Select Page

Il genocidio, la Shoah, le Foibe

Il genocidio, la Shoah, le Foibe

ADN-ZB/Repro/Archiv/18.5.1989 Faschistisches Deutschland 1933-1945.
Arresto di uomini ebrei a Baden-Baden nel novembre 1938: dopo il pogrom antisemita fascista del 9/10 novembre Il 19 novembre 1938 circa 30.000 ebrei furono arrestati e deportati nei campi di concentramento.
Di Bundesarchiv, Bild 183-86686-0008 / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de, Collegamento.

Abstract

Da dove nasce la definizione di genocidio? Come si è sviluppata? E perché la si può applicare alla Shoah e non alla vicenda delle Foibe? In questo articolo Marcello Flores risponde a questi fondamentali quesiti. Il saggio fa parte  del dossier “Per il Giorno del Ricordo”, pensato per offrire alle/ai docenti materiali e riflessioni utili per affrontare la data del calendario civile con le proprie classi.

____________________

Where did the definition of genocide originate? How did it develop? And why can it be applied to the Shoah and not to the Foibe affair? In this article Marcello Flores answers these fundamental questions. The essay is part of the dossier “Per il Giorno del Ricordo” (For the Day of Remembrance), designed to offer teachers useful materials and reflections for dealing with the date on the civil calendar with their classes.

Axis Rule

È più o meno dalla fine del 1941 che iniziano a circolare racconti e testimonianze sulle violenze naziste, in particolare su massacri e deportazioni di ebrei, che si infittiscono nella seconda metà del 1942 giungendo ormai da fonti diverse (diplomatiche, militari, comunità ebraiche). Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco che si è rifugiato negli Stati Uniti, è convinto che Hitler abbia intrapreso una distruzione pianificata dei popoli sotto il suo controllo, anche se la sua analisi non riceve gran credito negli ambienti politici e militari della capitale americana. A metà del 1942 inizia a scrivere un’opera sui decreti e le leggi di occupazione della Germania, che presto si trasforma in un lavoro più ampio, in cui sono presenti anche notizie e analisi delle politiche di deportazione e di soppressione dei nemici, in particolar modo degli ebrei, che il nazismo stava realizzando nell’Europa occupata.

Axis Rule in Occupied Europe[1] viene pubblicato nel 1944, anche se era già pronto alla fine dell’anno precedente in una dimensione più che tripla di quella prevista inizialmente, oltre settecento pagine. Uno dei principali obiettivi di Lemkin è convincere i suoi lettori – tra i quali lo stesso establishment degli Stati Uniti – che l’occupazione hitleriana dell’Europa è caratterizzata da violazioni continue delle leggi di guerra e di ogni norma morale, spesso con la giustificazione di una legislazione d’emergenza adottata per l’occasione. A questo scopo egli utilizza massicciamente decreti e articoli ufficiali del regime nazista, trattando prevalentemente l’occupazione militare e politica ma occupandosi anche di questioni di natura economica (proprietà, lavoro, finanze) legate all’occupazione stessa.

Lemkin era preoccupato della scarsa propensione degli Stati Uniti a conoscere e comprendere quanto stava avvenendo in Europa. Proprio nell’estate del 1943, mentre Lemkin stava terminando il suo libro, il polacco Jan Karski – chiamato più tardi a ragione «il testimone inascoltato» – aveva raccolto documenti sui campi di concentramento nazisti ed era stato testimone oculare delle violenze nel ghetto di Varsavia, ma negli incontri con il Ministro degli Esteri britannico Anthony Eden e con il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt non era riuscito a convincerli della necessità di intraprendere azioni nette e risolute.

Axis Rule conobbe un interesse notevole, soprattutto negli ambienti diplomatici, politici e militari di Washington D.C. Numerose furono le recensioni che riservarono al libro di Lemkin un giudizio più che lusinghiero. L’unica critica che veniva rivolta a Lemkin era quella di avere esteso all’intero popolo tedesco le colpe e i comportamenti del nazismo, avendo egli sostenuto che «la distruzione dell’Europa non sarebbe stata completa e meticolosa se il popolo tedesco non avesse liberamente accettato il piano di Hitler, partecipando volontariamente alla sua esecuzione e fino ad oggi approfittandone grandemente.»[2]

Il termine “genocidio”

Il libro di Lemkin conobbe dunque una diffusione ampissima, grazie soprattutto a un apparente dettaglio terminologico che avrebbe modificato radicalmente e in modo permanente la percezione non solo giuridica, ma dello stesso senso comune, dei crimini di massa e dei massacri commessi contro gruppi di persone.

Nuove concezioni richiedono nuovi termini. Con «genocidio» intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per denotare una vecchia pratica nel suo sviluppo moderno, è formata dall’antica parola greca genos (razza, tribù) e dal latino cide (uccidere), corrispondendo così nella sua formazione a parole come tirannicidio, omicidio, infanticidio, etc. Parlando generalmente, il genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una nazione, eccetto quando è accompagnata dal massacro di tutti i membri di una nazione. Vuole piuttosto indicare un piano coordinato di azioni differenti con lo scopo di distruggere i fondamenti essenziali della vita di gruppi nazionali, con l’obiettivo di annientare i gruppi stessi. Gli obiettivi di un simile piano sono la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione, dell’esistenza economica dei gruppi nazionali, della distruzione della sicurezza personale, della libertà, salute, dignità e perfino della vita degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro un gruppo nazionale come un’entità e le azioni coinvolte sono dirette contro gli individui non nella loro capacità individuale ma come membri di un gruppo nazionale.[3]

Dare un nome al “crimine senza nome”

La forza del nuovo termine non risiedeva solo nell’abilità e fantasia linguistica di Lemkin, capace di coniugare il latino e il greco per offrire un neologismo che guardava non solo al presente ma alla storia intera dell’umanità. Consisteva soprattutto nel rinvio, finalmente concreto e determinabile, a ciò che di più terribile stava avvenendo in Europa, a quel «crimine senza nome» per combattere il quale Churchill e Roosevelt avevano sottoscritto la Carta di Londra impegnandosi di fronte al mondo a sconfiggere per sempre la barbarie.

In Lemkin – se si considerano al tempo stesso Axis Rule e gli altri interventi scritti nello stesso periodo – non esiste una contrapposizione tra la ricerca della specificità e novità della barbarie nazista (che è al cuore del volume pubblicato nel 1944) e il desiderio di enucleare un criterio universale per definire e sanzionare i massacri commessi contro gruppi di diversa natura. Per cercare di far comprendere quanto il concetto di genocidio dovesse essere inteso nel senso più ampio, Lemkin si richiamò spesso, infatti, all’intera storia dell’umanità, ricordando, in un articolo del 1948, come fossero tutti casi di genocidio la distruzione di Cartagine, la distruzione degli Albigesi e del Valdesi, le Crociate, la marcia dei Cavalieri Teutonici, la distruzione dei cristiani sotto l’Impero Ottomano, il massacro degli Herero in Africa, lo sterminio degli armeni, il massacro degli assiri cristiani in Iraq nel 1933, la distruzione dei maroniti, i pogrom degli ebrei nella Russia zarista e in Romania[4].

Il tentativo di generalizzare, e quindi di rendere il concetto più universalmente utilizzabile, lo aveva spinto a tentare una caratterizzazione che riteneva avvenisse inevitabilmente in ogni situazione.

Secondo Lemkin il genocidio ha infatti due fasi: la prima è la distruzione del modello nazionale del gruppo oppresso; la seconda è l’imposizione del modello nazionale dell’oppressore. Questa imposizione, a sua volta, può essere fatta sopra la popolazione oppressa cui si permette di restare o sul solo territorio, dopo la deportazione della popolazione e la colonizzazione dell’area da parte dei nazionali appartenenti all’oppressore. Denazionalizzazione è stata la parola usata nel passato per descrivere la distruzione di un modello nazionale. I termini «germanizzazione», «magiarizzazione», «italianizzazione», per esempio, sono stati usati per connotare l’imposizione da parte di una nazione più forte (Germania, Ungheria, Italia) del proprio modello nazionale sul gruppo da esse controllato.[5]

Una profonda compenetrazione con il clima dell’epoca, con i sentimenti e le passioni suscitate dalla violenza nazista, convivono in Lemkin con il desiderio di utilizzare quell’esperienza originale e tragica che sta avvenendo sotto i propri occhi per far compiere al diritto internazionale un salto di qualità, quel salto che aveva inutilmente cercato di fare dopo il primo dopoguerra e che solo l’attuale «crimine senza nome» permette di affrontare e forse risolvere. È la distruzione degli ebrei a diventare il catalizzatore di un pensiero teorico che si stava sforzando da anni di trovare soluzione alla violenza contro gruppi in quanto tali, alle loro sofferenze e alla loro possibile scomparsa. Una specifica e necessariamente unica esperienza (unica storicamente ma anche come percezione soggettiva) diventa la chiave di lettura e di interpretazione di un modello di violenza che appartiene alla storia stessa dell’umanità.

Da Norimberga alla Risoluzione 96 delle Nazioni Unite

L’atto d’accusa che istituiva il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga si fondava su quattro capi d’imputazione a carico dei ventiquattro leader nazisti che risultarono incriminati nel principale dei processi intentati dalla corte, ovvero quello che ebbe inizio nel novembre 1945: cospirazione, crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Tra i crimini di guerra, nel paragrafo che si occupava di «omicidi e maltrattamenti delle popolazioni civili», si ricordava come gli accusati avessero

condotto deliberato e sistematico genocidio, cioè lo sterminio di gruppi razziali o nazionali, contro le popolazioni civili di alcuni territori, con l’obiettivo di distruggere particolari razze e classi di persone e gruppi nazionali, razziali o religiosi, in particolare ebrei, polacchi, zingari e altri.[6]

Il crimine di genocidio, tuttavia, non rientrò formalmente nella sentenza emessa a Norimberga il 30 settembre e il 1° ottobre 1946, anche se esso vi era ampiamente descritto, sia sotto la fattispecie dei «crimini di guerra» sia sotto quella dei «crimini contro l’umanità».

La maggiore frequenza dell’uso del termine genocidio nei processi che hanno luogo dal dicembre 1945 va collegata a una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che era stata adottata l’11 dicembre 1946, la Risoluzione 96(I):

Genocidio è la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani; questa negazione del diritto all’esistenza sconvolge la coscienza umana, infligge gravi perdite all’umanità che si trova privata dagli apporti culturali o di altra natura di questi gruppi, ed è contraria alla legge morale e allo spirito e agli obiettivi delle Nazioni Unite. Molti esempi di un simile crimine di genocidio hanno avuto luogo quando gruppi razziali, religiosi, politici o di altra natura sono stati distrutti interamente o in parte. La punizione del crimine di genocidio è una questione di interesse internazionale. L’Assemblea generale, di conseguenza,  afferma che il genocidio è un crimine per il diritto internazionale che il mondo civilizzato condanna, e per la perpetrazione del quale responsabili e complici – siano privati individui, pubblici ufficiali o uomini di stato e sia che il crimine sia commesso per ragioni religiose, razziali, politiche o di qualsiasi altra natura – sono punibili; invita gli Stati Membri a promulgare la necessaria legislazione per la prevenzione e la punizione di tale crimine; raccomanda che la cooperazione internazionale tra gli stati faciliti la sollecita prevenzione e punizione del crimine del genocidio e, a questo scopo, chiede al Consiglio Economico e Sociale di intraprendere gli studi necessari, con l’obiettivo di redigere una bozza di convenzione sul crimine di genocidio che sarà sottoposta alla prossima sessione regolare dell’Assemblea Generale.[7]

La Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio

I paesi che sembravano maggiormente contrari a portare fino in fondo il dibattito sul genocidio e a fare approvare la convenzione erano la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica. Benché si trattasse di due delle tre grandi potenze, la loro posizione non fu più rilevante di quella di stati più deboli e piccoli; le loro obiezioni muovevano da presupposti diversi, anche se ancorati a precisi interessi politici. Se da parte dell’Urss vi era consapevolezza di avere trattato gruppi etnici e nazionali in modo da poter ricadere sotto le definizioni della convenzione, in Gran Bretagna si temeva che il comportamento nelle colonie potesse subire un’analoga condanna. Gli inglesi, in ogni modo, ritenevano giuridicamente pleonastica la convenzione dal momento che il genocidio era stato riconosciuto di fatto a Norimberga e che esisteva ormai nel diritto internazionale una condivisa definizione di crimine contro l’umanità. Per l’Unione Sovietica inoltre si trattava di rimarcare la prevalente se non unica responsabilità del nazismo, orientando il proprio atteggiamento alla luce della guerra fredda che stava ormai incrinando sempre più drammaticamente le sue relazioni con gli Alleati del tempo di guerra.

Il 9 dicembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava il testo: la Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio veniva approvata con 56 voti a favore e nessuno contrario. Il disegno per il quale Lemkin aveva lottato con entusiasmo e dedizione era finalmente raggiunto. Non era presente, nel testo finale, il riferimento ai «gruppi politici», che l’Unione Sovietica non aveva voluto; ma nemmeno quello al «genocidio culturale» rifiutato da Gran Bretagna e Francia.

Gli articoli principali della Convenzione risultano il 2 e il 3:

Articolo II
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Articolo III
Saranno puniti i seguenti atti:
a) il genocidio;
b) l’intesa mirante a commettere genocidio;
c) l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio;
d) il tentativo di genocidio;
e) la complicità nel genocidio.

Dell’articolo 2 è importante sottolineare due aspetti, segnati in grassetto: l’intenzione di distruggere un gruppo, che deve essere presente e non è facile da individuare e provare, ma che è cruciale, per distinguere il genocidio da massacri dovuti ad altri scopi (conquista, occupazione di terre e beni, sottomissione e schiavizzazione); e che quel gruppo venga colpito in quanto tale, senza alcuna altra giustificazione, per il solo desiderio di farlo scomparire dal consesso umano. È evidente come sia stato proprio il carattere estremo e radicale costruito dal progetto dei nazisti per colpire ed eliminare gli ebrei d’Europa a rendere immediatamente intellegibili queste parole. L’intenzione di Hitler di distruggere gli ebrei si era manifestata con chiarezza, così come il fatto di colpire quel gruppo solo per la sua esistenza, non per altri motivi o altre colpe specifiche da attribuire loro.

La Shoah è stato l’evento che ha permesso a Lemkin di trovare un nome a questa particolare distruzione di un gruppo umano, perché nella concretezza storica si è manifestata in modo diverso – platealmente diverso – dalla maggior parte degli stermini storici seguiti a conquista di un territorio, vittoria militare, sottomissione e sfruttamento, vendetta per torti e sconfitte subite, limitazione delle forze nemiche o impedimento di una sua resistenza. Gli ebrei, per Hitler e il nazismo, e buona parte della società tedesca, erano un nemico “verosimile“ pur se nella realtà inesistente, ed era stata quindi la loro costruzione come nemico assoluto a permettere di immaginare le modalità con cui porre in pratica l’intenzione di eliminarli.

Il caso delle Foibe istriane

Su questa scia, è stata avallata in più occasioni un’interpretazione “nazionale” ed ”etnica” della vicenda delle foibe, suggerita probabil­mente dal vicino ricordo delle guerre nell’ex Jugoslavia e delle politiche di pulizia etnica che le ha caratterizzate, ma del tutto incongruente a spiegare cosa fu la violenza nelle foibe istriane del settembre 1943 e nelle foibe giuliane nel maggio 1945.

Molte volte, in Italia, si è sentito parlare delle foibe come un genocidio, oppure di altri recenti genocidi come quello che avrebbero commesso Israele a Gaza o gli americani in Iraq. La perdita di senso di alcuni vocaboli centrali (genocidio è uno di questi: nel senso comune col tempo esso è divenuto sinonimo di violenza gratuita e indicibile, e viene usato più per connotare una condanna totale che per conoscere l’evento tragico) si associa a una mancata distinzione tra il piano dell’analisi storica e quello del giudizio morale o politico, rendendo così volatile e inconsistente tanto il ragionamento storico quanto quello morale o quello giuridico.

Si riporta qui di seguito un passaggio tratto da M. Flores e M. Franzinelli, Storia della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2019.

Sulla base della documentazione e dei contributi che storici croati, italiani e sloveni hanno prodotto nell’ultimo ventennio, si può sintetizzare il massacro delle foibe istriane ricordando il vuoto di potere accompagnato parallelamente all’occupazione di cittadine e villaggi da parte dei partigiani iugoslavi, con rivolte popolari caratterizzate da violenze contadine contro i proprietari terrieri. L’anelito a lungo compresso alla libertà e il desiderio di vendetta per le sofferenze e i soprusi patiti da una popolazione che nell’entroterra è a maggioranza slava favoriscono l’intreccio di spinte nazionalistiche e tendenze rivoluzionarie, che si concretizzano nel desiderio di cacciare gli invasori italiani e nella volontà di eliminare la borghesia e far trionfare un progetto socialista.

La violenza si manifesta, inizialmente, contro gerarchi e funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentano, agli occhi degli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che hanno collaborato a opprimere la maggioranza croata e slovena della popolazione. A uomini del Partito fascista si affiancano soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti,

commercianti. Le vittime di queste prime foibe sono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Ad agire, in molti casi, sono «giustizieri improvvisati», tra i quali figurano anche italiani, che si presentano come «guardie della rivoluzione» e danno un carattere al tempo stesso politico e sociale alla propria aggressività: scene di violenza si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono tra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Pola, Dignano (Vodnjan), le isole Broni, Capodistria e Isola.

Il numero degli insorti si aggira attorno ai 12.000 uomini, guidati prevalentemente da quadri comunisti, anche se non sempre è così.  Le direttive politiche di non procedere a esecuzioni sommarie sono spesso ignorate, anche per il carattere fluido dell’occupazione e la presenza di persone che, per ideologia politica o motivi personali, intendono procedere come «vendicatori» di un ventennio di angherie e persecuzioni. La 13a Divisione del NOVJ, dopo aver sconfitto un battaglione di alpini, tra l’11 e il 12 settembre occupa Pisino, quasi al centro dell’Istria, e istituisce nel castello di Montecuccoli un tribunale rivoluzionario, capeggiato da Ivan Matka, presidente della Commissione regionale del Fronte di liberazione nazionale per l’Istria. Anni più tardi un esponente del Partito comunista della Croazia in Istria, Božo Kalić, si vantò pubblicamente di avere «liquidato» 82 fascisti per vendicare le 82 vittime “cadute all’incrocio di Tina” (localit. dove si verificò. uno scontro tra partigiani e tedeschi). Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre alle cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di «foibe» dove seppellirli.

La giustificazione, data sin da allora, di fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili o al carattere spontaneo di una reazione popolare alla lunga oppressione fascista, o alla presenza di elementi estremisti e facinorosi o anche psicopatici è accettabile solo in minima parte, sebbene vi fossero eventi ascrivibili a simili cause. Al di là delle uccisioni maggiormente «spontanee», quelle stabilite dal Tribunale rivoluzionario giudicarono e giustiziarono gli arrestati sulla base del loro essere «nemici del popolo», una categoria abbastanza ampia in cui far confluire non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierasse apertamente con l’esercito partigiano. Una categoria, non va dimenticato, che aveva avuto soprattutto negli anni Trenta una sua grande rilevanza nella tradizione comunista sovietica, e che sarà ampiamente ripresa negli anni successivi alla fine della guerra.[8]

Il caso delle Foibe giuliane

Per descrivere questa seconda fase, ancora una volta si fa ricorso a una citazione del volume Storia della Resistenza:[9]

“I quaranta giorni di occupazione della città di Trieste, prima che l’accordo firmato a Belgrado il 9 giugno 1945 tra il governo iugoslavo e gli Alleati permetta il ritiro il giorno 12 dell’esercito di Tito oltre la Linea Morgan, sono caratterizzati da un regime autoritario e dalla presenza diffusa e capillare dell’OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda), il Dipartimento per la Sicurezza del popolo, la polizia segreta del nuovo potere ispirata al modello sovietico. È in questo periodo che hanno luogo le violenze che hanno preso il nome di «foibe giuliane», ossia le violenze e le stragi che hanno luogo nel maggio 1945 nella Venezia Giulia.

Non andrebbe dimenticato, per comprendere l’intero panorama di una realtà articolata, il sentimento dominante degli sloveni triestini e del circondario, ma anche dei croati dell’Istria, nel momento in cui le truppe dell’esercito iugoslavo di liberazione avevano fatto il loro ingresso nella città. Per loro si trattava effettivamente di una liberazione, dopo i decenni di dominazione fascista e da ultimo nazista, della possibilità di affermare i propri ideali nazionali non solo senza timore ma con la garanzia di ritrovarli in primo piano nella gerarchia di valori del nuovo potere. Era un sentimento che, in aggiunta a quello di una prossima palingenesi rivoluzionaria auspicata dai comunisti (i quali vedevano nel futuro governo iugoslavo la sconfitta non solo del fascismo ma anche del capitalismo), spingeva alcuni a intrecciare la gioia e la speranza con la volontà di vendetta e con una sospirata resa dei conti.

La violenza che si manifestò in quei giorni, comunque, andrebbe inquadrata non solo e non tanto in una logica di scontri etnico-nazionali (che sembra spesso una trasposizione della tragedia e dei conflitti che hanno coinvolto nei primi anni Novanta la ex Iugoslavia) quanto in quella, più generale, che ebbe luogo in ogni parte d’Europa alla fine del secondo conflitto mondiale. La differenza di fondo […] è costituita dal fatto di essere stata progettata ed eseguita da un potere statale, e non da incontrollati gruppi desiderosi di una vendetta pi. o meno giustificata. Ma le motivazioni politiche e ideologiche, e perfino per molti aspetti quelle psicologiche e personali, sembrano evidenziare molto più le somiglianze delle differenze. Anche sul terreno dei numeri, che rappresentano la questione su cui si è posta maggiore attenzione, vi sono dati comparabili sia per quelli di cui si dispone di una documentazione certa, sia per quelli che sono frutto di elucubrazioni ampiamente propagandistiche o mitiche.”[10]

Conclusione

Da questa due lunghe citazioni, che ho voluto trarre dal libro Storia della Resistenza  scritto insieme a Franzinelli,  emerge con chiarezza che non solo è assolutamente improprio parlare di genocidio a proposito delle foibe, e addirittura oltraggioso per le vittime dei veri genocidi, non solo e non tanto per il numero estremamente esiguo di uccisi se confrontato con quello dei genocidi, ma per la mancanza chiara di un gruppo identificato come obiettivo della distruzione, dell’intenzione esplicita di eliminarlo in tutto o in parte, di averlo posto a oggetto della violenza come gruppo “in quanto tale”. Ora se è vero che diverse uccisioni vennero compiute come vendetta contro gli “italiani”, e che compresero non solo fascisti e possidenti che avevano dominato con violenza e razzismo il territorio ma anche antifascisti individuati come nemici per la loro sola appartenenza nazionale, queste vanno ascritte alla spontanea attività di singoli, di gruppi, ma non a una intenzione organizzata delle truppe partigiane e dell’esercito di Tito. Ancora meno, soprattutto nel caso delle foibe istriane, ma in larga misura anche per quelle giuliane, si può parlare di un caso di pulizia etnica, visto che diversi italiani parteciparono alle violenze insieme ai partigiani jugoslavi contro i fascisti e borghesi italiani e che una parte dei partigiani comunisti si schierò con le forze di Tito almeno nelle prime settimane dell’occupazione jugoslava. La violenza esplicitata in entrambe le occasioni fu soprattutto di carattere politico, contro il precedente dominio fascista e contro lo sfruttamento delle classi possidenti italiane, cui si aggiunse l’idea di una violenza rivoluzionaria legittima contro tutti quelli che si opponevano all’instaurazione di un regime socialista e comunista. Che all’interno di queste violenze vi sia anche stata una componente etno-nazionalista, sempre presente in ogni zona di confine, è naturalmente vero, ma non può essere considerata l’elemento principale attorno a cui far ruotare l’intera azione interpretativa degli eventi.


Note:

[1] Raphael Lemkin, Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government – Proposals for Redress, Carnegie Endowement of International Peace, Washington D.C., 1944

[2] R. Lemkin, Axis Rule, cit., p. xiv

[3] R.Lemkin, Axis Rule, cit., p.79

[4] Raphael Lemkin, War against Genocide, «Christian Science Monitor», 31 January 1948, p.2

[5] R.Lemkin, Axis Rule, cit., pp.79-80

[6] Cfr. http://avalon.law.yale.edu/imt/count3.asp; W.A.Schabas, Genocide, cit., p. 43; J. Cooper, Raphael Lemkin, cit., p.65

[7] http://daccess-dds-ny.un.org/doc/RESOLUTION/GEN/NR0/033/47/IMG/NR003347.pdf?OpenElement

[8] M. Flores e M. Franzinelli, Storia della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 66-68

[9] Flores e Franzinelli, 2019,

[10] Flores e Franzinelli, 2019, pp. 506-507

Dati articolo

Autore:
Titolo: Il genocidio, la Shoah, le Foibe
DOI: 10.52056/9791254693162/08
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.18, dicembre 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Il genocidio, la Shoah, le Foibe, in Novecento.org, n. 18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/08

Didattica digitale integrata