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Storia dell’alimentazione, pedagogia e public history: esperienze di didattica universitaria

Storia dell’alimentazione, pedagogia e public history: esperienze di didattica universitaria

Pubblico dominio, Collegamento

Abstract

Questo contributo intende proporre alcune riflessioni sull’esperienza didattica, pedagogica e di public history che l’autore ha avuto la possibilità di sperimentare nel corso dell’anno accademico 2022/2023, nell’insegnamento Storia dell’Alimentazione in epoca moderna e contemporanea di cui era titolare presso l’University of Gastronomic Sciences di Pollenzo. Dopo una prima introduzione sull’esperienza d’insegnamento, dopo alcune riflessioni sui metodi educativi e pedagogici più appropriati per una tematica multi e trans-disciplinare, l’autore passa a trattare lo strumento del podcast come esperienza che mette a sistema gli stimoli proposti nell’aula universitaria e poi a presentare i progetti realizzati dai singoli gruppi di studentesse e studenti.

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This article intends to propose some reflections on the didactic, pedagogical and public history experience that the author experimented during the 2022/2023 academic year, in the History of Food in Modern and Contemporary Times teaching course he held at the University of Gastronomic Sciences in Pollenzo. After an initial introduction on the teaching experience, and after some reflections on the most appropriate educational and pedagogical methods for a multi and trans-disciplinary subject, the author moves on to deal with the podcast tool as an experience that systematises the stimuli proposed in the university classroom, and then to present the projects realised by the individual groups of students.

Introduzione

Ricordo sempre i particolari delle prime lezioni di ogni corso. Il mio “Good morning” e, in risposta, un coacervo di voci in crescendo, che crea un suono incomprensibile. Poso la borsa accanto alla cattedra, tiro fuori il Mac, mentre un tenue brusio fa da colonna sonora a questo primo atto di un film con tantissimi attori e che verrà scritto settimana dopo settimana. Poi riprendo “How are you doing?”. A questo punto, una parte consistente di coloro che avevano timidamente bisbigliato qualcosa poco prima rimangono in silenzio e guardano cosa sta per accadere. Le persone più coraggiose rispondono “good”, scatenando ilarità, risate e qualche commento. L’inglese è il terreno dello scambio di significati tra me e studentesse/studenti che arrivano da ogni parte del mondo: Stati Uniti, Europa, America Latina, Africa, Asia.

“This course is dedicated to…” e così inizia la presentazione, che accompagno a apposite slides: semplici, senza troppi fronzoli o con grafiche complicate, in modo da riassumere quanto sto dicendo in modo chiaro. È proprio in questa fase iniziale che è necessario concentrare tutte le informazioni fondamentali per dare un orientamento in termini di tempo e spazio, ma anche rispetto ai compiti e alle valutazioni. “Concentrare”, in questo caso, non sta per condensare: è necessario intraprendere questo percorso passo dopo passo, senza lasciare nessun argomento e soprattutto nessuna e nessuno indietro. Ciò vuol dire, per esempio, cercare l’interazione con chi non risponde, con chi sta al fondo della classe, con chi inizia a scherzare e sorridere con i vicini di banco. Non nel senso di un riprendere, del redarguire, del punire, del chiedere silenzio, ma del coinvolgere, del trovare quel punto di contatto capace ricompattare il gruppo, per riprendere insieme il percorso.

Ancora una volta, per tentare di raggiungere questi obiettivi è necessario lavorare sulla figura del docente – uso il singolare maschile appositamente – come simbolo di un sapere che ha un profilo biologico e immaginario, che è incarnato nella figura del professore. Problematizzare questo “maschile bianco che insegna” serve ad evitare l’azione di soggettività patriarcali – tra docenza e giudizio – che narrino una storia presentata come unica[1], universale e omogenea nel racconto, ossia senza contraddizioni e ambiguità: il più delle volte, infatti, si tratta di quella storia – nella quale il soggetto maschile è il centro palese o celato del processo di significazione – che deve essere accettata sempre e da tutti[2]. Ancora, ripensare alla figura del docente può essere utile per evitare di dividere la classe tra buoni dai cattivi, lasciando le soggettività non maschili sempre un passo indietro; per evitare forme di dispotismo e paternalismo. La domanda è: il silenzio in classe è dovuto a ciò che si sta insegnando o per chi sta spiegando?

“History of food cultures is devoted to examine and discuss different food cultures and their connections”, continuo. Vedo che gli sguardi si fanno meno assertivi, che rimangono attenti, sì, ma c’è qualcosa che non li convince. Proprio in quel momento, quando percepisco la traccia del dubbio sui loro volti, è necessario fornire gli strumenti per risolvere in modo definitivo il rapporto docente/studentessa-studente. Intendo, cioè, che la domanda non posta è il maggior pericolo per l’apprendimento perché declassa l’insegnamento e lo studio a meri strumenti per il raggiungimento dell’obiettivo: il voto. E questa connessione tra sapere e valutazione, che è sussunta nel ruolo del docente rispetto all’istituzione accademica, sovradetermina l’aspetto più importante della disciplina storica: la possibilità di approcciare da diverse angolazioni, con molteplici fonti e differenti punti di vista l’evento. Il fatto, la cronologia, le motivazioni: ciò che manca, il più delle volte, è proprio l’aspetto contestuale che – è bene ribadirlo – non è mai un dato empirico, assoluto e cristallizzato nel passato, ma dipendente dalle soggettività di chi ricerca o interpreta il passato, dalle prospettive adottate per connettere la fonte al mondo che l’ha prodotta.

 

Per una pedagogia della storia dell’alimentazione

Partendo da queste considerazioni, mi sono più volte chiesto come insegnare storia contemporanea dell’alimentazione, al triennio e alla magistrale. Se la storia è un sapere che può avere un potenziale trasformativo nelle traiettorie di vita delle studentesse e degli studenti, è determinante porre sotto la lente d’indagine le modalità comunicative e dialogiche. E nulla va lasciato a latere, neppure ciò che di strutturale sta intorno alla parola pronunciata, alla didattica come scambio intersoggettivo. Mi riferisco all’aula, alla sua forma che materializza un piano non paritario, ma inclinato e verticale di relazioni di potere. Le aule lunghe e con i banchi in fila, uno dietro l’altro; la cattedra sollevata da terra: quei tre gradini e i rumori dei passi che li scalano per giungere la cima, ponendo un sostanziale e implicito rimando alla base, al plateatico di chi sta sotto; il microfono e gli altoparlanti che propagano una voce unica, quella del docente, verso le tante orecchie degli studenti e delle studentesse. Le forme della disparità sono sviluppate anche e soprattutto dal punto di vista sensoriale: il/la docente può parlare, le studentesse/gli studenti devono ascoltare. La percezione dell’insegnamento della storia dipende da questi fattori, come avviene per tutte le altre discipline umanistiche. La differenza sostanziale rispetto alla sociologia o all’antropologia, ad esempio, sarebbe il tema: gli eventi del tempo passato. O almeno, questa è una traduzione maldestra di storia dedicata a conoscere gli eventi di un tempo consumato, oramai finito e da archiviare. Una storia di questo tipo, qualunque essa sia, non serve a nulla – forse solo a partecipare a qualche quiz televisivo o a rispondere alle domande di Trivial Pursuit: è mero nozionismo. Il più delle volte, come ci ha insegnato Walter Benjamin[3], tale concezione è prettamente illusoria e sempre il futuro – che sia il vento che spinge l’angelo con le spalle all’avvenire e lo sguardo sulle rovine o di altro genere – è chiamato in causa.

E poi c’è la lezione, quando cioè l’insegnamento va in scena. Qui, per tornare a quanto detto sopra, si può parzialmente rimettere in discussione i formalismi strutturali e relazionali di questo lavoro, riconsiderando le soggettività in dialogo (o supposto tale) in rapporto con i ruoli che dovrebbero svolgere. Per fare ciò, è fondamentale elaborare una pedagogia utile e capace di recepire appieno il portato della storia dell’alimentazione – nello specifico – per comprendere le sfaccettature delle trasformazioni del mondo.

Prima di addentrarmi in questo tema, è necessario chiarire perché questa tipologia di storia è così differente da quella politica o economica, nazionale o delle relazioni internazionali. Citando il titolo di un fortunato libro di Massimo Montanari, il cibo è cultura[4]: significa, cioè, che molteplici sono le angolature dalle quali si può osservare un medesimo evento riguardante l’alimentazione. Facciamo alcuni esempi per rendere più chiara la questione. La vicenda dello zucchero, ad esempio, permette di comprendere quanto la mobilità di una pianta – e quindi di un prodotto – possa essere collegata a molteplici fattori: gli imperi, i viaggiatori, i capitali investiti e quelli di chi era disposto ad acquistarne quantità rilevanti; senza dimenticare, poi, le forme di colonizzazione, anche biologica, di altre terre. Sidney Mintz ha consegnato alla storiografia un lavoro esemplare, mettendo in luce tanto le storie di violenza, sangue, deportazione e schiavitù che erano iscritte nella traiettoria dello zucchero dal Sud Est Asiatico fino alle Americhe, quanto il consumo e i valori attribuiti, in Europa, al gusto dolce[5]. Oppure, la vicenda delle patate – altro prodotto d’oltreoceano – che ebbe un ruolo nella diffusione di una delle più terribili carestie in Irlanda, viste le scelte del governo britannico di imporne la coltivazione ai contadini irlandesi[6]. Entrambe le vicende si svilupparono in un arco di tempo lungo secoli e riguardarono molteplici tipologie di mobilità – dei cibi, delle persone, delle idee[7]. Per intendere le specificità della storia delle culture del cibo (food cultures) è possibile avvicinarsi al presente e parlare, ad esempio, dell’invenzione della lattina in relazione all’esigenza dell’esercito francese napoleonico di poter facilmente portare derrate alimentari ai soldati impiegati in battaglie su fronti diversi dell’impero. A inventare il contenitore e la modalità di stoccaggio del cibo, fu il francese Nicolas Appert, anche se il brevetto venne registrato nel 1810 dall’inglese Peter Durand[8]. In questo caso, a differenza dei due precedenti, è la tecnica a cambiare le abitudini di produzione, distribuzione e consumo alimentare. Lo studio del cibo esige uno sguardo analitico ed interpretativo capace di tenere insieme locale e globale sia in termini di spazio (mobilità) sia per quanto concerne il tempo (le trasformazioni sociali accorse). Anche la dimensione microstorica – penso ai lavori di Carlo Ginzburg, Giovanni Levi, Franco Ramella, Natalie Zemon Davis; ma anche alle riflessioni di Francesca Trivellato – può essere applicata con ottimi risultati. È il caso dell’articolo di Deborah Barndt su tre donne migranti che, a diverso titolo, erano impiegate in una piantagione di pomodori in Canada. La differenza di posizionamento permette di comprendere le esigenze del capitalismo nella definizione delle filiere del lavoro, la segmentazione dei compiti, dei processi produttivi e riproduttivi, tanto a livello globale quanto nella dimensione locale.

Da questo primo sguardo su alcuni temi trattati in classe, è evidenziabile la malleabilità della storia dell’alimentazione e chiara la propensione ad essere approcciata con sguardi molteplici. Ma vi è anche il rischio di non riuscire a “tenere      insieme” dimensioni differenti di fatti storici e trovarsi, alla fine della ricerca o dello studio, con delle banalità in bocca. Tali peculiarità strutturali del campo dello studio chiedono un lavoro preparatorio a monte: ossia, di mostrare alle studentesse e agli studenti quante      più prospettive interpretative da percorrere, in modo tale da formare la capacità analitica e critica rispetto al fatto storico.

Proprio per raggiungere tale obiettivo, il corso è stato organizzato in modo che, in gruppi al massimo di cinque persone, le studentesse e gli studenti – che erano un’ottantina complessivamente – potessero presentare articoli davanti alla classe, prendendo il mio posto seduti alla cattedra. Il libro di testo impiegato è stato il reader Food and Culture, a cura di Carole Counihan e Penny Van Esterik[9]. Lo scopo era dare loro fiducia e sviluppare lo spirito critico, stimolare la comprensione di come studiose e studiosi molteplici avessero approcciato il cibo, con sguardi differenti. A tal fine, le quattro ore di lezione, ogni settimana, sono state divise in modo uguale tra presentazione delle studentesse-studenti e insegnamento frontale. L’ordine in cui si svolgevano gli incontri era quello sopra, in modo tale che nella seconda parte degli incontri potevo recuperare temi trattati nella prima, ampliandoli, facendo leva su alcune questioni concettuali o su casi di studio per sviluppare il dibattito in classe. Faccio un esempio su tutti: i due saggi di Roland Barthes e Pierre Bourdieu, rispettivamente Toward a Psychosociology of Contemporary Food Consumption e Distinction: A Social Critique of the Judgement of Taste hanno permesso di analizzare gli elementi degli impianti teorici usati dai due studiosi, ma anche di evidenziarne i limiti. Mi riferisco al fatto, per esempio, che il cibo nel primo saggio è legato all’immagine con la finalità di comunicare, di mettersi in dialogo, di sviluppare uno scambio con altri soggetti. Ma non sempre questo avviene e non in tutte le culture; inoltre, la materialità del rapporto tra corpo e cibo è messa in secondo piano o lasciata quale effetto consequenziale. Eppure, senza di essa non potrebbe esistere l’imago, il sistema semiotico che sviluppa una narrazione specifica. Parimenti, l’articolo di Bourdieu pone una distinzione peculiare tra gusto del lusso e gusto della necessità, teorizzando questo modello a partire dalla classe. La redazione del testo va contestualizzata e legata a un periodo preciso: la fine degli anni Settanta e più precisamente il 1979. Oggi, adottando l’approccio intersezionale, gli studi di genere, quelli sulla “razza” e sulle identità culturali, si dovrebbe aggiornare la riflessione con una molteplicità di altri posizionamenti.

Dunque, la lezione avveniva in tre momenti differenti: per primo la presentazione del tema, preparata dai gruppi di studenti/studentesse; poi, le riflessioni su come l’argomento è stato approcciato dal punto di vista storiografico, curate da me. Infine, arrivava il momento del dibattito durante il quale si poteva intervenire con riflessioni libere sulle questioni affrontate. Devo dire che, ogni lezione si chiudeva guardando con sorpresa e dispiacere l’orologio, scoprendo che i minuti erano scivolati via e talvolta rimandando alcune questioni agli incontri successivi.

Questa impostazione – che è una forma pedagogica dell’intersoggettività – era finalizzata a un secondo lavoro che le studentesse e gli studenti avrebbero potuto sviluppare per l’esame finale: un podcast di gruppo. Onde evitare forme di costrizione ed imporre lavori obbligatori, questo progetto collettivo è stato proposto come facoltativo e sarebbe valso, prima di tutto, da esonero per uno dei libri da preparare per l’esame finale. Un ottimo podcast sarebbe stato premiato con alcuni punti aggiuntivi in fase di valutazione finale e attribuzione del voto. Tutte e tutti, però, avrebbero dovuto sostenere l’esame orale.

Devo dire che l’entusiasmo per il podcast è stato molto, come pure gli ottimi i risultati ottenuti. Qui di seguito potete ascoltarne alcuni. I temi sono i più svariati: la storia globale del tè, il proibizionismo americano, la storia della mobilità dello zucchero, la storia sociale del sushi. Un gruppo si è occupato di achiote; un altro del rapporto tra cibo e genere. Non sono mancati i podcast sul pomodoro, sui food riots e sul rapporto tra la Cina maoista e il sistema alimentare; è stato consegnato un lavoro sulla Green Revolution e un altro sulla storia del packaging.

Nelle righe che seguono, sarà mia premura presentare ogni singolo podcast. È necessario precisare che l’altissimo livello raggiunto – con tempi e ritmi efficaci, cercando e trovando il mix accattivante tra musica e parlato – è merito delle studentesse e degli studenti, della loro capacità di utilizzare software di montaggio ed elaborazione audio. Ma prima di tutto ciò – è questo è il punto dirimente – è il segno della voglia di fare storia, non solo di studiarla. Basti pensare che tutti gli argomenti scelti dai gruppi non erano compresi, se non tangenzialmente, nel programma delle letture e presentazioni in classe. In tal senso, il caso presentato coniuga la didattica della storia dell’alimentazione, la creazione di una pedagogia volta a costruire il pensiero critico e la public history, attraverso lo strumento del podcast.

 

I podcast

Tea Amo
Il podcast di Matteo Bertorello, Valeria Burchi, Sarah Fine, Andrea Fissore, Jaiyao Lin è dedicato alla storia globale del tè. È realizzato da studentesse e studenti provenienti da Italia, Stati Uniti e Cina. La lingua scelta per la narrazione è l’inglese. Si parte dalle coordinate storiche e biologiche del tè nero usato come medicinale, per parlare poi del landscape, del clima e delle società che coltivano le foglie della pianta cinese; di come la bevanda abbia raggiunto l’Inghilterra e poi gli Stati Uniti. La particolarità di questo podcast è il dialogo che nasce spontaneo tra i componenti del gruppo su conoscenze diverse dei rispettivi Paesi di provenienza. Durata: 20 minuti e 41 secondi.

Disastri del Dittatore
Il tema delle dittature è stato affrontato, il più delle volte, in relazione alle forme di propaganda e alla diminuzione dei diritti, all’accentramento dei poteri e alla repressione degli oppositori. In questo podcast, invece, Marcello Micheletto, Daniel Livio Dujany, Kiggwe Livingstone e Gianni Maria Torboli approcciano l’argomento in relazione ai disastri ecosistemici, di produzione e distribuzione del cibo. La localizzazione spazio-temporale è la Cina maoista, a partire dall’ottobre 1949. Durata: 17 minuti e 36 secondi.

Food Riots
Il tema di questo podcast sono le rivolte legate al cibo. In particolare, partendo da una definizione di food riots, e facendo alcuni esempi introduttivi, si approfondiscono le rivolte italiane del 1627-1628, la Great Famine irlandese 1845-1952, la crisi del Niger del 2010. Il gruppo è formato da: Pietro Fatai, Antonio Belli, Francesco Mattioli, Alberto Ardissone, Tommaso Pelatti e Filippo Napodano. La lingua scelta è l’italiano. Durata: 13 minuti e 56 secondi.

Tasting Equality
Il gruppo formato da Tal Bar Mocha, Lilou Carpi, Rafaela Batista Da Silva Marchetti Moraes, Roni Chen e Caroline Jane Long ha affrontato il tema delle disuguaglianze di genere rispetto al cibo, gli stereotipi sulle donne, il ruolo delle donne nelle società occidentali. Partendo dal definire il genere, si passa a trattare da vicino il tema della divisione del lavoro e di come questa si possa rintracciare tanto nella struttura produttiva agricola, quanto in quella riproduttiva del sistema economico. Lingua del podcast: inglese. Durata: 30 minuti e 33 secondi.

Green Revolution
Nauel Buracco ha realizzato un podcast dedicato ad analizzare il tema della Green Revolution, del processo economico e sociale avviato dalle ricerche di Norman Borlaug, agronomo statunitense che elaborò metodologie per potenziare la produttività delle sementi. L’obiettivo era di poter dare cibo a tutto il mondo, anche a quello a Sud dell’Equatore, in modo da combattere e sconfiggere la fame. L’introduzione di semi ibridi, l’uso di fertilizzanti e lo sfruttamento intensivo dei terreni sono elementi che hanno avuto impatti negativi in termini sociali, economici e politici. Lingua: italiano. Durata: 11 minuti e 36 secondi.

Once Upon a Sushi
Il Sushi è diventato un momento di socialità, di incontro, una ritualità per molte persone in Europa e negli Stati Uniti. Questo podcast ricostruisce la storia del sushi ponendo attenzione alle trasformazioni culturali dal Giappone al resto mondo. L’organizzazione che si è data il gruppo ha avuto un impatto nella riuscita del progetto: un primo gruppo di ricerca, che ha scovato le informazioni fondamentali, consultando pubblicazioni scientifiche sul tema; un secondo, poi, dedicato alla registrazione; un terzo, infine, per la postproduzione e la scelta delle musiche. Once Upon a Sushi è stato realizzato da Nadav David, Valter Guiggi, Tamar Helman, Marco Imwinkelried, Yotam Kornmehl, Arianna Karine Pirela e Luca Sanfilippo. Questo podcast è organizzato in due puntate: la prima è dedicata alla storia culturale del sushi; la seconda, invece, affronta tematiche di genere e il rapporto con il mercato. Lingua: inglese. Duranta del podcast: 37 minuti e 40 secondi.

Achiote
Alla spezia latino-americana, presente in ogni area tropicale del mondo, è dedicato questo progetto. La narrazione parte dalla “scoperta” delle Americhe, passando per l’importazione e l’utilizzo della pianta in altre aree con il medesimo clima. A realizzare il lavoro sono stati Riccardo Contini, Asja Favretto, Valentina Starace, Penelope Sinico, Domizia Grilli e Francesca Ginatta. Durata: 10 minuti e 6 secondi.

Zucchero
Il progetto è dedicato allo zucchero, non solamente come cibo, ma anche come oggetto socioeconomico che ha subito notevoli trasformazioni a partire dallo scambio colombiano. Dopo una prima analisi storica, sono affrontate questioni culturali che legano la condizione sociale ed economica con la ricerca di un’identità specifica attraverso lo zucchero. Il gruppo che lo ha realizzato è stato composto da Anna Gentili, Cristina Ghiringhelli, Angeli, Mandrile, Marchio e Serra. Durata del podcast: 11 minuti e 27 secondi.

Pomodoro
La storia del pomodoro è al centro di questo podcast. Partendo dalla società Inca, il gruppo ricostruisce la mobilità transoceanica della verdura. Siviglia, Napoli, poi il nome “pomi d’oro” proposto da Mattioli. E poi ancora, il podcast prende in considerazione la rappresentazione della solanacea nelle società europee. Il gruppo che ha realizzato questo progetto era composto da Giuseppe Paolo Breviari, Eleonora Becce, Vittorio Capannelli, Chiara Colombi, Marilena Gambardella, Carmine Gorrasi, Jennyfer Murix Lale e Arianna Nasisi. Durata del podcast: 10 minuti e 36 secondi.

 


Note:

[1] Si fa qui riferimento al bellissimo talk di Chimamanda Ngozi Adichie, visionabile a questo link: https://www.ted.com/talks/chimamanda_ngozi_adichie_the_danger_of_a_single_story?language=it

[2] Qui, uso volutamente il plurale maschile “tutti” nel senso che non il femminile è non solamente oscurato, messo in ombra, lasciato sullo sfondo, ma persino incluso – userei il termine forcluso, rifacendomi al dibattito psicanalistico e alla teoria postcoloniale – e al tempo stesso estromesso. Meglio ancora, parlerei di afanisi, di scomparsa del soggetto nella storia falsamente universale e vidimatamene vera solamente perché raccontata da e per soggetti maschili. Lacan parla di afanisi come processo di invisibilizzazione del soggetto nel rapporto di produzione di senso che dovrebbe, in qualche modo, raccontarlo o definirlo.

[3] Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.

[4] Cfr. M. Montanari, Cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2006

[5] Cfr. S. Mintz, Sweetness and Power: The Place of Sugar in Modern History, Penguin Books, New York 1986.

[6] Cfr. C. ó Gráda, Black ’47 and Beyond: The Great Irish Famin in History, Economy, and Memory, Princeton University Press, Princeton 1999.

[7] Cfr. D. Barndt, On the Move for Food: Three Women Behind the Tomato’s Journey, in “Women’s Studies Quaterly”, Vol. 29, No. 1/2, pp. 131-143.

[8] Cfr. J. Pilcher, Food in World History, Routledge, New York 2022.

[9] C. Counihan, P. Van Esterik (a cura di). Food and Culture. Routledge, New York 2013.