e fonti, ma soprattutto fra Memoria e Storia. Il principio metodologico specifico per la Shoah richiede che il docente, o chi per lui, tutte le volte, rispettivamente al mutare del contesto, del gruppo classe, dell’età degli allievi, riorganizzi e rimoduli questa relazione enantiologica. È auspicabile anzi che, con l’avanzare dell’età degli alunni, la percentuale di ricorso all’emozione e alle testimonianze diminuisca a vantaggio dell’utilizzo delle fonti (documenti, reperti).

Così, se alla scuola primaria è evidentemente l’emozione che deve prevalere, alle secondarie di secondo grado si dovrebbe insistere maggiormente sulla conoscenza dei fatti storici.

Il ricorso diretto o indiretto al testimone nelle scuole primarie, come in quelle secondarie di primo grado, è indispensabile pur con qualche accorgimento. Sarebbe opportuno preferire vicende che raccontino della giovinezza del protagonista, della sua espulsione dalla scuola pubblica, o della quotidianità in tempo di guerra. L’immedesimazione gioca in questo ambito un ruolo fondamentale. Ancora più importante però è scegliere storie a lieto fine o comunque epurare la narrazione di elementi eccessivamente dolorosi.

È opportuno selezionare le informazioni senza snaturare gli eventi. Alla scuola primaria è preferibile narrare solo alcuni aspetti della Storia, magari focalizzando l’attenzione su chi si è salvato o comunque su conclusioni accettabili: il dolore lasciato da solo non porta frutto, conoscerlo e affrontarlo insieme, narrare e rinarrare, apre spiragli e lascia entrare nuova luce.[15]

È compito dell’insegnante, o dell’operatore didattico, selezionare i contenuti, soppesare i linguaggi, allo scopo di non portare troppa angoscia, avanzando piuttosto esempi di nobiltà d’animo. Misurare l’apporto di afflizione alle vicende è un precetto valido ad ogni livello scolastico. Non è affatto detto che uno studente di quinta superiore possa sopportare tutto e l’eccessivo dolore dal punto di vista didattico è controproducente. Può accadere per esempio che un alunno, rivelatosi molto attento durante l’intera lezione sulla Shoah, facendo domande pertinenti ed ascoltando in modo attivo, poi al cospetto della descrizione delle camere a gas inspiegabilmente si distragga, scherzando con un compagno o spulciando il telefono. Il dolore trasmesso è andato inavvertitamente fuori soglia. Pertanto, è davvero «poco efficace insistere sull’elenco delle sofferenze […] che fa aumentare il senso di angoscia e disagio e innesta meccanismi di allontanamento, tipici della difesa»,[16] che ostacolano l’apprendimento. L’abuso emotivo della memoria è spesso agito in buona fede dai docenti. Ma non è attraverso traumi vicari che si può insegnare la Shoah agli studenti.[17]

L’importanza dell’approccio alle fonti

Nelle secondarie di primo grado l’importanza delle fonti e delle conoscenze dei fatti deve già iniziare a emergere, ma non a detrimento dell’emozione o della testimonianza. Un esempio interessante di primo approccio alle fonti è il laboratorio Leggi Razziali proposto dalla Fondazione Fossoli agli studenti delle scuole medie. Esso consiste nello sperimentare il mestiere dello storico attingendo a copie di documenti dell’epoca. Gli studenti, dopo aver analizzato meticolosamente questi materiali (comunicazioni protocollate, lettere, fotografie, manifesti, articoli di giornale) attraverso la compilazione di griglie che raccolgono le caratteristiche specifiche di ciascun documento, sono chiamati a rispondere ad alcune domande. Tramite una disamina di queste fonti e dei relativi fatti, i ragazzi comprendono come storicamente è avvenuto in Italia il passaggio dalla discriminazione degli ebrei alla loro persecuzione, accompagnati da un operatore specializzato che stimola il dibattito tra cinque gruppi di lavoro chiamati a operare in autonomia.

Nelle secondarie di secondo grado l’enfasi sul metodo storiografico andrebbe sollecitata a chiunque si occupi di insegnare la Storia, come antidoto contro negazionismi, revisionismi, riduzionismi.

Di fronte a un fenomeno che si presta a una pluralità di letture possibili, gli storici, gli scienziati e in generale tutti gli esseri ragionevoli prendono in considerazione solo le ipotesi empiricamente testabili […]. A parità di coerenza, prediligono le ipotesi che spiegano più fatti. A parità delle altre condizioni, optano per le spiegazioni più semplici.[18]

Siamo tutti convinti che Hitler sia morto suicida nel proprio bunker, ma perché dovremmo crederlo? Perché l’abbiamo letto nei libri di Storia? E perché ci fidiamo di questi libri? Perché presumiamo che, in assenza di prove contrarie, gli storici, rispettando i principi di cui sopra, abbiano selezionato e analizzato i documenti in modo ponderato. Quandanche però volessimo verificare questa interpretazione dei fatti, comunemente accettata, potremmo recuperare le fonti consultate dagli storici che se ne sono occupati (e che hanno citato in quei libri). Se al netto di questa nostra personale ricerca, i tentativi di smentita della tesi accreditata dovessero fallire, questa stessa ne risulterebbe ulteriormente rafforzata, secondo i criteri del metodo scientifico che guidano le scelte delle ipotesi più adatte e che gli studenti dovrebbero apprendere. Il concetto di regole del gioco è piuttosto semplice da imparare da parte degli alunni. Un negazionista è un individuo che pretende di partecipare alla nostra partita di calcio, senza rispettarne le regole (il metodo scientifico) o applicando a suo arbitrio quelle della pallamano (qualsiasi altro metodo). Ecco perché discutere con i negazionisti è come giocare con un baro, ha poco senso ed è poco divertente. Molto utile invece è parlare dei negazionisti, anche a scuola.

Le fonti orali e la didattica del testimone

 Il tema della ineluttabile scomparsa dei superstiti è certamente una criticità con cui la didattica della Shoah deve confrontarsi[19]. Si tratta d’altra parte di un terminale biologico non storiografico, in quanto la testimonianza in sé rimane comunque accessibile e consultabile. La problematizzazione della figura del testimone riguarda piuttosto i limiti, oltre che il valore, della memorialistica in sé.[20]

A fronte di errori, distorsioni, falsi ricordi, di cui sono inevitabilmente intessute le testimonianze, gli storici hanno stilato una sorta di checklist per decidere dell’accettabilità di una dichiarazione rilasciata da un ex deportato, un bystander o un perpetratore.

Dal punto di vista comunicativo, i due indici sono tenuti insieme da una sorta di premessa, da un impegno al contempo autobiografico (IO/autore sono chi dico di essere), testimoniale (io ERO LÌ) e referenziale (io ero lì e ho visto x: credo sinceramente di aver visto x, e CHIEDO a chi mi ascolta di CREDERMI). Solo se la dichiarazione viene accolta […] – in tutte e tre le sue clausole – la testimonianza si candida al ruolo di prova che ‘qualcosa è successo.[21]

Si tratta beninteso di una candidatura, non già di un’assunzione in quanto prova, che può avvenire solo quando tale testimonianza risulta compatibile con fonti già accertate. In estrema sintesi la strada che una dichiarazione, orale o scritta, deve percorrere per diventare attendibile ed assurgere a fatto storico oggettivo, passa attraverso l’incontro confirmatorio con una fonte testuale (documento), materiale (reperto) oppure altre testimonianze. Un facile esercizio potrebbe essere leggere le memorie di un ex deportato e illustrare ai ragazzi come i fatti raccontati collimino con altri riferimenti già noti e appurati. Per esempio Gilberto Salmoni, transitato a Fossoli, racconta come la sua condizione di ebreo “misto” lo escludesse da un’ulteriore deportazione verso la Germania e addirittura potesse essere preludio di una prossima liberazione.

La speranza che i coniugi di matrimonio misto e i relativi figli vengano alla fine esentati dalla persecuzione, come inizialmente previsto ma poi disatteso, si riscontra di frequente nella corrispondenza redatta dal campo di Fossoli. Ada Michelstaedter Marchesini confessa al marito come «tutti parlano di questa liberazione e anche a non voler pensarci ci si pensa ugualmente».[22] Si tratta di un disperato sforzo di tranquillizzare il coniuge anche quello di Clara Pirani Cardosi quando scrive che, in questo campo di smistamento dove «arrivano giornal. prigionieri politici od ebrei […], si parla di prossime partenze di convogli. I misti però resteranno, e secondo voci ottimistiche che circolano nel campo, non è improbabile una liberazione».[23] Incrociare queste testimonianze orali o scritte, posteriori o contemporanee ai fatti, è un esercizio molto semplice da proporre agli studenti, per spiegare loro come la congruenza dei contenuti qui descritti venga avvalorata da questa triangolazione. In ultima istanza, a coronamento di questa attività di indagine storica, sarebbe fondamentale scovare un documento (una circolare, una comunicazione protocollata) che corrobori definitivamente quanto i deportati hanno raccontato. Nella fattispecie si tratterebbe della Circolare del Ministero dell’Interno del 7 marzo 1944 n. 3968/442 che nondimeno, a seguito dell’attentato ad Hitler del luglio successivo, cesserà di validità, consegnando anche gli ebrei misti alla deportazione.

La soluzione didattica più efficace per far comprendere agli studenti delle superiori il procedere del metodo storiografico, nonché la sua scientificità, è dunque applicarlo a casi studio come quello sopra descritto, in cui una voce si iscrive in un coro che viene infine suggellato da fonti documentarie.

La Shoah tra specificità e i rischi di sacralizzazione

Per chiunque si occupi di didattica della Shoah, ricreare ogni volta il giusto bilanciamento tra Memoria e Storia, emozione e conoscenza, testimonianza e fonti, è certamente impegnativo e non privo di insidie. La partita più importante però si gioca su altro campo. La grande sfida è tessere con gli studenti un altro delicato e decisivo equilibrio, quello che potremmo definire tra l’attualizzazione della Shoah e la sua unicità. È certamente compito del docente effettuare «collegamenti fra la vita di ieri e quella di oggi per cercare similitudini fra le guerre del passato e le persecuzioni del mondo di adesso»[24], ma nel caso della Shoah è opportuno farlo con ponderazione, evitando di minimizzare la specificità del fenomeno[25].

Con gli studenti delle superiori è per esempio molto utile analizzare il significato delle parole chiave, per comprendere la pertinenza del loro utilizzo. È opportuno insistere per esempio sulla differenza tra etnocidio e genocidio, antisemitismo religioso e razziale, fascismo e nazismo, gulag e lager, in quanto da questi confronti la straordinarietà della Shoah appare nitidamente. Senza dubbio l’Olocausto

fu l’ennesimo episodio della lunga serie di omicidi di massa tentati [o che si stanno tentando], e della serie non molto più breve di quelli compiuti. Ma presenta anche caratteristiche che non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio[26]

come l’assenza di spontaneità nell’omicidio e il prevalere del progetto razionale. Inoltre è un fatto legato a irripetibili contingenze storiche che è necessario raccontare con rigore filologico e storiografico, evitando allo stesso tempo forme estreme di sacralizzazione.[27]

Rimane altrettanto vero che, pur contestualizzata nello spazio-tempo, la Shoah è un fenomeno specificamente moderno nelle sue caratteristiche: il sistema industriale di messa a morte, la monopolizzazione della violenza da parte dello Stato, la parcellizzazione delle funzioni e dunque delle responsabilità operata dalla burocrazia. «La civiltà moderna non è stata la condizione sufficiente dell’Olocausto, ma ha rappresentato senza alcun dubbio la sua condizione necessaria. Senza di essa l’Olocausto sarebbe impensabile».[28] La propaganda dei media istituzionali che sembra operare per lo scardinamento del pensiero critico, il tentativo di omologazione, il mancato riconoscimento e tutela delle differenze personali, etniche, religiose, e le derive di intolleranza che da questo atteggiamento spesso scaturiscono, sono tutte questioni che c’entrano con la Shoah e che è possibile affrontare parlando dell’attualità. Evidentemente questi temi, ribadiamo, non sarebbero sufficienti per condurre alla Shoah, ma sono sue precondizioni.

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico» […]. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. [29]

Gli spunti per trascendere dalla didattica alla pedagogia della Shoah sono molti e non è questa la sede per scandagliarli tutti. Chi scrive trova però particolarmente utile attualizzare con gli alunni la questione del gregarismo. Come è noto infatti nella maggior parte dei casi i carnefici furono indotti a torturare, uccidere, massacrare non tanto per la paura di un’eventuale punizione che il loro diniego avrebbe comportato, ma piuttosto perché «rifiutarsi di seguire il gruppo genera, in misura ancora maggiore, un isolamento […]. Dire no al crimine in tali condizioni significa assumersi il rischio di essere rifiutati e abbandonati dai compagni […]».[30]

Soprattutto partendo da questi presupposti si può «costruire uno spirito solidale e comunitario a partire da questo elogio della solitudine contro il pensiero gregario».[31] Gregarismo e bullismo non sono accadimenti così rari nelle scuole, è fondamentale stigmatizzarli e al contempo sfruttarli per raccontare della natura umana.

La «memoria di Auschwitz», ponendo interrogativi alle strutture del nostro presente, è una memoria viva, non legata al solo martirologio. Essa educa alla diffidenza nei confronti dell’autorità e del gruppo, così come alla critica dell’ordine costituito. Poiché esamina i più diversi comportamenti sociali, mette in luce i legami fra il crimine e la normalità.[32]

Se la Storia deve parlare di noi, quella della Shoah è un’occasione propizia, dacché consente di esaminare alcune dinamiche della nostra società, nonché degli individui che la abitano, in condizioni ordinarie non rilevabili o latenti, per parafrasare Levi.[33]

Metodologie

Racconto, riadattamento, rappresentazione

Allora, se l’insegnamento della Shoah implica non solo l’illustrazione di un fatto storico, ma anche il suo rapporto con il presente[34], quali sono i modelli didattici o le metodologie più efficaci?

Per le scuole primarie e secondarie di primo grado un’attività interessante e ricca di spunti può essere quella del racconto. Essa consiste nel raccogliere la testimonianza diretta o indiretta di un ex-deportato e ricostruirne la vicenda, adattandola al proprio personale punto vista. È quanto proposto da Gianluca Gabrielli a una classe elementare a proposito della giovane staffetta partigiana bolognese Nella Baroncini. Questa sperimentazione didattica coglie due aspetti importanti a cui si accennava poc’anzi: privilegia una vicenda a lieto fine ma soprattutto valorizza sapientemente le preconoscenze, in quanto ai bambini viene chiesto di scrivere loro stessi una storia, impersonando un animale a scelta che vive in libertà ma è catturato e portato allo zoo.[35] Una declinazione interessante e grandemente efficace di questa metodologia è quella del racconto illustrato, vale a dire della ricostruzione di testimonianze attraverso disegni prodotti dagli alunni. È quanto per esempio hanno realizzato nella scuola secondaria di primo grado Guido Guinizelli di Bologna, nell’ambito del Progetto europeo Rememchild, con il workshop “Co-creative drawn story”[36].

Per rimanere nell’ambito del riadattamento delle testimonianze, vicende, storie autentiche di personaggi coinvolti nei fatti, alle secondarie di secondo grado si possono proporre ricostruzioni, riconversioni non grafiche ma puramente testuali, come brevi sceneggiature. Si tratta di ricostruire la vita di deportati, rileggendo l’esperienza persecutoria attraverso i progetti, i sogni o le paure che si crede potessero avere. Le rappresentazioni teatrali e le produzioni audiovisive sono del pari da considerare con prudenza, non per il timore di imperizia tecnica, di difetti di ordine formale, «ma contenutistico. L’universo concentrazionario nei video dei ragazzi […] appare di norma come una realtà omogenea»,[37] semplice e stilizzata, dunque molto lontano dal suo essere invece complessa, aggrovigliata e rarefatta.

Peer education

Nelle scuole secondarie di primo grado i laboratori didattici possono dare al contrario ottimi risultati. Quelli che eroga la Fondazione Fossoli riguardano temi specifici, quali le leggi razziali, l’arte degenerata, la genealogia della svastica, la Costituzione Italiana, la quotidianità in tempo di guerra e altri. Essi propongono a studenti e studentesse l’analisi di fonti di vario genere, simulando il lavoro dello storico. Per quanto riguarda il setting dell’aula, è vantaggioso in questi casi suddividere una classe in almeno cinque gruppi ed affidare a ciascuno materiali diversi. Ogni gruppo poi deve scegliere un relatore, vale a dire colui che ad alta voce leggerà le risposte agli interrogativi riguardanti i suoi documenti. In questa attività la parte espositiva è altrettanto importante di quella operativa, e la inquadra nella dimensione della peer education, che in questo caso prevede che gli studenti siano impegnati nell’insegnare ai propri compagni quanto hanno appreso in un’attività laboratoriale, dall’incontro con un testimone (o con un suo parente), o ancora dopo la visita in un luogo di memoria. Anche il progetto “Apprendisti Ciceroni”, organizzato dal Fondo Ambiente Italiano, durante le Giornate FAI di Primavera o d’Autunno, è un’iniziativa che si inscrive in questo filone. Si tratta di un percorso formativo, inserito nel Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), che invita gli studenti a vestire per qualche giorno i panni di guide turistiche ed accompagnare il pubblico, composto da genitori, coetanei, compagni di classe, alla scoperta del patrimonio d’arte, di natura, di storia del loro territorio. Un esempio di peer education è anche quello proposto da alcuni insegnanti di un liceo in visita al Museo Monumento al Deportato Politico e Razziale di Carpi. In classe ogni studente ha dovuto scegliere un libro tra quelli disposti dall’insegnante, leggerlo in autonomia e poi, in prossimità del Giorno della memoria, esporlo ai compagni o durante l’assemblea d’istituto. Questa metodologia, che normalmente vanta un indice di efficacia significativo, nella didattica della Shoah  appare ancora più utile quando le letture consigliate includono, oltre alle testimonianze delle vittime (“Se questo è un uomo”, “Il diario di Anna Frank”, “Sonderkommando Auschwitz”), anche la biografia e il vissuto dei carnefici (“In quelle tenebre”, “Comandante ad Auschwitz”, “La banalità del male”).

Podcast, audiolibri, app: didattica 2.0

Anche per quanto concerne la Shoah, è convinzione diffusa che gli strumenti digitali con cui si misurano quotidianamente i discenti non possano essere ignorati, e debbano invece rientrare tra gli elementi di una didattica della storia efficace[38].

Podcast, audiolibri, applicazioni, webinar possono rivelarsi strumenti didattici molto validi. Lo sono ancor di più quando gli studenti da fruitori ne diventano costruttori. ANEDdoti è un podcast ideato da Leonardo Zanchi, giovane presidente dell’ANED di Bergamo, che racconta le vite di deportati nei lager nazisti attraverso le testimonianze dei figli. Si tratta di un prodotto di grande valore didattico e divulgativo. Alcuni episodi hanno per altro visto la partecipazione diretta di studenti delle scuole medie bergamasche, che con grande pathos hanno narrato in prima o terza persona le vicende dei protagonisti.

La Fondazione Fossoli è impegnata da anni in progetti didattici con le scuole di ogni ordine e grado della provincia di Modena. Alcuni di questi hanno visto il coinvolgimento di studenti degli istituti superiori nella realizzazione di prodotti digitali, quale per esempio “Carpi in guerra”. Questa applicazione per smartphone, creata dai ragazzi coadiuvati dai docenti di diverse materie, ricca di contenuti multimediali che gli stessi hanno raccolto e selezionato, consente a chiunque di visitare la città di Carpi, seguendo un percorso a tappe, accedendo a materiali, fonti, testimonianze che raccontano la quotidianità in tempo di guerra. Tali iniziative possono essere realizzate anche autonomamente dai docenti e dalle classi, senza cioè il supporto, che sarebbe pur sempre consigliabile, di enti che si occupano di memoria. Per esempio la classe 3A dell’Istituto Comprensivo San Giovanni Bosco di Campogalliano lo scorso anno ha realizzato, non attingendo ad alcun aiuto, fuorché alla volontà degli studenti e degli insegnanti, un piccolo sito web sul Museo al Deportato Politico e Razziale di Carpi[39]. Interessante notare che in fondo alla homepage compaiono i nomi degli alunni coinvolti, divisi per funzione o ruolo, dunque web designer, 3D designer, ricercatori, project manager.

Queste attività, oltre ad ossequiare i principi della cosiddetta “didattica 2.0”, sono efficaci in quanto sfruttano le dinamiche della progettazione partecipata, cioè un tipo di cooperative learning con finalità però molto pratiche. Si tratta di una metodologia nella quale ogni alunno è considerato soggetto attivo, portatore di idee e proposte, a ciascuna delle quali viene riconosciuta la stessa possibilità di apportare cambiamenti a una situazione. L’indubbia utilità didattica riconosciuta alla progettazione partecipata è quella di portare gli alunni a sentirsi creatori di qualcosa di tangibile, ad esserne corresponsabili. Tali esperienze inoltre favoriscono il coinvolgimento dei genitori, che saranno indotti a salvaguardare, custodire, utilizzare ciò che i loro figli hanno contribuito a realizzare.

I viaggi della memoria

Una riflessione a parte meritano i viaggi della memoria, intesi come l’insieme del viaggio, della preparazione preliminare e della restituzione finale. Dati viaggi devono trovare modo di estendersi attraverso una programmazione ampia e articolata, fuori e dentro la classe[40]. Si tratta di coinvolgere i docenti in attività didattiche che valorizzino contenuti o finalità del progetto e di pensare ad un target di studenti quanto più possibile omogeneo, a livello scolastico e motivazionale. Certamente poi un’esperienza didattica di questa portata prevede una preparazione che orienti lo studente sulla specificità del luogo che si accinge a visitare[41], su quanto è rimasto, oppure volutamente cancellato (si prenda Gusen come caso eclatante[42]). Il taccuino che Istoreco ha donato agli studenti in procinto di partire per il viaggio della memoria 2023, ovvero quello verso Praga e Terezin, oltre ad essere molto ricco di informazioni sui luoghi, di testimonianze, di rimandi bibliografici, rappresenta anche una sorta di vademecum. Tra le indicazioni che si intende dare ai partecipanti, compare un interessante box che spiega quando e come usare lo smartphone. Si legge:

stiamo vivendo un viaggio unico […] sarebbe un peccato perdersi il momento per rispondere ad una chat di gruppo […]. Incontreremo professionisti e guide esperte che si sono formate su questi temi, in alcuni casi, apposta per noi. Il loro lavoro va trattato con rispetto ed educazione: controlliamo sempre di avere lo smartphone in modalità silenziosa.

Le istruzioni per un utilizzo proficuo e consapevole del dispositivo permettono già di intuire che “il dopo”, nei viaggi della memoria, è altrettanto importante del “prima”. Infatti qui viene consigliato di usare «lo smartphone come supporto alla nostra memoria a lungo termine: le foto e i video che abbiamo girato ci ricorderanno per sempre alcuni dettagli del nostro viaggio».

Il “dopo” però non si limita ad un album di ricordi digitali da riportarsi a casa, si tratta altresì di incentivare la fase di restituzione. Al ritorno dal viaggio, quanto è stato vissuto può assumere la forma di una produzione scritta, un’opera poetica-letteraria, una composizione video-fotografica documentale da condividere, ancor meglio pubblicamente, con gli studenti delle classi che non hanno partecipato o i familiari. Si tratta di rielaborare la propria esperienza, affinché non si concluda con la fine temporale del viaggio ma, anzi, orienti i ragazzi ad un impegno come testimoni di una memoria pubblica.

Conclusioni

Questo breve scritto intende proporre alcune istruzioni operative che riguardano le buone pratiche attualmente in essere nel campo della didattica della Shoah. L’unica considerazione che chi scrive è convinto di poter assumere come chiave di volta, è prestare attenzione al fondamentale equilibrio di cui si diceva. Questo bilanciamento può essere declinato e rimodulato a seconda del contesto in Memoria-Storia, testimonianze-fonti, emozione-conoscenza, attualità e unicità. Se il sistema concentrazionario nazista è indissolubilmente collocato in un contesto storico irripetibile, la catena di meccanismi che ha portato al compiersi della tragedia può rimettersi in moto. Se da un lato la didattica della Shoah provvederà a spiegare le ragioni storiche del fenomeno, al contempo non può sottrarsi alla questione che, in un modo o nell’altro, si pone davanti a ciascun alunno: “perché e in che cosa Auschwitz mi riguarda” [43].

Bibliografia
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  • M. Laeng, Pedagogia sperimentale, La Nuova Italia, Firenze 1992.
  • P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
  • P. Levi, Se questo è un uomo, La tregua, Einaudi, Torino 1989.
  • A. Michlstaedter Marchesini, Lettere dal campo di Fossoli (27 aprile – 31 luglio 1944), Ega, Torino 2003.
  • M. Mencarelli, F. Montuschi, Educazione e sperimentazione, La Scuola, Brescia 1970.
  • V. Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Mondadori, Torino 2012.
  • V. Pisanty, I guardiani della memoria: E il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, Milano 2020.
  • H. Rousso, Face au passé, Belin, Parigi 2016.
  • G. Salmoni, Una storia nella Storia. Ricordi e riflessioni di un testimone di Fossoli e Buchenwald, Ega, Torino 2005.
  • E. Traverso (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

 


Note:

[1] M. Castoldi, Didattica generale, Mondadori, Milano 2010, p. 6.

[2] A. Calvani, R. Trinchero, Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene, Carocci, Roma 2020, p. 13.

[3] F. Belsito, F. Milito, Progettare e valutare nella scuola delle competenze, Anicia, Roma 2016, p. 141.

[4] Calvani, Trinchero, 2020, p. 17.

[5] H. Rousso, Face au passé, Belin, Parigi 2016, p. 24.

[6] E. Edallo (a cura di), Insegnare l’indicibile. Didattica della Shoah e della deportazione, Biblion, Milano 2021, p. 6.

[7] Edallo, 2021, p. 108.

[8] Edallo, 2021, p. 107.

[9] E. Traverso (a cura di), Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 103.

[10] Questa affermazione è stata contestata da alcuni insegnanti della scuola primaria. È pur vero che molti studenti delle elementari ignorano completamente il tema, d’altra parte è improbabile che un bambino non conosca il concetto di “prigione” e il suo opposto, quello di “casa”, che possono essere considerati come preconoscenze.

[11] Traverso, 1995, p. 120.

[12] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 57.

[13] Si veda  A. Spinelli, Luoghi della memoria e odonomastica fascista: esperimenti di outdoor education, in “Novecento.org”, n.20, dicembre 2023. DOI: 10.52056/9791254695371/10 e A. Spinelli, I luoghi tra storia e memorie: valorizzazione, contaminazione, mimetizzazione, oblio, in “Novecento.org”, n.20, dicembre 2023. DOI: 10.52056/9791254695371/14

[14] A. Chiappano (a cura di), Conoscere la Shoah in Italia e in Europa. Seminario di formazione. ITCG L. Pacioli, Crema 2006, p. 183.

[15] Edallo, 2021, p. 81.

[16] Edallo, 2021, p. 84.

[17] V. Pisanty, I guardiani della memoria: E il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, Milano 2020, p. 126.

[18] Pisanty, 2020, p. 50.

[19] Si veda C. Marcellini, Testimoni a scuola. Una riflessione sull’uso delle fonti orali per la didattica della storia, in “Novecento.org”, n. 3, 2014. DOI: 10.12977/nov42 e C. Marcellini, Insegnare la Shoah. È un monito per il futuro?, in “Novecento.org”, n. 13, febbraio 2020. DOI: 10.12977/nov315.

[20] Traverso, 1995, p. 121.

[21] Pisanty, 2020, pp. 210-211.

[22] A. Michlstaedter Marchesini, Lettere dal campo di Fossoli (27 aprile – 31 luglio 1944), Ega, Torino 2003, p. 97

[23] G. Cardosi, M. Cardosi, G. Cardosi, Sul confine: la questione dei “matrimoni misti” durante la persecuzione antiebraica in Italia e in Europa (1935-1945), Zamorani, Torino 1998, p. 32.

[24] Edallo. 2021, p. 86.

[25] G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz: Come ricordare?, Einaudi, Torino 2014, p. 57.

[26] Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 2010, p. 131.

[27] V. Pisanty, Abusi di memoria…, p. 89.

[28] Bauman, 2010, p. 32.

[29] P. Levi, Se questo è un uomo, La tregua, Einaudi, Torino 1989, p. 9.

[30] Bensoussan, 2014, p. 74.

[31] Bensoussan, 2014, p. 84.

[32] Bensoussan, 2014, p. 82.

[33] Levi,1989, p. 9.

[34] Edallo, 2021, , p. 115.

[35] G. Gabrielli, Un Sentiero Verso Fossoli: Il Tema Dei Campi Di Concentramento Alla Scuola Primaria, in “Novecento.org”, n.20, dicembre 2023. DOI: 10.52056/9791254695371/19.

[36] Rememchild Workshop: Co-creative drawn story con la 2°E della Scuola “Guido Guinizelli” di Bologna, url consultata il 19 giungo 2024.

[37] Traverso, 1995, p. 188.

[38] Edallo, 2021, p. 110.

[39] https://sites.google.com/icsgbosco.istruzioneer.it/3aprogettomuseoaldeportato, url consultata il 19 giungo 2024.

[40] Edallo, 2021, p. 126.

[41] Traverso, 1995, p. 171.

[42] Il territorio del sottocampo di Gusen è stato lottizzato negli anni Cinquanta ed è tuttora usato a scopo residenziale. Le tracce del campo sono state quasi totalmente cancellate, ad eccezione di un memoriale progettato dal gruppo BBPR e costruito a spese delle associazioni di ex-deportati.

[43] Traverso, 1995, p. 37.