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Scuola libera tutt*. Libri, esperienze e Storie per crescere liber*

Scuola libera tutt*. Libri, esperienze e Storie per crescere liber*
Abstract

Il 27 e 28 aprile scorsi si è svolto online il seminario Scuola libera tutt*. Libri, esperienze e Storie per crescere liber*, organizzato dalla Società Italiana delle Storiche (Sis) in collaborazione con SCoSSE. Il seminario – evento di apertura del progetto Storia libera tutte (Sis), tra i vincitori del bando I luoghi delle donne della Regione Lazio – è stato pensato come luogo di riflessione a più voci sull’adozione della prospettiva di genere nella relazione educativa, con specifico riferimento all’insegnamento della storia. Da quel denso seminario nascono le considerazioni delle organizzatrici, un invito a continuare a ragionare e confrontarsi sul come rendere la scuola uno spazio in cui crescere liber*.

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On 27 and 28 April, the seminar Scuola libera tutt*. Books, experiences and stories to grow free, organised by the Italian Society of Women Historians (Società Italiana delle Storiche – Sis) in collaboration with SCoSSE. The seminar – the opening event of the project Storia libera tutte (Sis), one of the winners of the call I luoghi delle donne (The places of women) of the Lazio Region – was conceived as a place for reflection with many voices on the adoption of the gender perspective in the educational relationship, with specific reference to the teaching of history. Out of that dense seminar came the organisers’ considerations, an invitation to continue to reason and discuss on how to make the school a space in which to grow free.

Introduzione

Il 27 e 28 aprile scorsi si è svolto online il seminario Scuola libera tutt*. Libri, esperienze e Storie per crescere liber*, organizzato dalla Società Italiana delle Storiche (Sis) e da SCoSSE, la cui progettazione si è situata al convergere di varie direttrici. Qualche anno fa, in considerazione dell’impegno di entrambe le associazioni nella promozione di strumenti alternativi al libro di testo per educare al genere, noi, autrici di questo articolo, Elisabetta Serafini per la SIS e Sara Marini per SCoSSE, abbiamo iniziato a progettare una giornata dedicata a tali strumenti e strategie alternative, con una particolare attenzione agli albi illustrati[1]. Nel tempo la riflessione scientifica e i progetti condivisi ci hanno portate a tornare sul libro di testo e sul manuale come strumenti forse limitati ma che ancora connotano imprescindibilmente la relazione educativa: da ciò la responsabilità che abbiamo, come docenti e come formatrici e formatori, di educare a un loro uso critico e la volontà di condividere riflessioni anche su questo tema.

Nel frattempo, nel flusso del continuo impegno della SIS in attività di formazione e aggiornamento docenti, ha preso forma il progetto Storia libera tutte. Il progetto, redatto tra il 2019 e il 2020, poco prima della diffusione globale del Covid-19 che ci ha costrette a rivederlo trasferendone molta parte in remoto, è stato pensato in dialogo con la comunità scolastica, attraverso la collaborazione con l’Istituto comprensivo Simonetta Salacone di Roma, situato nel V Municipio. Storia libera tutte è un progetto articolato in diverse proposte: un corso di formazione, rivolto a docenti di scuola primaria e secondaria, che si è svolto online a ottobre e novembre 2021; un concorso per le scuole, che premierà percorsi didattici di storia delle donne e di genere; uno sportello telematico di tutoring a sostegno di docenti che vorranno usufruirne, anche in relazione al concorso; una piattaforma digitale per facilitare la diffusione e la condivisione di materiali per la promozione della storia delle donne e di genere nelle scuole.

Tutte queste azioni sono state pensate per arrivare a bambine e bambini, a ragazzi e ragazze attraverso le docenti e i docenti, per sostenere interventi educativi che siano continuativi e organici rispetto alla progettazione didattica e non vadano dispersi nella moltitudine delle proposte sottoposte ogni anno alle scuole.

Tornando al seminario iniziale, si è così pensato di proporlo in apertura del progetto come momento di riflessione sul libro di testo, sugli strumenti alternativi e, in generale, sull’adozione della prospettiva di genere nella relazione educativa, con specifico riferimento all’insegnamento della storia. Da quel denso seminario nascono le riflessioni che proponiamo in questa sede[2].

Il bisogno

Come detto, si tratta di un progetto che ci faceva compagnia e alimentava le nostre fantasie di formatrici e ricercatrici già da alcuni anni. Ritagliarsi uno spazio e un tempo di qualità per riflettere a partire dai libri di testo e dal ruolo che essi rivestono nella socializzazione di genere: da un lato la trasmissione di norme di comportamento e di cosa sia accettato, auspicabile e consentito nella nostra società anche in base al nostro genere, in una parola la normatività; dall’altro le potenzialità che essi hanno di agire come detonatori culturali, come attivatori di letture critiche dell’esistente e delle norme stesse, come leve di cambiamento. Punto di riferimento e gabbia per docenti e studenti, i libri di testo rappresentano oggetti e scrigni di lessico e immaginari comuni e trasversali, che entrano in ogni classe e in ogni casa, passando di mano dalle aule alle famiglie, consultati in gruppo e in autonomia. Strumenti utili e necessari, o superflui, o dannosi, superati o da riscrivere, la riflessione a riguardo si allarga chiamando in causa aspetti molto diversi delle relazioni educative nel contesto scolastico: la formazione e l’autoformazione, le forme di visibilizzazione e marginalizzazione che interessano le diverse soggettività, la subalternità in cui vengono relegate donne e bambine, lo stigma e il silenzio che avvolge le persone LGBT+ tra le altre soggettività oppresse o minoritarie.

Tutta questa ricchezza e questa complessità si sono espresse nel corso delle due giornate che hanno visto persone operanti nella scuola, nell’editoria, nell’accademia, nell’associazionismo dialogare e confrontarsi intorno a singoli tagli o prospettive, incrociando sguardi, posizionamenti e competenzee, declinate nei sei diversi panel che hanno avuto come argomento: i libri di testo, come conoscerli, usarli e integrarli; la storia di genere all’interno di differenti sistemi formativi europei; la proposta di legge (attualmente depositata alla Camera dei Deputati?) riguardo a “Misure di contrasto agli stereotipi di genere e per la promozione della diversità e dell’inclusione nei testi scolastici”; l’uso degli albi illustrati nella didattica come scelta educativa e pedagogica, per la decostruzione degli stereotipi di genere e della ciseteronormatività, ovvero di quel sistema culturale che abitiamo, che riconosce superiorità e considera naturali l’orientamento sessuale eterosessuale e l’identità di genere cisgender degli individui; i diversi strumenti, linguaggi e ambienti, digitali e non, come scelte mai neutre; gli strumenti digitali per la didattica della storia e delle scienze umanistiche.

Le parole per raccontarlo: educazione

Ora, a distanza di mesi, ci si perde fra i fogli di appunti ricchissimi di quei due giorni, provando a ricostruire tracce e percorsi dei numerosissimi stimoli emersi.

La prima cosa che torna alla memoria, che nel tempo continua a sedimentare, sono le parole di Antonella Capetti, riprese più volte nei diversi panel: “l’educazione è politica”. Una convinzione, quella dell’educazione come atto di liberazione dall’oppressione e dalla riproduzione di dinamiche di potere, che richiama immediatamente i testi di bell hooks[3], attivista statunitense femminista nera e teorica del pensiero intersezionale[4], e che ha sicuramente motivato tutt* noi in quelle giornate come organizzatrici e come uditor*. E non solo: la stessa convinzione muove infatti quotidianamente il nostro lavoro.

L’educazione al genere è stata chiamata tante volte in causa. Innanzitutto come “educazione alla parità”, includendo dunque la responsabilità educativa di farla esplodere nell’educazione alla pari  legittimità di esistenza, a pari diritti, possibilità e visibilità per ogni soggettività, in particolare per tutte le soggettività oppresse sistematicamente e sistemicamente, che non hanno spazio di esistenza nell’immaginario individuale e collettivo. La stessa parola “Responsabilità” è per altro ritornata costantemente nel dibattito ed è stata ripresa nel finale da Monica di Barbora. Donne, bambine, persone trans, persone gay, lesbiche, pansessuali, bisessuali, donne e uomini cisgender non conformi ai modelli dettati dalla ciseteronormatività dominante, persone non bianche, non normativamente abili, sono sottorappresentate, assenti o ghettizzate nelle narrazioni e nelle rappresentazioni: la responsabilità di questo stato di cose è quotidianamente di chi fa educazione, formazione, letteratura, progettazione di strumenti per la divulgazione e la didattica.

Oltre che come educazione alla parità, l’educazione al genere è emersa poi diverse volte anche come “non neutralità”, come “educazione alla complessità” e “al questionamento”

Una serie di fili intrecciati, che ci hanno accompagnato durante il convegno nella decostruzione dell’ovvio e della naturalizzazione, obiettivi identificati già da Rossella Ghigi nel suo Fare la differenza[5].

Fin dalla sua relazione introduttiva su Storia, genere e didattica Liliana Ellena ha dichiarato e declinato la prospettiva intersezionale, che ha rappresentato la cifra che volevamo connotasse questi due giorni. È emersa infatti coralmente l’esigenza di valorizzare, rendere visibile e tutelare la pluralità di corpi, di generi, di orientamenti sessuali, di etnie, di vissuti, di esperienze, di punti di vista, di narrazioni e di fonti. E con essa la pluralità di libri come sguardi sul mondo, come lenti prospettiche per leggere e rappresentare la realtà.

Il libro di testo

Lo spunto del ragionamento è stato fornito proprio dal libro di testo, «uno strumento potentemente democratico» nelle parole di Antonella Capetti, ma anche di Elena Biagini e di Irene Biemmi, che ne hanno rivendicato con forza tale ruolo. È in quest’ottica che non possiamo limitarci a metterlo da parte e pensare di superarlo, se le buone prassi non vengono messe a sistema, come sottolineato anche da Agnese Portincasa. È questo il testo, a volte l’unico, che entra in tutte le case, che garantisce la costruzione di un lessico e di un immaginario condiviso. Viene però da controbattere, come più volte reclamato con forza, che anche la formazione docenti, iniziale e in servizio, dovrebbe essere uno strumento diffuso, finanziato, tutelato e a disposizione di tutt*. Una formazione docenti con queste caratteristiche garantirebbe qualità e permetterebbe di introdurre/salvaguardare in modo più efficace e pervasivo la prospettiva di genere. A riguardo, la realizzazione del seminario ha dovuto molto alla partecipazione dell’Istituto Comprensivo Simonetta Salacone di Roma che ospita l’intero progetto Storia libera tutte, al fatto che esista e costantemente si realizzi, in quel contesto come in altri, un confronto e un dialogo continuo tra buone prassi, sperimentazioni individuali e collettive, corpo docenti, riflessione teorica, in un ciclo di riflessività, formazione e autoformazione che si reitera e si autoalimenta.

Dunque, la centralità della «formazione», che garantisca competenze permanenti, che crescano e si plasmino all’interno dei contesti, perché lo strumento principale su cui fare affidamento sia la «riflessività docente», individuale e collettiva, ovvero la capacità di riflettere costantemente sul proprio operato in un moto circolare e progressivo. Formazione che quindi deve essere permanente, che richiede uno stanziamento di fondi, che chiama in causa la responsabilità dell’università perché accompagni tutto il percorso professionale dall’inizio senza interrompersi, perché consenta e mantenga il dialogo con le linee di ricerca e di innovazione.

Tornando al libro di testo esso si configura come il principale strumento normativo con il quale si confrontano bambin*, ragazz* e giovani adult*, e anche lo strumento più normalizzante, citando Umberto Eco in I pampini bugiardi[6], richiamato da Irene Biemmi. Lo abbiamo osservato e indagato nei diversi contesti europei, nelle possibilità di riscritture, fino alla proposta di un disegno di legge come quello attualmente depositato alla Camera dei deputati sotto il nome di “Disposizioni per la promozione della diversità e dell’inclusione nei libri scolastici nonché istituzione di un osservatorio nazionale”. Se ne è discusso con Marzia Camarda, Monica Pasquino e Ivonne Panfilo, interrogando la capacità dello strumento giuridico di orientare i processi culturali, nonché di un testo di legge di prestarsi a rappresentare la pluralità delle esperienze e delle soggettività. Un piano di discussione estremamente complesso, che ha fatto emergere come lo strumento normativo, di per sé mai esaustivo nella sua efficacia, richieda necessariamente un massiccio sforzo di condivisione e partecipazione per essere messo a punto.

Gli albi illustrati

Oltre a educazione, anche parole chiave come «non neutralità» e «responsabilità» sono tornate molte volte nel corso del convegno. Non neutralità e responsabilità delle scelte plurali, dei diversi punti di vista e posizionamenti, delle esperienze, in grado di dare voce e aiutare a prendere parola, come si è detto molto anche all’interno del panel che ha messo in dialogo il lavoro di SCoSSE, di Antonella Capetti e della casa editrice Settenove. Dal dialogo è emerso come gli albi illustrati possano essere un potente strumento in questo senso, grazie al loro fornire infiniti punti di vista, esperienze e vissuti diversi da conoscere e riconoscere, narrazioni e rappresentazioni in cui identificarsi, linguaggi espressivi da praticare. L’albo può rappresentare anche una possibilità di superare il libro di testo e di ripensarne radicalmente la funzione, di sperimentare, di riprogettare e di mettere al centro la qualità dei prodotti editoriali e l’accessibilità, tema questo al centro dell’esperienza della casa editrice di libri tattili ET, presentata da Michela Tonelli.

Una nuova grammatica

Monica Martinelli ha parlato di porre le basi per una nuova grammatica delle relazioni ‘chomskyanamente generativa’, fatta di relazioni dove consenso e consapevolezza divengano e vengano riconosciuti come regolatori delle dinamiche relazionali (non tossiche). «Consenso» e «consapevolezza» che devono investire anche la fruizione degli ambienti, dei canali e degli strumenti digitali che accolgono e plasmano relazioni. La sfida è sottrarli a dinamiche di controllo algocratiche, ovvero di sottomissione al dominio degli algoritmi che oltre a leggere tutte le nostre scelte e i nostri comportamenti addirittura li suggeriscono, orientano e condizionano, come esposto da Barbara D’Ippolito. Per fare questo è necessario promuovere processi di acquisizione e condivisione di competenze digitali, prendendo atto della pervasività della condizione onlife[7], termine usato da D’Ippolito per indicare la quantità-qualità di esistenza che si realizza nella dimensione online, ormai così pervasiva dei nostri vissuti, delle nostre relazioni e delle nostre costruzioni identitarie. La relatrice ha presentato a proposito diversi esempi di come gli algoritmi dei motori di ricerca indirizzino le nostre scelte e interpretazioni. A colpire particolarmente è stato l’inserimento di due frasi: da un lato “alle donne piace”, per cui Google proponeva “la barba”, “essere maltrattate”, “essere legate” …; dall’atro “agli uomini piace”,a cui seguivano le associazioni con “il seno piccolo”, “il fisico a pera”, “la donna dolce”, “inseguire”. Una condizione immersiva che, con caratteristiche e impatti diversi e peculiari, accomuna ormai differenti generazioni, dalla prima infanzia, all’adolescenza all’età adulta. Tra gli effetti più evidenti di questa pervasività delle esperienze on line v’è una mutazione della presenza/coscienza dei corpi, le pressanti forme di categorizzazione specifiche dei processi algoritmici che indirizzano i nostri processi decisionali e di conoscenza, nonché i pregiudizi che in questo modo si assumono e reiterano, come nell’esempio di interrogazione di Google proposto da D’Ippolito. Legandosi a queste considerazioni Vanessa Roghi ha identificato i punti in comune che la digitalizzazione dei processi educativi condivide storicamente con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa. Rifacendosi alla visione della Media Education proposta da Cary Bazalgette[8], il filo conduttore tra i due scenari sarebbe la funzione dei media, volta a normalizzare e cancellare ciò che non si presta ad essere reso ‘rispettabile’.

Il linguaggio

Un altro aspetto che ha attraversato diversi panel è quello del linguaggio e del potere performativo dello stesso, del suo essere potenzialmente tanto linguaggio escludente quanto inclusivo. Uno spunto lo ha fornito l’esperienza stessa di utilizzare nel corso del seminario la schwa[9], segno linguistico corrispondente a un suono vocalico attestato dall’alfabeto fonetico internazionale (IPA), del cui uso nella lingua italiana si sta attualmente accesamente discutendo, come desinenza di genere neutra, al fine di risultare inclusiva di tutte le identità di genere, rispetto al diffuso uso del maschile sovraesteso che intenderebbe comprendere tutte le soggettività, nominando però solo quelle maschili. Questo ha reso possibile condividerla e tematizzarla, insieme alle resistenze che può incontrare il suo uso corrente e che solo attraverso di esso possono venire superate, digerite, metabolizzate. E se si è parlato molto di «pratiche di questionamento» viene in mente a questo proposito come chiedere il pronome che si intende usare quando ci si relaziona con qualcun* debba essere una pratica da acquisire nella quotidianità; come interrogare le norme e la naturalizzazione debba essere una pratica educativa. Pratiche educative riflessive che possono risultare individualmente impegnative, faticose, come hanno sottolineato diversi interventi. La stessa «fatica» che comporta sovvertire un ordine costituito.

Insegnare storia per educare alla libertà

L’architettura del seminario e i contenuti intorno ai quali hanno ruotato le discussioni dei panel hanno messo in evidenza come, se da un lato un rinnovamento della didattica della storia in chiave di genere sia imprescindibile da un approccio ampio, basato su una prospettiva pluri e transdisciplinare, dall’altro proprio la storia e il suo insegnamento possano offrire degli elementi specifici e utili alla trasformazione delle relazioni educative.

A cominciare dalla possibilità di superare quella concezione incorporea del sapere richiamata da Liliana Ellena nella relazione di apertura (Storia, genere e didattica): una visione distorta che lo rende illusoriamente e falsamente neutro, ma che nasconde – ormai non troppo bene – un punto di vista parziale connotato come maschile, bianco, occidentale. La formazione storica può aiutare a comprendere la sua essenza umana e corporea che va agita, messa in discussione, decostruita dalle menti e dai corpi che entrano in relazione con essa, promuovendo contemporaneamente nuovi saperi incorporati, coscienti e consapevoli della propria corporeità. Un percorso che è dunque allo stesso tempo decostruttivo e progettuale, poiché prevede un’operazione critica del carattere oggettivo attribuito al sapere e, leggendolo in prospettiva storica e riconoscendo la sua parzialità, aiuta «a guardare al mondo come ‘qualcosa che è stato fatto; perciò può essere rifatto»’ [10].

La trama da tessere per il raggiungimento di questo obiettivo deve necessariamente riguardare le pratiche linguistiche, il curricolo implicito, l’atteggiamento de* docenti, oltre che l’uso di metodologie attive e una considerazione dell’esperienza di docenti e discenti come componente fondamentale dei processi di apprendimento. La stessa revisione dei curricoli non dovrebbe prevedere semplicemente delle aggiunte ed espansioni ma un ripensamento che investa nella loro totalità tutte le discipline insegnate, a partire dalla matematica fino ad arrivare alla letteratura italiana, passando per le scienze naturali.

“Per educare alla libertà, quindi, dobbiamo sfidare e cambiare il modo in cui si pensa al processo pedagogico”[11]sostiene bell hooks, in dialogo con Ron Scapp, filosofo e amico, sulla possibilità di costruire una comunità di apprendimento usando gli strumenti elaborati dalle teorie femministe. Un cambiamento radicale che prevede anzitutto una riflessione sul carattere non neutro dei processi formativi, da condurre di concerto con tutti i soggetti della relazione educativa. A partire dal riconoscimento del valore delle esperienze nelle teorie e nelle pratiche dell’apprendimento, come sostiene Henry Giroux nei propri scritti di pedagogia critica[12], anche se a volte è complicato e doloroso accoglierle o esternarle. Studenti e docenti portano con sé la propria famiglia, la propria cultura, i propri sentimenti, il proprio corpo, le proprie storie, elementi che compongono soggettività uniche che non possono essere negate se si intende guardare all’apprendimento come un percorso significativo e trasformativo[13]. Questa ricchezza, questa unicità viene tanto più estromessa dai percorsi formativi quanto più si salgono ordine e grado di scuola, fino ad arrivare alla formazione universitaria e, nella gran parte dei casi, è stata ancora più tagliata fuori a causa delle modalità proprie della didattica a distanza, come si è avuto modo di discutere nel panel Diversi strumenti: una scelta e un’esperienza mai neutre. Le tecnologie, con le potenzialità e i rischi a esse connesse, a lungo ignorate nelle scuole, sono divenute, con la dad, canale primario della relazione educativa che, se da un lato ha consentito di restare in contatto nonostante l’isolamento, dall’altro ha offerto la possibilità di essere presenti ma al tempo stesso calare una cortina tra sé e il mondo, di rendere invisibili i corpi. Soprattutto nell’intervento di Barbara D’Ippolito, sono stati dunque messi in evidenza i limiti e i rischi di una pervasività del digitale – a partire da un’interazione senza soluzione di continuità tra online e vita, fatta di gesti che ‘nutrono’ gli algoritmi –, non sostenuta da adeguati percorsi formativi che preparino a un uso critico. Come ha sottolineato Vanessa Roghi, ricordando le esperienze di tipografia a scuola del Movimento di Cooperazione Educativa, pur non trattandosi della prima volta che le tecnologie sono protagoniste della didattica, si fatica a portarle nelle aule come strumento autorevole di apprendimento, al pari di quelli tradizionali, e, di conseguenza, a mettere a sistema una formazione capillare e in forte connessione con le discipline che le riguardi. Il valore formativo della storia come disciplina che consente di orientarsi nella complessità e di contrastare infodemia e misinformazione dovrebbe essere centrale in questo percorso.

Gli strumenti per insegnare la storia delle donne e di genere

La non neutralità degli strumenti è stata un argomento importante e assai ricorrente di questo seminario, come ricordato anche da Sara Marini. A partire dal difficile rapporto con il libro di testo. Le studiose di storia delle donne e di genere si sono da sempre confrontate con le difficoltà della trasposizione del nuovo sapere nella cosiddetta storia generale del curricolo e della vulgata scolastica. Come sostiene Elda Guerra, pensando all’insegnamento della storia delle donne nel Novecento, essa – per via delle sue differenti temporalità e del permanere di strutture arcaiche nei modelli sociali di rappresentazione di genere – è difficilmente incardinabile nella narrazione diacronica proposta nei manuali senza prevedere una forte rimessa in discussione di quest’ultima[14]. Per questa ragione si è insistito sulla necessità di trovare strade alternative rispetto a un modello originario di riferimento, che superino il manuale e la sua forma narrativa impersonale e illusoriamente oggettiva[15].

Questioni dibattute ampiamente nei panel Libri di testo: conoscerli, usarli, integrarli e Gli albi illustrati entrano in classe. Nella discussione sono state ancora una volta messe a tema tutte le lacune e le criticità dei libri di testo, non solo di storia, rese visibili dalle ricerche[16] e dalle pratiche delle insegnanti, nonché da iniziative come quella di Indici Paritari, nata per promuovere la presenza femminile nei libri di testo e un linguaggio che tenga conto delle differenze di genere, presentata al seminario da Filomena Taverniti. Tuttavia, gli interventi delle relatrici hanno dato conto anche di un movimento e di una copiosità di iniziative editoriali, che vanno in direzione del pluralismo di modelli – opposto a ogni tipo di censura – auspicato da Irene Biemmi: i progetti nell’ambito dell’editoria scolastica per la primaria seguiti da Antonella Capetti e Irene Biemmi, le pubblicazioni di SCoSSE, il catalogo Settenove nella sua interezza ma con particolare riferimento alla collana di albi illustrati Storie nella storia realizzata in collaborazione con la Società Italiana delle Storiche, o anche il volume per docenti I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia curato da Alessandra Celi con Franca Bellucci e Liviana Gazzetta[17], nel quale si propongono strumenti di autoformazione (sintetici saggi tematici, un utile questionario di autovalutazione) e percorsi didattici costruiti sulle fonti (anch’esso promosso dalla SIS). Queste proposte fanno pensare e sperare che si stiano creando le condizioni favorevoli a un rinnovamento interno al mondo dell’editoria scolastica e che, attraverso una collaborazione virtuosa tra docenti e ricercatrici, sia possibile provare a superare le difficoltà proprie dell’innesto tra studi di genere e tradizionali strumenti della didattica. Si continuerà a seguire da vicino l’iter parlamentare della proposta di legge Disposizioni per la promozione della diversità e dell’inclusione nei libri scolastici nonché istituzione di un osservatorio nazionale, presentata e discussa nel panel coordinato da Giulia Franchi, di cui è parte significativa la formazione del corpo docente e del personale delle case editrici.

Lo spazio digitale

Oltre alla centralità del libro di testo, nel seminario è stato riservato molto spazio al digitale, vista la sua pervasività, fattasi ancora più invadente e massiccia nell’ultimo periodo, ma soprattutto considerata la necessità di metterlo al centro della riflessione come elemento trasformativo delle relazioni in generale e della relazione educativa in particolare, del quale è importante conoscere potenzialità e limiti. Questioni indagate nel più volte citato panel Strumenti digitali per la didattica della storia e delle scienze umanistiche, messe a fuoco nell’introduzione della moderatrice Monica Di Barbora e sviscerate negli interventi delle relatrici. Come sostenuto da Agnese Portincasa, è di fondamentale importanza non soffermarsi soltanto sulle funzioni estetica e comunicativa degli strumenti informatici, che ne esaltano le caratteristiche formali, ma porsi delle domande funzionali a un uso che promuova l’accessibilità, l’inclusività e la sostenibilità. Anche in questo caso, un impiego significativo passa per una riflessione sulla non neutralità dei contenuti, dei modelli, dei metadati per provare a farne un uso intersezionale. Le questioni della selezione delle risorse disponibili online e della mancanza di tracce dell’opera di selezionamento, che appiattiscono sul presente lo spazio digitale e che ne fanno scomparire la dimensione soggettiva, sono state individuate come centrali nell’analisi di Tiziana Mancinelli e nella sollecitazione della moderatrice, Monica di Barbora. La prospettiva di genere è spesso ignorata nella rappresentazione informatica, problema ravvisabile nella carenza di progetti specifici e nella presenza nettamente minoritaria della componente femminile in repertori digitali. A questo proposito mi fa particolarmente piacere ricordare il progetto didattico di PCTO Herstory, presentato da Sara Pezzutti[18], che parte dalla ricostruzione di alcune biografie femminili poco note della storia del Novecento, per poi proporre a studenti delle scuole secondarie di secondo grado di prendere parte alla loro valorizzazione attraverso la pagina Instagram dell’Istituto.

La necessità di stabilire un rapporto di senso tra teoria e strumenti, per dirla con Agnese Portincasa, passa inevitabilmente per un serio piano di formazione docenti, che invece spesso vengono lasciat* completamente sol* nella gestione delle dinamiche educative.

Come ho avuto modo di ricordare nell’ambito del panel che ho coordinato, Storia di genere nel sistema formativo: alcuni casi in Europa, nel sistema formativo italiano, l’attenzione complessiva riservata alla prospettiva di genere risulta infatti assai limitata. Con particolare riferimento al primo ciclo di istruzione e alla scuola primaria, pochi elementi a essa riconducibili si riscontrano nelle Indicazioni nazionali per il curricolo del 2012, tuttora in vigore, e nelle successive integrazioni (Indicazioni nazionali e nuovi scenari, 2018). Tendenzialmente, gli inviti a considerare le differenze tra studenti emergono soprattutto laddove si affrontano la progettazione educativa nel suo complesso e le questioni di cittadinanza[19].

Suddette sollecitazioni, sebbene significative, a mio avviso, non hanno evidenti riscontri nella progettazione e nella pratica didattica per due fondamentali ragioni: non cogliendo la portata innovativa e per certi versi dirompente degli studi di genere, anche negli specifici ambiti disciplinari, si fermano a un riferimento vago a essi e non indicano le possibili traiettorie attraverso cui è possibile raggiungere quei traguardi di cittadinanza; inoltre, proprio in ragione di ciò, non prevedono un adeguato piano di formazione e aggiornamento a sostegno.

È stato interessante confrontare le politiche messe in atto in direzione dell’adozione della prospettiva di genere in diversi contesti europei, in particolare in Francia, in Catalogna e nella Svizzera italiana, che ci sono state presentate rispettivamente da Nathalie Bardey, Sandra Muzzi e Lisa Fornara: politiche molto diverse tra loro per tempi di promulgazione, di attuazione e per impostazione. Per quanto riguarda il caso francese, un impegno legislativo ventennale in favore dell’uguaglianza di possibilità, formative e professionali, per ragazze e ragazzi nel sistema educativo, articolato in interventi di formazione di insegnanti, ragazze, ragazzi e famiglie, non vede riscontri significativi nelle pratiche didattiche a causa della disorganicità delle riforme riguardanti la scuola. Una maggiore dinamicità sembrerebbe invece animare la realtà catalana, nella quale le autonomie locali riescono a contrastare una precarietà data dall’avvicendarsi di governi con visioni contrapposte su queste tematiche. Infine il caso della Svizzera italiana, nel quale – nonostante uno spazio non autonomo conferito alla storia nella scuola primaria e nella scuola media – la gestione da parte ministeriale dei libri di testo e della formazione sta garantendo una diffusione uniforme delle riforme introdotte.

Tuttavia, la considerazione della complessità degli interventi necessari a produrre un cambiamento significativo in ambito formativo convince dell’importanza di una messa a sistema delle questioni che abbiamo scelto di discutere durante il seminario, che non perda però i contatti con la lunga tradizione di esperienze volte a colmare i vuoti legislativi. Così come ci invita a proseguire con le preziose riflessioni che in questa sede abbiamo solo potuto richiamare.

Conclusioni

La difficoltà che si incontra nel tentativo di tracciare delle conclusioni ci rimanda come quello che queste due giornate ci hanno consegnato sia in realtà un’apertura, un’enormità di spunti che sollevano la responsabilità di riprenderli e rilanciarli. Si è parlato di tecniche, di pratiche, di esperienze; si è citato Freinet, la pedagogia delle domande di Freire[20] e dunque anche l’importanza della memoria è risuonata costantemente, della memoria come anch’essa mai neutra e come azione attiva e di responsabilità. Dunque «tecniche, pratiche, esperienze» che devono essere centrali, che devono essere interrogate recuperando memoria storica, sperimentando altri linguaggi stimolando tutti i sensi, come ci ha ricordato Michela Tonelli. Contro la «retorica dell’eccezionalità», più volte avversata e messa in discussione, che non fa altro che creare nuovi confini e nuove gerarchie, quello che bisogna rimettere al centro sono le pratiche quotidiane, quelle ancorate ai vissuti e alle relazioni, perché in esse si riconosce un potere effettivamente trasformativo. Ed ecco che torna la centralità della «relazione educativa», del ruolo della figura docente rispetto a interventi e relazioni estemporanee, e del rimettere al centro i corpi, anche in larga misura attraverso un’operazione di formazione. «Domande e questionamenti, vissuti ed esperienze» si offrono dunque come i perni intorno ai quali si è dipanata questa due giorni di riflessioni e confronti, i fuochi da tenere accesi e da non perdere di vista, le urgenze da tenere al centro del nostro agire.

E citando ancora Monica di Barbora per la quale le crisi le pagano le soggettività già oppresse, le pratiche transfemministe ci insegnano però che possono essere anche una grande opportunità, a partire proprio dal mettere in comunicazione i saperi, riconoscere l’autorevolezza dell’esperienza, infrangere la separazione tra teoria e pratica, alimentare la consapevolezza e costruire prospettive comuni, per cercare ancora tra le parole di bell hooks.

 

Le registrazioni dei panel sono disponibili sul canale YouTube della Società Italiana delle Storiche: https://www.youtube.com/channel/UCYv5wXGxBT0gvQ_lWlLg_GQ

 


Note:

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Albo_illustrato

[2] In particolare, Sara Marini è autrice delle sezioni Il bisogno e Le parole per raccontarlo; Elisabetta Serafini delle sezioni Insegnare storia per educare alla libertà e Gli strumenti per insegnare la storia delle donne e di genere.

[3] b. hooks , Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, Roma 2020.

[4] l’esigenza di valorizzare, visibilizzare e tutelare la pluralità di corpi, di generi, di orientamenti sessuali, di etnie, di vissuti, di esperienze, di punti di vista, di narrazioni e di fonti.

[5] R. Ghigi, Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta, Il Mulino, Bologna 2009.

[6] M. Bonazi, U. Eco, I pampini bugiardi, Guaraldi, Rimini 1972.

[7] Termine coniato dal filosofo Luciano Floridi. L. Floridi, The Onlife Manifesto: Being Human in a Hyperconnected Era, Springer, 2015, p. 1, ISBN 978-3-319-04093-6. URL consultato il 07/04/2020.

[8] C. Bazalgette, Media Education, Lubrecht & Cramer Ltd., UK 1991.

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/Scev%C3%A0

[10] E. Donini, La costruzione culturale delle scienze della natura, in Porzio Serravalle E. (ed.) 2000, Saperi e libertà: maschile e femminile nei libri, nella scuola e nella vita. Vademecum, vol. I, Associazione Italiana Editori, Milano 2000, pp. 111-135: 112. In questa citazione dal saggio di Elisabetta Donini è contenuto un passo da C. Enloe C. 1989, Bananas, Beaches & Bases. Making Feminist Sense of International Politics, Pandora Press, Londra 1989, p. 112.

[11] hooks, 2020, p. 179.

[12] Tra gli altri studi, si veda H. A. Giroux, On critical pedagogy, Continuum, New York 2011.

[13] Giroux, 2011, p. 122.

[14] E. Guerra , Insegnamento del Novecento e storia delle donne: una discussione aperta, in “Storia e problemi contemporanei”, 20, 10, 1997, pp. 205-213: 209.

[15] Si veda I. Fazio I. (a cura di), I libri di testo: manuali di storia, “Genesis”, I/2, 2002, pp. 183- 203.

[16] In particolare, sui testi per la primaria, si vedano, tra gli altri, I. Biemmi, Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari, Rosenberg & Sellier, Torino 2010, che contiene riferimenti alla produzione precedente, ma anche C. Corsini, I.D.M. Scierri, Differenze di genere nell’editoria scolastica. Indagine empirica sui sussidiari dei linguaggi per la scuola primaria, Nuova Cultura, Roma 2016. Per la secondaria, con particolare riferimento alla storia, tra le pubblicazioni più recenti segnalo M. Rovinello, Esserci per non essere. Donne, LGBTIQ+ e genere nei manuali per le superiori, in “Genesis”, XIX/1, 2020, pp. 93-119.

[17] Il volume è stato pubblicato dalla casa editrice Biblink (Roma) nel 2019.

[18] Il progetto si può seguire su Instagram: https://www.instagram.com/herst__y/

[19] Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione», Annali della Pubblica Istruzione, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (a cura di), periodico multimediale: Le Monnier, numero speciale, anno LXXXVIII, 2012, pp. 7 e 10.

[20] P. Freire, A. Faundez, Por uma Pedagogia da Pergunta, Paz e Terra, Rio de Janeiro 1985.