Perché la storia dello sport?
Gli italiani amano poco lo sport; gli italiani allo sport preferiscono lo scopone. All’aria aperta preferiscono la clausura in una bettola-caffè, al movimento la quiete intorno al tavolo [… ] Osservate una partita di football: essa è un modello di società individualistica: vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge. Le personalità si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera ma per capacità specifica; c’è il movimento, la gara, la lotta, ma esse sono regolate da una legge non scritta, che si chiama lealtà e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro. Paesaggio aperto, circolazione di aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all’azione.
A. Gramsci, Il football e lo scopone, in Sotto la Mole ,1916-1920, Torino, Einaudi, 1960, pp. 433.444
Eroi
La storia dello sport, lungi dal configurarsi come un mero elenco di record, primati e classifiche, tende a ricostruire uno dei fenomeni più caratteristici della modernità del Ventesimo secolo. La sua specificità consiste nel situarsi all’incrocio fra una serie di discipline che vanno dalla storia alla filosofia, dalla letteratura alla antropologia, dalla pedagogia alla presentazione di scenari veicolati da una nuova figura di «eroe», il campione, che nell’immaginario del Ventesimo secolo viene a sostituire uno dei simboli più caratteristici della cultura classica. Infatti, come ha scritto anni fa uno storico della letteratura, sono proprio le figure dei campioni sportivi che, a partire dall’inizio del Ventesimo secolo, sostituiscono il logoro mito letterario dell’eroe:
Il bisogno del mito, della costruzione, degli eroi che la letteratura di fine secolo ha deluso o sconvolto, proprio con la morte dell’eroe, venga invece accolto e accontentato dalla mitologia sportiva, che sforna nuovi tipi di eroi e all’uomo inetto, all’uomo senza qualità oppone un tipo schietto e patetico di eroe, semplice e bello[1].
Il mito degli «italiani brava gente», fondato sulla rimozione storica dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano nelle ex colonie africane e nei territori occupati della II guerra mondiale, tende a investire anche i periodi successivi finendo per accreditare la leggenda degli italiani sempre disposti a un accomodamento e a sedare piuttosto che a scatenare conflitti. Ed è probabilmente nella lettura a posteriori di quel mito che rientra una delle pagine più controverse e dibattute del rapporto fra sport e politica dell’immediato secondo dopoguerra: quella relativa al ruolo di Gino Bartali «salvatore della patria» in occasione dell’attentato a Togliatti, il 14 luglio 1948.
Gino Bartali e la rivoluzione «mancata»
«Hanno sparato a Togliatti, è la rivoluzione»: questo il grido che il giornalista Silvio Magnozzi, sullo schermo Alberto Sordi, sente gridare dalla folla mentre esce dal Campidoglio dove si è appena sposato. In quel parapiglia il Magnozzi viene arrestato dalla polizia di Scelba con l’accusa di aver partecipato al tentativo di occupare gli studi radiofonici. Uscito da Regina Coeli e ritrovato il collega di cui aveva perso le tracce (sullo schermo l’attore Franco Fabrizi) Magnozzi gli chiede «Dov’ eri, ti ho perso…». E l’amico in risposta: «Scusa, sai, ero andato a prendere un cappuccino». Sordi, di rimando: «Ma come, c’ è la rivoluzione e te pigli il cappuccino?». Così Dino Risi avrebbe descritto in La vita difficile (1961) la giornata dell’attentato a Togliatti, il 14 luglio 1948, attraverso la figura di Silvio Magnozzi.
In realtà, né il 14 luglio e neppure nei giorni successivi ci sarebbe stata la rivoluzione. Vulgata vuole che la quasi contemporanea vittoria di Gino Bartali al Tour de France abbia contribuito in quei giorni ad allentare la tensione e a placare gli animi. In realtà la rivoluzione non scoppiò per una serie di motivi che nulla avevano a vedere con la vittoria di Gino Bartali al Tour de France[2]. Tuttavia quella leggenda è giunta fino ai nostri giorni grazie alla costruzione di un immaginario ancora sconvolto dalla seconda guerra mondiale e dunque permeabile a credenze e miti.
Del resto, e sulla scorta di una ormai ampia storiografia, la storia non riguarda solo eventi, o strutture, o modelli di comportamento, ma anche il modo in cui questi sono vissuti e ricordati nell’immaginario. Come a dire che «Le voci non sopravvivono a meno che non abbiano un senso per la gente»[3]. E, dunque, la figura dell’eroe presuppone un pubblico di gente comune presso la quale il gesto o l’impresa risponde ad aspettative, suscita ansie, e si deposita nelle emozioni collettive[4].
Odissea e Tour de France
Nel corso della guerra fredda compaiono madonne piangenti, cavalli montati da cosacchi diretti verso la capitale della cristianità e soldati dell’armata rossa che calpestano simboli dell’italianità. Orchi e mostri affollano le fantasie degli italiani e, in loro soccorso, accorrono fate e principesse. E anche i santi come Bartali con i loro miracoli che salvano l’Italia dalla rivoluzione[5].
All’inizio del Novecento, con la rottura con la cultura classica, la figura dell’eroe romantico scompare nella letteratura contemporanea e, al suo posto, emergono figure come il protagonista della Coscienza di Zeno, uomo inetto e goffo, incline al fallimento e poco propenso ad assumersi rischi e responsabilità.
Insomma, se la figura dell’eroe scompare nella letteratura, essa riappare, come per una sorta di legge della compensazione, nello sport, vero e proprio idolo della modernità del ventesimo secolo. Non è un caso che un fine semiologo come Roland Barthes abbia elevato a miti della contemporaneità i ciclisti del Tour de France paragonandoli agli eroi omerici dell’Odissea[6]. Bobet, Robic, Coppi e Bartali come Ulisse, Prometeo o Sisifo.
A ogni buon conto, Barthes scriveva queste considerazioni quando ancora il calcio non aveva superato, in quanto a popolarità, il ciclismo. Qualche anno più tardi Pier Paolo Pasolini nei suoi Scritti corsari avrebbe aggiornato quelle osservazioni definendo il calcio, nel frattempo assurto a spettacolo universale, come «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo»[7]. Una considerazione che anticipa di qualche anno le osservazioni di Camilo José Cela, che avrebbe definito il calcio il «pasto spirituale» della domenica[8].
Filosofi
A meno di non voler considerare divagazioni intellettualistiche e stravaganti le osservazioni di quanti, soprattutto fra semiologi e letterati, hanno elevato lo sport a uno dei fenomeni più caratteristici del Novecento, quello che stupisce è l’episodico interesse che la storia ha suscitato attorno allo sport come chiave interpretativa della nostra contemporaneità. Quasi che la scienza di Clio abbia considerato la pratica sportiva con sufficienza ritenendola un fenomeno privo dei quarti di nobiltà sufficienti per assurgere a dignità storiografica. La letteratura richiama infatti i nomi di Leopardi, De Amicis, Bontempelli, Saba, Pasolini, Montale Luzi o, fuori dai nostri confini, quelli di Soriano, Cela, Vargas Lllosa.
Per non parlare del mondo della canzone che proprio allo sport ha dedicato alcuni dei versi più belli: da Paolo Conte a Luciano Ligabue, da Francesco De Gregori a Gino Paoli, da Lucio Dalla ad Antonello Venditti per citane solo alcuni.
Non minore è stato l’interesse della filosofia che, dall’illuminismo in poi, ha considerato l’educazione fisica come rivolta alla costruzione di uno spirito nazionale. Locke, Rousseau, Kant e Fichte fra gli altri elaborano l’idea che ai principi morali insiti nell’esercizio fisico è demandato il compito di sviluppare l’appartenenza al «corpo della nazione»[9].
Diverso nei mezzi ma non divergente nei fini, sempre diretti alla formazione di una coscienza nazionale, è lo sport che prende forma nella Gran Bretagna a partire dall’inizio del diciannovesimo secolo. All’origine, lo sport viene concepito come diretto a plasmare lo spirito di gruppo, il senso della solidarietà, della cooperazione e della disciplina. In definitiva lo sport trae origine proprio da quelle circostanze sociali che avevano favorito la produzione industriale: la razionalizzazione del calcolo, la misurazione del tempo, l’universalizzazione delle regole.
In Europa fra gli anni Venti e Trenta, di fronte alla affermazione della società di massa, lo sport inizia a essere oggetto di riflessione e di analisi da parte di pensatori come Ortega Y Gasset, Martin Heidegger, Karl Jaspers, Benedetto Croce, Wilhelm Reich e Robert Musil.
Ma certamente l’opera più sistematica e significativa di quegli anni è quella dello storico olandese Iohan Huizinga che in Homo ludens (1938) sosteneva che lo sport, a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, era venuto configurandosi con caratteristiche, rituali e modalità che lo rendevano una delle manifestazioni più caratteristiche della società di massa.
Sport e propaganda
Dietro una riflessione così ampia c’è la presa d’atto della trasformazione della società europea e del ruolo che viene ad assumere lo sport. Il gigantismo delle Olimpiadi di Berlino (1936) aveva esibito al mondo la grande macchina propagandistica messa in funzione dal regime nazionalsocialista. Il successo di quell’appuntamento olimpico fu per certi aspetti inspiegabile se si considera che venne promosso da un paese isolato sul piano internazionale e per di più ostentatamente contrario agli ideali di fratellanza dell’olimpismo. La promulgazione delle leggi razziali, a partire dal 1933, provocò l’espulsione da palestre, piscine e campi di calcio di atleti di origine ebraica. Stessa sorte toccò ai giornalisti sportivi, ai tecnici e agli allenatori di squadre di diverse discipline.
Ma l’Olimpiade di Berlino rappresenta il punto di arrivo della creazione di un modello all’interno del quale lo sport assume un valore primario come attività adatta a sviluppare attitudini in sintonia con i valori della «nazione guerriera», secondo un indirizzo che ha il suo creatore in Benito Mussolini. Il regime mussoliniano creò un modello imitato dai regimi totalitari del Ventesimo secolo che mise in pratica il dettato di Filippo Tommaso Marinetti che aveva teorizzato il predominio della ginnastica sul libro. Non a caso uno storico americano, John Hobermann, ha definito Mussolini «il maggior atleta politico del Novecento»[10]. Velocità giovanilismo, virilismo, dinamismo, sportismo, disprezzo del pericolo: Mussolini sul piano propagandistico interpreta le qualità del superuomo nietzschiano come nessun uomo politico in precedenza. Più che un personaggio politico classico, Mussolini sembra costituire la rappresentazione simbolica delle migliori qualità dell’atleta.
Un primato che, alla luce dei fatti, è stato insidiato dai dittatori degli stati a regime comunista.
In Unione sovietica durante gli anni Trenta venne varato un programma destinato a trasformare lo sport in uno dei veicoli principali dell’ideologia comunista. La pratica sportiva fu concepita come una forma di socializzazione politica. Al punto che alcuni studiosi non hanno esitato a considerare l’atleta sovietico come il corrispettivo sportivo del lavoratore stakanovista: la conquista del record e del primato, sia nel lavoro che nello sport, divenne uno degli obiettivi della costruzione del comunismo.
Un paragone fra i modelli fascisti e marxisti porta a due importanti conclusioni: in primo luogo è l’ideologia fascista, e non quella marxista, che utilizza – e persino esalta – gli elementi del temperamento sportivo. Il sogno della virilità dinamica che tratteggia enfaticamente il corpo perfetto inteso come simbolo di forza è stato un tema obbligato di ogni cultura fascista.
Destra o sinistra?
Di fronte all’ampio utilizzo a fini educativi e propagandistici dello sport sia da parte dei regimi totalitari di destra che da parte di quelli di sinistra si pone un interrogativo: lo sport, meglio l’ideologia del corpo, è di destra o di sinistra? La domanda, per quanto possa apparire banale, è legittima se andiamo a rileggere quanto scrivono radicali, socialisti e marxisti a proposito di sport.
Nell’Ottocento sia Engels che Plechanov dichiarano la loro avversione nei confronti del corpo e dell’esercizio fisico. Secondo Veblen, sociologo radicale americano, il carattere sportivo altro non è che «una riabilitazione del primitivo istinto barbarico». Non diversamente John Hobson autore, nel 1902, del primo studio sistematico sull’imperialismo che individua l’essenza dello sport «in un arcaico istinto predatorio»[11].
Non a caso un intellettuale di destra come Drieu la Rochelle disprezzava «la sciatteria degli uomini di sinistra […] il loro atteggiamento sdegnoso verso ogni tipo di orgoglio corporale»[12].
Tuttavia, se andiamo ad analizzare l’evoluzione dello sport nei paesi comunisti a partire dagli anni Trenta, la conclusione non può essere che quella alla quale giungono quegli studiosi secondo i quali l’importanza data allo sport nei paesi del comunismo reale ha costituito una violazione degli assunti della antropologia marxista. Sotto questo punto di vista, dunque, la pratica contraddice l’originaria antropologia marxista di una decisa «rinuncia al corpo».
Donne
Nel 2010 una band originale come quella dei Tête de bois ha rievocato, in Alfonsina e la bici, la figura di Alfonsina Strada, prima donna italiana a competere, nel 1924, in gare maschili come il Giro di Lombardia e il Giro d’Italia:
Alfonsina ha le tette sgonfie
(Alfonsina si faceva fina fina la mattina)
Alfonsina ha le gomme piene
(Alfonsina a una ragazza questa storia non conviene)
Alfonsina ha le gomme piene
(Alfonsina che c’avevi nella testa che c’avevi nelle vene)
Alfonsina ha le tette sgonfie[13]
Certo, nel 1924 faceva notizia il fatto che una donna inforcasse la bicicletta per competere con i vari Girardengo, Brunero e Bottecchia. Tuttavia la bicicletta esercitò un ruolo ben più ampio per quel che riguarda la distinzione, almeno in certi ambienti, fra passatisti e innovatori, conservatori e modernisti. A quanti la esaltavano come emblema e fattore di progresso, si opponeva una vasta schiera di denigratori che la identificavano come «diabolico e infernale strumento di perdizione». Anzi, considerata alla luce del suo rapporto con il pubblico femminile, l’uso della bicicletta ruppe in maniera clamorosa attitudini tradizionali e traghettò per la prima volta il corpo (e il costume) della donna verso forme di modernità precedentemente sconosciute.
Bellezze in bicicletta
L’andatura in bicicletta costituì una vera e propria rivoluzione, non solo fisica ma anche antropologica, soprattutto per il corpo femminile costretto nei secolo passati a una rigida fissità. Se l’Italia, all’indomani della Unità, aveva scoperto il corpo maschile per fini nazionalistici e militari, all’inizio del ventesimo secolo, grazie alla bicicletta, iniziò a interrogarsi, in maniera spesso provocatoria, attorno al corpo femminile proprio in relazione alla bicicletta.
E questo perché la donna (e il suo corpo) si «muoveva» per la prima volta non più costretta da corpetti e bustini che le imponevano una certa rigidità. L’andatura femminile in bicicletta non riguardava solo i muscoli, ma sconvolgeva anche il mondo mentale femminile proprio per quella idea del moto, dell’allontanamento e della velocità della bicicletta. Paradossalmente, ciò che sconcertò l’universo maschile fu il fatto che la donna, che nella immagine tradizionale era da sempre accompagnata all’uomo nei suoi spostamenti (a piedi, in carrozza, in treno), sulla bicicletta poteva andare sola[14]. Si trattava dunque di una immagine che preludeva allontanamento e, soprattutto, indipendenza. Certo, nella iconografia, figure femminili erano spesso ritratte in bicicletta, ma l’opinione perbenista giudicava sconveniente la donna in velocipede. Vi ravvisava, anzi, una tendenza poco in sintonia con usi e costumi tradizionalmente femminili e la riteneva come un incedere a una altrettanto deprecata nuova moda del secolo: il femminismo. E addirittura alcuni medici sostenevano la sconvenienza delle donne in bicicletta perché lo sfregamento della sella poteva procurare «soddisfacimenti genitali e sensazioni voluttuose»[15].
Il viaggio dunque, nei secoli passati rigorosamente riservato ai maschi, poteva iniziare, almeno idealmente, anche per la donna.
Homo ludens
Le vicende della storia dello sport costituiscono dunque una chiave di lettura per capire la nostra storia. Gianni Brera, principe del giornalismo sportivo italiano della seconda metà del Novecento, ha scritto che «traverso le viti di una bicicletta […] si può scrivere la storia d’Italia»[16] La spiegazione dello sport però non sta solamente nelle viti di una bicicletta o nei fascinosi dribbling dei giocatori di calcio ma, come fenomeno fra i più pervasivi della società di massa, incrocia alcuni dei campi più caratteristici dell’età contemporanea: dalla evoluzione del nostro costume ai principi religiosi, dai precetti igienisti alla economia, dalla letteratura alla filosofia. E poi, ancora, lo sport aiuta a capire le passioni, le emozioni e i cambiamenti di mentalità di una comunità, grande o piccola che sia. Per non considerare poi che, nel corso dell’Ottocento, la valorizzazione del corpo fisico del cittadino finisce per identificarsi con il corpo morale della nazione secondo la lezione di uno dei maggiori storici del Novecento: George Mosse[17].
Insomma, dietro alla storia dello sport, movimento sotteso alla attività fisica, non si percepiscono solo svago e divertimento allo stato puro, ma modalità e modi di agire che palesano comportamenti collettivi.
In definitiva, lo sport diviene un fenomeno attraverso il quale leggere le trasformazioni del nostro passato. E del nostro presente. A patto che, per richiamare il titolo di una delle opere fondamentali sull’argomento, si concepisca la ricostruzione dell’ homo ludens non meno importante di quella dell’homo faber [18].
Note:
[1] S. Jacomuzzi, Incontri e scontri, in Sapere di sport, a cura di S. Jacomuzi, Milano, Guanda, 1983, p. 156
[2] G. Gozzini, Hanno sparato a Togliatti, Milano, Il Saggiatore, 1998.
[3] P. Thompson, The voice of the past. Oral history, Oxford University Press, 2000.
[4] D. Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie, sconfitte, Il Mulino, 2016.
[5] S. Pivato, Favole e politica. Pinocchio e Cappuccetto rosso durante la guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 2015.
[6] R. Barthes, Le Tour de France comme epopée in Mythologies, Paris, Seuil,1957. Vari i contributi che in tempi recenti si sono soffermati sul mito del Tour de France. Fra questi: P. Gaboriau, Les épopées modernes, le Tour de France et le Paris-Dakar, in «Esprit», aprile, 1987; G. Vigarello, Le Tour de France: une passion nationale, in «Sport-Histoire», 1989, n. 4; F. Conord, Le tour de France à l’heure nationale, 1930-1968, Paris, Puf, 2014.
[7] P. P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975, p. 96.
[8] C. J. Cela, Undici racconti sul calcio, Milano, Passigli, 1990, p. 18.
[9] G. Bonetta, Corpo e nazione. L’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 1990.
[10] J. Hoberman, Politica e sport. Il corpo nelle ideologie politiche del ‘900, Bologna, Il Mulino, 1988
[11] J. A. Hobson, L’imperialismo, Torino, Isedi, 1974.
[12] Citato in J. Hoberman, Politica e sport, cit., p. 133.
[13] Alfonsina e la bici, 2011.
[14] G. Maierhof – K. Schroeder, Ma dove vai bellezza in bicicletta?, Milano, La Tartaruga edizioni, 1993.
[15] Per queste posizioni cfr. E. Weber, La France fin de siècle, Bologna, il Mulino, 1990 , pp. 238-239.
[16] G. Brera, L’avocatt in bicicletta, Milano, La Gazzetta dello sport, 1952, p. 170.
[17] G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1853-1933), Bologna, Il Mulino, 1975.
[18] J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 1979.