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Ricordare, imparare, praticare: spunti operativi per una didattica delle deportazioni

Ricordare, imparare, praticare: spunti operativi per una didattica delle deportazioni
Abstract

Questo breve contributo vuole provare a riflettere su quelli che sono i temi ad oggi centrali nel dibattito fra storia e memoria, provando ad affrontarli all’interno del quadro delle esperienze didattiche e educative legate alla didattica della storia delle deportazioni nazifasciste. Si proverà ad offrire una panoramica delle problematiche principali che come storici ed educatori di Laboratorio Lapsus abbiamo incontrato negli anni di attività con le scuole e i centri di educazione territoriale: l’obiettivo non sarà fornire risposte univoche a questioni complesse, quanto piuttosto suggerire metodologie e possibili pratiche a nostro avviso efficaci.

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This contribution aims to try to reflect on what are today the central themes in the debate between history and memory, trying to deal with them within the framework of the didactic and educational experiences related to the didactics of the history of Nazi-Fascist deportations. We will try to offer an overview of the main issues that we, as historians and educators of Laboratorio Lapsus, have encountered over the years in our work with schools and territorial education centres: the aim will not be to provide unambiguous answers to complex issues, but rather to suggest methodologies and possible practices that we consider effective.

Il testo che segue è stato elaborato dai membri di Laboratorio Lapsus (nella fattispecie Sara Buda, Greta Fedele, Erica Picco, Riccardo Tobaldini, Sara Troglio), associazione culturale che da oltre dieci anni si occupa di didattica della storia, ricerca e public history.  Il presente articolo è stato possibile grazie al finanziamento di Fondazione Memoria della Deportazione all’interno del ciclo “Storia e Memoria”. Laboratorio Lapsus ingrazia Marino Livolsi e David Bidussa per i loro commenti che hanno contribuito a migliorare il lavoro.

 

Introduzione

La generazione di chi scrive, nata dopo la fine della Guerra Fredda, è molto probabilmente l’ultima ad aver avuto la possibilità di ascoltare i testimoni degli eventi del periodo della deportazione nazifascista.

Il trascorrere del tempo e la progressiva scomparsa dei testimoni diretti degli eventi sono peraltro un fatto comune a ogni epoca storica. Ciò comporta inevitabilmente, da un lato, un ripensamento rispetto al racconto del passato e, dall’altro, l’individuazione di nuove modalità di trasmissione delle memorie ancora vive nel discorso pubblico, al momento della scomparsa dei testimoni.

I ragazzi e le ragazze di oggi sono lontani quattro generazioni dagli eventi narrati e portatori di memorie transnazionali, extraeuropee, che hanno coordinate storiche differenti. L’orrore massimo, la persecuzione, gli episodi di resistenza, i Giusti, le vittime e i carnefici non avranno nella memoria di questi adolescenti il significato univoco che avevano per la maggior parte delle persone delle generazioni precedenti. Una migrazione, un passato di repressione coloniale, una persecuzione politica-religiosa, una identità di classe: questi sono invece elementi che influiscono oggi sulle coordinate storiche di questi ragazzi. Serve quindi una spiegazione, il “perché ti sto raccontando questo, perché anche tu devi ricordartene”.

Le domande che hanno guidato la riflessione e l’ideazione dei percorsi didattici e degli approcci educativi riportati in questo saggio nascono da anni di lavoro sul campo nelle scuole e nei centri educativi territoriali: perché ricordare? Perché voglio raccontare? Perché ritengo importante comunicarlo? Chi è l’interlocutore a cui dare una spiegazione? Quali sono i suoi bisogni ed esigenze e come ritengo possano essere soddisfatti dal racconto? In che modo la storia che voglio raccontargli può entrare in relazione con la sua?

Va detto fin dall’inizio che queste riflessioni saranno sempre al​ ​e nel​ presente. La Storia infatti dovrebbe, crediamo, essere intesa – e insegnata – come una disciplina che opera nella contemporaneità. Lo sguardo con cui si osservano gli eventi passati dipende dagli interessi attuali, nel presente nascono le domande che ci poniamo sul passato e sempre nel presente sono immersi testimoni, addetti ai lavori, fruitori (non sempre appartenenti a categorie così nettamente riconoscibili).

 

Fra storia e memoria: un piccolo vademecum

Chi si addentra nel tortuoso percorso che intreccia storia e memoria, si trova ben presto davanti ad un prisma di terminologie. Per garantire che chi scrive e chi legge siano allineati sul significato delle parole, offriamo di seguito qualche indicazione.

Anzitutto è opportuno usare la forma plurale nell’appellarsi alla storia e alla memoria, a meno che non si intenda riferirsi a quelle ufficiali. Esiste infatti una storia che è frutto del canone storiografico prevalente, così come un canone memoriale ufficiale, unito alla sua ritualità commemorativa.

L’idea che, data l’esistenza di una memoria ufficializzata, esista per questo una memoria​ condivisa​, ossia una sorta di senso comune della memoria uniformemente diffuso nella popolazione, è però piuttosto ingenua. Se così fosse, infatti, non avremmo a che fare con fenomeni come il riduzionismo o i negazionismi. Si potrà parlare piuttosto di memorie collettive – coltivate da gruppi o comunità – o memorie​ negoziate – “scese a patti” con altre memorie e giunte ad un punto di equilibrio tra le narrazioni. Esistono poi memorie​ difficili, divise​, conflittuali​​, non ricomposte, che lasciano divergenze alle volte insanabili tra parti diverse della popolazione. La somma di tutte queste memorie non genera la storia: questa è invece il frutto del lavoro degli storici che producono storiografia grazie all’analisi critica delle fonti, siano esse i più tradizionali documenti d’archivio, o nuovi materiali multimediali come le tracce lasciate sui social media, o ancora le testimonianze orali, ecc.

Rispondendo a domande del presente, gli storici devono essere in grado di intercettare e incanalare le esigenze del proprio tempo e le dinamiche dal basso.  Storia e memoria non costituiscono un’antitesi inconciliabile, ma possono convivere e anzi interagire nel descrivere il passato, divenendo i due poli all’interno dei quali si svolge la dinamica narrazione del passato.

 

I luoghi della memoria e la memoria dei luoghi

L’insegnamento della disciplina storica riguarda anche la dimensione etica​ e civile​​, ma – e qui sta il nodo fondamentale sul piano metodologico – non si riduce solo a questa.

Su un piano didattico, la natura di ogni ricostruzione storica si declina nel suo compito educativo, come sostegno allo sviluppo di un pensiero critico sul presente, a partire dalla comprensione del passato nella sua alterità, non attraverso progressivi disvelamenti, quanto piuttosto attraverso un senso critico esperito con la pratica, in un’ottica che mette in crisi il consueto approccio informativo-unidirezionale. Inoltre, la didattica deve cercare di muoversi il più possibile sul piano del coinvolgimento degli studenti, inteso non solo come la partecipazione attiva nel processo di apprendimento, ma anche attraverso un’impostazione didattica basata sulle domande impellenti dei giovani rispetto al presente che interroga il passato e viceversa, permettendo di attenuare il divario tra fruitore della storia e oggetto di studio. Il discorso, ad esempio, sullo smantellamento dello stato di diritto in epoca fascista può risultare molto astratto se promosso in una modalità frontale; diverso è l’effetto se si trovano modalità di ingaggio che partano da un’esigenza percepita dal gruppo come propria e attuale: le proprie libertà costituzionali di opinione (sui social​ media ad esempio). Per farlo c’è bisogno di un approccio costantemente problematizzante: il ragionamento di lungo periodo deve stimolare e infondere domande più che risposte, per permettere ai ragazzi stessi di formulare nuove domande e dare loro gli strumenti critici per trovare le risposte anche in modo autonomo.

È noto che un’occasione proficua per sviluppare il percorso di cui sopra può essere anzitutto fornita dalla visita a luoghi della memoria[1], a patto di abbandonare la visione che considera il viaggio della memoria come viaggio nel​ tempo. Si è qui​ in quel luogo​, ma si è qui​ nel proprio tempo​. Di conseguenza i luoghi della memoria – analogo discorso, come vedremo, vale anche per le voci dei testimoni – dovrebbero essere percepiti come mediati​​; la loro portata simbolica e valoriale, in riferimento al passato pur essendo nel presente, non può essere presupposta acriticamente. Lo sguardo al passato non dovrebbe essere mai presentato come semplice osservazione contemplativa, quanto invece come osservazione riflessiva, soprattutto su di sé: perché riteniamo importante questo passato? Perché altri periodi non lo hanno ritenuto tale? Come possiamo giudicare questo passato? In cosa diverge il giudizio che altre epoche o soggetti ne hanno dato?

Si gioca, inoltre, proprio su questo tema la possibilità di evitare alcuni dei rischi più comuni insiti nella visita ai luoghi della memoria: il coinvolgimento emozionale come preponderante via d’accesso al passato; l’illusione di un’immedesimazione con i protagonisti di quel passato; infine, l’assolutizzazione degli eventi sulla base di un giudizio morale, e quindi astorico.

La sfida è, così, quella di mantenere un equilibrio fra la vicinanza e la distanza dei ragazzi e delle ragazze dagli eventi passati, il coinvolgimento emotivo e l’acquisizione di una consapevolezza storica.

 
Free – No future without Remembrance

Nel corso degli ultimi anni abbiamo partecipato a diversi viaggi organizzati da enti differenti. In questa sede ci concentriamo sul progetto Free – No Future Without Remembrance​, un progetto europeo di cittadinanza attiva sviluppato dagli enti gestori dei Centri di Aggregazione Giovanile di Milano nel 2019 e che ha coinvolto centinaia di adolescenti, fra cui molti di seconda generazione o provenienti da situazioni socio-economiche fragili e studenti di alcune scuole del territorio lombardo, in un interessante esperimento di ricombinazione sociale. Partendo dalla riscoperta della storia europea, il progetto ha voluto fare della conoscenza del passato un attivatore di consapevolezza e impegno nel presente, in un circolo virtuoso fra conoscenze storiche e competenze di cittadinanza.

Il progetto si è strutturato attraverso tre azioni principali. Una prima fase preparatoria e formativa ha avuto lo scopo di evitare ogni facile accostamento ed equiparazione fra epoche, fenomeni, processi differenti, senza tuttavia appiattirli in uno sguardo che ne cancellasse le specificità. Uno dei foci principali è stata la tematizzazione della dimensione etica della scelta e dell’impegno calata in diversi contesti storici, culminata nella riflessione personale riguardo alle proprie intime motivazioni e aspettative sul viaggio.

La seconda fase è rappresentata dal viaggio stesso. Iniziato da Milano, ha toccato le città di Berlino, Cracovia e Vienna. Sono stati visitati i campi di Sachsenhausen, di Auschwitz I, Auschwitz-Birkenau e diversi musei e luoghi particolarmente significativi, occasione di numerosi momenti di confronto guidato fra i partecipanti, per sottoporre il proprio vissuto a una rielaborazione continua, arricchita dal raffronto con prospettive differenti degli altri compagni di viaggio e resa più consapevole dal fatto di dover soppesare le parole prima di esporsi davanti ad altre persone.

La terza e ultima fase riguarda l’attivazione innescata al ritorno dal viaggio. Essa si è configurata come scelta consapevole di impegno e cittadinanza attiva, attuata a livelli differenti: da quello quotidiano – scolastico o di quartiere – a quello istituzionale o internazionale, come nel caso di esperienze all’estero presso campi di volontariato in ambito culturale-artistico e umanitario.

Declinare il viaggio​ della memoria come viaggio​ della testimonianza è stato un approccio che ha permesso di valorizzare il coinvolgimento dei partecipanti, facendone non dei semplici destinatari, ma dei protagonisti nella costruzione di una memoria pubblica performativa e proattiva.

Non vogliamo passare sotto silenzio le eventuali perplessità di quanti potrebbero mettere in guardia da una subordinazione della conoscenza storica a finalità ed esigenze di ordine differente. Crediamo, però, che ogni prospettiva sul passato, in quanto operazione mediata di selezione e tematizzazione di fatti, non possa prescindere dall’assunzione di una scala di valori. Si tratta, anche qui, di una dialettica entro la quale occorre trovare il giusto punto di equilibrio: riconoscere la natura soggettiva del proprio sguardo senza, per questo, piegare la conoscenza del passato alla semplice trasmissione o promozione di una determinata prospettiva ideologica, politica, morale.

L’intero progetto è stato un’efficace prova delle potenzialità formative della storia, promuovendo all’interno di un autentico percorso educativo, le finalità civili ed etiche che le appartengono e riconsegnando la scoperta del passato alle urgenze del presente.

 

La testimonianza dopo i testimoni

Con il passare degli anni il tema della trasmissione della memoria dopo i testimoni è diventato inevitabilmente più pressante, soprattutto in una società globale che, a partire dal processo Eichmann, ha delegato alla memoria dei testimoni il compito di dare corpo e sostanza alla storia delle deportazioni. I sopravvissuti, con la loro diretta testimonianza, hanno svolto anche una funzione di tutela e presidio nei confronti di negazionismi e banalizzazioni: la loro progressiva scomparsa aumenta il rischio che questi fenomeni non incontrino smentite sufficientemente potenti. Per questa ragione risulta fondamentale avvalersi e valorizzare tutte le forme di conservazione delle memorie messe fin qui in atto.

A questo scopo, da anni, enti di ricerca, associazioni memoriali e gruppi di storici compartecipano – con progetti anche molto diversi – alla raccolta e divulgazione delle memorie dei sopravvissuti. Ad oggi, lo sforzo comune è proteso alla digitalizzazione di queste fonti, molte delle quali sono finalmente accessibili a chiunque.

Chi lavora con la storia ha il privilegio di padroneggiare anzitutto strumenti e metodi di indagine critica, ma per una didattica efficace questi “attrezzi” non dovrebbero rimanere esclusivo appannaggio degli storici, ma costituire il cuore dell’insegnamento.

Le fonti sono importanti risorse per sperimentare metodologie didattiche inclusive e che possono sviluppare diverse competenze specifiche. Se da un lato, esse permettono di continuare a far giungere ai più giovani le tracce, le parole e la voce dei testimoni, per non rinunciare al lato emotivo della trasmissione, dall’altro consentono di strutturare un percorso di acquisizione e di analisi critica.

Saper ascoltare criticamente una testimonianza, riuscire a metterla in dialogo con le sue proprie coordinate storiche (magari attraverso l’uso e la selezione di media differenti), imparare a unire fra loro informazioni sono competenze che, una volta acquisite all’interno di un percorso educativo, travalicano il confine della materia scolastica. Diventano così un bagaglio fondamentale per la propria crescita e lo sviluppo di un pensiero critico.

Nella vastità dei materiali utilizzabili, come selezionare le fonti e le testimonianze da proporre ai discenti? Quali criteri seguire?

 

L’immedesimazione nelle vicissitudini dei singoli

La premessa di questa selezione è che ogni testimonianza è un percorso di vita, una storia di scelte significative che riguardano questioni ancora aperte nelle nostre società. Il lato politico di tali scelte non deve spaventare – anche di fronte a un uditorio che può avere posizioni varie – poiché il suo potenziale di attivazione risulta particolarmente prezioso. Individuare un fine educativo, prima ancora che didattico, che si vuole perseguire attraverso le fonti dirette può essere un modo per superare le difficoltà di avvicinare i ragazzi ai documenti.

Se si vuole parlare di discriminazione razziale probabilmente potremmo trovare nel lavoro sulle testimonianze ebraiche un esempio con cui coinvolgere i ragazzi. Per una riflessione sul cambiamento dei ruoli di genere, si può introdurre il vastissimo tema della resistenza femminile. Se invece il territorio in cui i ragazzi sono inseriti ha una forte memoria operaia, una leva potrebbe essere quella di concentrarsi su quanti vennero deportati dalle fabbriche per attività antifascista. Il processo di immedesimazione, insieme alla contestualizzazione storica, può promuovere la riflessione sul potenziale concreto dei giovani di incidere nella società, anche se nella propria quotidianità non se ne percepisce la possibilità. Il coinvolgimento in prima persona rimane infatti un potente strumento educativo, se agganciato alla conoscenza storica.

Un esempio di avvicinamento dei ragazzi alle tracce vive della storia della Shoah è il laboratorio Vicissitudini dei singoli costruito sull’omonimo fondo dell’archivio della Fondazione CDEC. Il percorso di due ore, destinato alle seconde superiori di tre diversi indirizzi scolastici, si inserisce in un calendario didattico che non prevede la trattazione del periodo storico in questione: niente di più tipico. Nella parte centrale del laboratorio, i ragazzi vengono suddivisi in gruppi. Ad ogni gruppo viene consegnato un faldone con riproduzioni di documenti di diverso tipo, relativi alla storia di un singolo: fotografie, documenti contraffatti, lettere di addio, liste di trasporto, istruzioni partigiane e anche stralci di interviste. Scopo del lavoro è ricostruire la storia del singolo e parallelamente individuare le coordinate che ricorrono, o attorno alle quali si sviluppa l’esperienza dell’individuo. Nel successivo momento di restituzione collettiva i gruppi condividono le storie ricostruite e segnalano al formatore le coordinate individuate. Emergono così date e luoghi cardine, che vengono annotati e richiamati nella fase di sintesi finale, durante la quale si illustrano le concatenazioni della storia generale. Tramite il percorso che dalla ricostruzione del caso particolare porta alla storia generale, si avvicinano i ragazzi ai meccanismi di selezione critica delle informazioni e delle fonti, mostrando loro il dietro le quinte di quella storia che leggono sui libri. Il doppio vantaggio è di attrarre il loro interesse per la Storia come disciplina e far sì che si calino in modo autonomo nel contesto storico. Grazie al momento di restituzione comune i ragazzi conoscono alcune delle vicende paradigmatiche – poiché tramite una selezione accurata è possibile creare un ventaglio di casi che includano partigiani, clandestini, deportati, sopravvissuti o sommersi – e riescono ad integrarle nella storia generale[2].

 

La memoria celebrata/ La memoria fuori controllo

Ancora molti anni dopo la Liberazione, la conoscenza e il ricordo delle deportazioni hanno faticato a uscire dagli ambienti dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime e di pochi addetti ai lavori. La loro testimonianza rimandava alle responsabilità di una parte della nazione nelle deportazioni che l’Italia del dopoguerra preferiva non affrontare. Eppure fin da subito furono numerose le celebrazioni messe in atto, frutto di un dialogo a più voci che coinvolse sopravvissuti della Shoah, deportati politici, le loro famiglie e altri soggetti coinvolti a vario titolo. Ciascuno, con il proprio bagaglio di assunti, di riflessioni e preoccupazioni sulla funzione di questo evento del passato nel presente, ha partecipato al processo di attribuzione di significato alla commemorazione. Negli anni Novanta, con il cambiamento dello scenario internazionale, si è aperta una nuova stagione memoriale sia a livello italiano che europeo, volta alla riconciliazione e alla ricerca di una identità comune. Si è assistito al moltiplicarsi di giornate memoriali e di celebrazioni ufficiali, nate forse più dalla concorrenza politica sul presente che da una sincera volontà di commemorazione del passato. Le deportazioni, e la Shoah in particolare, divennero il pilastro attraverso cui costruire un impegno positivo in chiave civica, rendendo fondamentale la trasmissione di tale memoria alle generazioni future. É così che, dopo un lungo percorso di affermazione e presa di coscienza nella società civile, nel 2000 in Italia[3] è stato istituito il “Giorno della Memoria” (27 gennaio) in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.[4]

In vent’anni di celebrazioni, si è arrivati a un punto in cui spesso questa occasione si riduce a un momento estemporaneo, costruito su una serie di ritualità codificate, formule retoriche definite e una divulgazione degli eventi piuttosto cristallizzata, in cui non si tiene conto della soggettività dei giovani per i quali viene così spesso a mancare il senso della celebrazione nella quale sono inseriti. Ciò ha fatto emergere alcune domande rispetto all’efficacia della commemorazione stessa, soprattutto nell’ambito della trasmissione della memoria tra i giovani.

Ciò che qui ci interessa in particolare sono i limiti di una trasmissione della memoria canonizzata all’interno di formule stereotipate, soprattutto quando impiegate in modo strutturale all’interno di un percorso educativo e didattico che si confronti col tema del passato.

Dalla nostra esperienza sul campo possiamo affermare che nella settimana del 27 gennaio sono moltissime le scuole che si adoperano annualmente con iniziative per la promozione della memoria delle vittime: conferenze con i superstiti o altri ospiti autorevoli, proiezioni di film sul tema, letture di poesie o altri testi celebri, e così via. In alcuni casi ci è capitato di assistere anche ad un vero e proprio affanno nella preparazione di questa data, sia da parte degli insegnanti che degli studenti, i quali si sentono in dovere di colmare la ricorrenza con delle iniziative, a volte senza troppo interrogarsi su quali obiettivi si vogliono raggiungere.

Riguardo al nostro ruolo di educatori, occorre chiedersi: è possibile proporre ai discenti un momento di riflessione non retorico, che promuova lo spirito critico e generi attivazione? Una delle principali difficoltà in ambito educativo e didattico presentato dalle giornate memoriali è insito nello scostamento tra queste e il progetto didattico.

 

Giorno della Memoria e Giorno del Ricordo

Un esempio di attività legata a giornate memoriali, nata proprio su richiesta degli studenti, viene da un laboratorio tenuto da Lapsus il 17 febbraio del 2020 in un liceo milanese. Pochi giorni prima, in concomitanza con il Giorno del Ricordo, alcuni militanti di una nota organizzazione di estrema destra si erano presentati all’uscita da scuola distribuendo dei materiali propagandistici riferiti alle Foibe. Questo aveva dato vita ad uno scontro con alcuni studenti che, nei giorni successivi, complice la settimana di autogestione già indetta, ci hanno contattati per aiutarli a riflettere sulle due giornate memoriali appena trascorse: il 27 gennaio e il 10 febbraio.

L’incontro è partito proprio dalla discussione su quanto successo davanti a scuola, lasciando i presenti liberi di discutere tra loro dell’interpretazione che davano dell’episodio. Successivamente si è provato a costruire un “vocabolario” condiviso partendo dalle loro osservazioni: la memoria è sempre una costruzione “di parte”? Le date del 27 gennaio e del 10 febbraio sono tra loro concorrenziali?

Questo ha permesso di ricostruire, attraverso alcuni materiali selezionati in precedenza, la storia e le politiche nazionaliste e razziste applicate dal Fascismo nell’area istriano-dalmata. Complici alcuni fatti di politica estera avvenuti in quei giorni, la discussione si è allargata quindi alle politiche coloniali del Regime, alle legislazioni razziali ed infine alle vicende belliche prima e resistenziali poi, relative al confine orientale.

Visto che i ragazzi presenti appartenevano a classi e sezioni diverse, si è sempre cercato di far derivare le conoscenze storiche da un terreno comune tratto dalla quotidianità o dell’esperienza che ognuno di loro, a prescindere dal programma di storia svolto, potesse ricollegare all’interno di una catena di ragionamento complessa. La discussione, sfruttando l’occasione delle giornate memoriali, è arrivata al passato partendo dal presente e dal vissuto degli studenti, per poi ritornare, in forma di discussione guidata, sulla centralità di questi temi nel dibattito politico.

 

Il web, i social e la memoria: Yolocaust

Peraltro, con l’avvicendarsi delle generazioni è fisiologico che sopraggiungano nuove ricerche di senso all’interno della memoria personale e collettiva. Questo è anzi un passaggio necessario per far sì che la storia delle deportazioni nazifasciste continui ad arrivare ai destinatari in maniera efficace. Se guardiamo alle modalità con cui si è trasmessa la memoria delle deportazioni è possibile riscontrare, già dalla generazione dei figli dei sopravvissuti, alcune forme, anche disturbanti, di riappropriazione ed esplorazione autonoma dei temi legati a tale esperienza. Sappiamo che, oggi, il luogo in cui i ragazzi esplorano e si informano autonomamente è il web. Ed è perciò a questo ambiente di apprendimento che si riferiscono i due esempi che vogliamo presentare, entrambi in rapporto alla Shoah.
Il primo riguarda l’uso di Instagram, protagonista – insieme a Twitter – del proliferare di controversi selfie​ scattati dagli utenti nei campi di concentramento o in altri luoghi della memoria. Questo fenomeno ha ispirato diverse produzioni artistiche e tra i progetti più interessanti vi è Yolocaust, del comico israelo-tedesco Shahak Shapira. Basata sul fotomontaggio di selfie​ scattati al Memorial to the Murdered Jews in Europe a Berlino e fotografie, anche molto crude, delle vittime delle deportazioni, questa operazione di sovrapposizione genera accostamenti disturbanti tra le posizioni assunte dai protagonisti dei autoscatti oggi​ e le immagini delle atrocità subite dai deportati.

Quando Shapira ha condiviso le immagini, in poco tempo ha generato un traffico di visualizzazioni e reazioni notevole, raggiungendo i soggetti stessi dei suoi fotomontaggi che solo in quel momento hanno preso coscienza dell’inappropriatezza e delle conseguenze della propria azione, diventando a loro volta vittime di hate speech​. In larga parte, la ricezione del progetto è stata di totale disapprovazione, poiché le immagini esaltavano comportamenti inaccettabili in un luogo considerato sacro. Tuttavia è necessario ricordare come Peter Eisenman stesso, progettista del monumento, sottolinei che lo scopo di quel luogo sia quello di mostrare la continuità dell’orrore delle deportazioni e dello sterminio con il panorama cittadino[5], rendendolo tutt’altro che sacro, perché solo accettando nella quotidianità anche questo pezzo della storia sarà possibile osservarla nella sua dimensione più insidiosa, quella della “banalità del male”, mettendosi al riparo dal rischio di renderla una parentesi eccezionale e non più ripetibile.

In questo cortocircuito di sacralizzazione e dissacrazione, ciò che apparentemente è fuori controllo finisce col cogliere in pieno lo scopo di una problematica ma concreta attualizzazione della memoria. Lungi dall’auspicare un sistema in cui ognuno viene lasciato senza guida nel maneggiare tali temi, è importante appuntare che queste rielaborazioni dimostrano come la memoria delle deportazioni sia entrata a pieno titolo nei circuiti di elaborazione culturale della società e anche grazie alle numerose declinazioni viene tenuta viva.

 

Il web, i social e la memoria: #HolocaustChallenge

Un altro contesto in cui l’appropriazione della memoria pare essere sfuggita di mano è TikTok. In questo ambito è nata la #HolocaustChallenge, basata sull’immedesimazione con un’ipotetica vittima della Shoah di cui i tiktokers​ diventano testimoni, usando musiche, make-up​ e frasi che aumentano la drammaticità del contenuto.

In brevissimo tempo, la challenge​ ​è stata oggetto di aspre critiche e polemiche, rimbalzando su altri social network e sulla stampa internazionale. Se diversi protagonisti hanno insistito sullo scopo di ingaggiare gli spettatori in una sfida di consapevolezza, la valanga che ne è scaturita ha portato numerosi risultati distorti. I protagonisti dei video – in larga misura minorenni – sono stati attaccati, esposti con nome e cognome e accusati di aver infangato la memoria delle vittime attraverso pantomime di cattivo gusto, irrispettose, dissacranti e disturbanti.

Ci sembra qui interessante riportare alcuni stralci del commento su Twitter di Auschwitz Memorial, secondo cui:

Il​ trend delle ‘vittime’ su TikTok può essere offensivo e doloroso. Alcuni video sono pericolosamente vicini o già oltre il confine della banalizzazione della storia. Ma dovremmo discuterne per non rimproverare e attaccare i giovani la cui motivazione sembra molto diversa. È una sfida educativa.”​ [T.d.a.]  [6],

Liquidare un caso del genere, limitandosi a biasimarlo, non ci condannerebbe ad una distanza siderale – e in definitiva ad una incomunicabilità – con gli adolescenti, che usano questo strumento di espressione abitualmente? Ciò che troviamo più efficace è provare a usare casi come questo per la didattica, ad esempio attraverso la riflessione sui problemi connessi all’attualizzazione della memoria. In questo ambito, l’appropriazione della memoria di altri può avere risvolti delicati e complessi, come complesso è il meccanismo etico che sta dietro al processo di immedesimazione, che ci fa “parlare per”, ossia dare voce ad una persona che non è più in grado di parlare per sé. Questo è un passaggio di presa di coscienza molto delicato, attraverso il quale gli adolescenti devono essere guidati da chi è in grado di fornire loro un contesto e una dimensione di complessità.

Occorre stimolarli e aiutarli nella appropriazione e rielaborazione del passato, fornendo le coordinate storico-concettuali entro cui permettere loro di fare proprie​ le esperienze di altri.  Come formatori dobbiamo impegnarci a ridurre la distanza percepita tra il passato e il presente, non dimenticando il ruolo di attivazione che il pensiero storico può avere nelle giovani generazion​i​. Perché la memoria del nostro passato sia qualcosa di vitale, essa deve potersi intrecciare alla riflessione su ciò che definisce il nostro presente, interrogandone, mettendone in discussione, rinegoziandone e quindi rinsaldandone i valori di riferimento. Insomma: se la memoria pubblica non solleva la domanda non tanto su chi​ siamo stati ma su chi siamo ora, essa corre il pericolo di scivolare nella vuota retorica.

 

Sitografia, bibliografia e materiali utili

 

Risorse, percorsi e kit didattici online

 

Archivi digitali e materiali utili

 

Bibliografia

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  • E. Traverso,​ Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica​, Ombre Corte, Verona 2006.
  • G. Vaglio, ​Le parole e la memoria. La memorialistica della deportazione dall’Italia 1993-2007​, EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2007.
  • A. Wieviorka, ​L’era del testimone​, Raffaello Cortina, Milano 1999.
  • Y. H. Yerushalmi, N. Loraux, H. Mommsen, J. Milner, G. Vattimo, ​Usi dell’oblio​, Pratiche Editrice, Parma 1990.

 


Note:

[1] Si veda a tal proposito il paragrafo “I Testimoni della Shoah: i luoghi” in Carla Marcellini, Insegnare la Shoah. È un monito per il futuro?, in “Novecento.org”, n. 13, 2020. DOI: 10.12977/nov315

[2] Altri esempi di uso didattico della testimonianza vengono da progetti di Laboratorio Lapsus in collaborazione con ANED (Associazione Nazionale Ex-Deportati nei campi nazisti). Il MOOC – Massive Open Online Course – Storia e memoria delle deportazioni nazifasciste (https://learn.eduopen.org/eduopenv2/course_details.php?courseid=409)  è un corso online liberamente fruibile nato dall’esigenza di avvicinare i più giovani – ma non solo – al patrimonio di testimonianze di ANED, di dotarsi di uno strumento base di conoscenze comuni a quanti si accostano ai viaggi della memoria; infine, sperimentare le potenzialità della crossmedialità nella realizzazione di un percorso digitale. L’accostamento di una specifica fonte orale ai temi del corso non è casuale: il principio che ha guidato la scelta è l’affiancamento della narrazione storica con il vissuto individuale, raccontato dalle vive parole dei testimoni, reso possibile grazie alla digitalizzazione delle testimonianze e la realizzazione di nuove interviste agli ultimi sopravvissuti. Altro strumento è un kit didattico pensato per le scuole dal titolo “Reprimere obbedire deportare. Dal Tribunale speciale alla Repubblica sociale  con testi agili e arricchito di materiali multimediali e la possibilità di ascoltare interviste ai testimoni (http://www.deportati.it/wp-content/static/EDU-KIT-Aned-Repressione-fascista-RSI.pdf)

[3] La legge italiana precede di cinque anni la risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

[4] Legge n. 211 20/07/2000, https://web.camera.it/parlam/leggi/00211l.htm

[5]Åhr, Johan. “Memory and Mourning in Berlin: On Peter Eisenman’s “Holocaust-Mahnmal” (2005).”
Modern Judaism 28, no. 3 (2008): 283-305. Accessed November 17, 2020

[6]TikTok #HolocaustChallenge, in “Digital Holocaust Memory” [https://reframe.sussex.ac.uk/digitalholocaustmemory/2020/09/10/tiktok-holocaustchallenge/ ] url consultata il 10 marzo 2022.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Ricordare, imparare, praticare: spunti operativi per una didattica delle deportazioni
DOI: 10.52056/9791254691090/16
Parole chiave: , , , , , ,
Numero della rivista: n.17, giugno 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Ricordare, imparare, praticare: spunti operativi per una didattica delle deportazioni, in Novecento.org, n. 17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/16

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