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Scritture di frontiera. L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura di confine

Scritture di frontiera. L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura di confine

Il centro per rifugiati di San Sabba [1950] Foto di Australian National Maritime Museum on The Commonshttps://www.flickr.com/photos/anmm_thecommons/8412017877/, No restrictions, Collegamento

Abstract

Tassello italiano del più articolato mosaico degli spostamenti forzati di popolazione che interessarono l’Europa nell’immediato dopoguerra, l’esodo giuliano-dalmata ha faticato a trovare spazi di riconoscimento nella distratta Italia del dopoguerra e in quella dei decenni successivi. In questo senso, ad anticipare il lavoro degli storici e della storiografia è intervenuta la letteratura: le riflessioni di poeti, scrittori e letterati costituiscono dunque un prezioso punto di riferimento cui guardare e con il quale dialogare per analizzare i passaggi salienti del lungo Novecento istriano che ha nell’esodo uno snodo cruciale.
Il confronto con la letteratura dell’esodo, vero e proprio genere narrativo, consente dunque di indagare le cause, i processi e le dinamiche di un processo che, attraversandola trasversalmente, rappresentò un trauma collettivo per l’intera comunità italiana, sia per quanti partirono, sia per coloro, una minima parte, che decisero invece di restare, trovando proprio nella letteratura uno strumento fondamentale per mantenere viva e coltivare la propria italianità.

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An Italian tile in the more articulated mosaic of forced population movements that affected Europe in the immediate post-war period, the Giuliano-Dalmatian exodus struggled to find spaces of recognition in the distracted post-war Italy and in that of the following decades. In this sense, literature intervened to anticipate the work of historians and historiography: the reflections of poets, writers and literati thus constitute a precious point of reference to look at and dialogue with in order to analyse the salient passages of the long Istrian twentieth century, which has in the exodus a crucial junction.
The comparison with the literature of the exodus, a true narrative genre, thus allows us to investigate the causes, processes and dynamics of a process that, across the board, represented a collective trauma for the entire Italian community, both for those who left and for those, a small part, who decided instead to stay, finding in literature a fundamental tool to keep alive and cultivate their Italian-ness.

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L’esodo giuliano-dalmata: un quadro fattuale

Territorio di confine, segnato da un variegato paesaggio linguistico, identitario e culturale, l’area dell’Alto Adriatico orientale fu attraversata, nel corso del Novecento, da una storia tumultuosa e traumatica, sulle cui linee si intersecarono nazionalismi, fascismo, nazismo e comunismo titino, che portarono a stravolgimenti politici e mutamenti confinari, trasformandola in un luogo di tensioni, violenze e attraversamenti forzati di popolazione.

Il riferimento, in quest’ultimo caso, rimanda a un fenomeno meglio noto come esodo giuliano-dalmata, che portò allo svuotamento, pressoché totale, della componente italiana della regione. Evento periodizzante della storia del confine orientale italiano, l’esodo si snodò tra il 1943 e il 1956, con delle appendici che arrivarono fino alla prima metà degli anni Sessanta, coinvolgendo circa 250.000 persone, ovvero il 90% della comunità italiana dell’Istria, Fiume e Dalmazia[1].

Sebbene non programmaticamente e istituzionalmente organizzato dalle autorità jugoslave, fu però proprio l’esercizio del potere jugoslavo a preparare il terreno, creando nella comunità italiana le condizioni necessarie a partire. Siamo dunque di fronte a una solida connessione tra esodo, azione dei poteri popolari e costruzione della nuova società socialista, che mise in campo una serie di pressioni e rilevanti modifiche sul piano economico, sociale, politico, culturale e ideologico i cui riflessi colpirono in misura maggiore la componente italiana, costituendo di fatto la spinta propulsiva alle partenze. Si può quindi analizzare l’esodo come la tappa finale di un processo che, iniziato subito dopo la guerra, terminò con la costruzione e il consolidamento dello stato jugoslavo.

Al di là del caso di Zara e di altri centri della costa dalmata, primo tra tutti Spalato, dove le partenze avvennero a guerra ancora in corso, si possono distinguere due ondate principali: la prima, tra l’estate del 1945 e il 1951, coinvolse le città di Fiume, Pola e quelle degli altri territori dell’Istria annessi alla Jugoslavia; la seconda, tra il 1953 e il 1956, riguardò soprattutto la popolazione italiana della Zona B del Territorio Libero di Trieste (TLT)[2].

Le partenze di massa si concentrarono però intorno a due momenti chiave: la firma del Trattato di pace di Parigi, siglato il 10 febbraio 1947 e quella del Memorandum di Londra, sottoscritto il 5 ottobre 1954, che oltre ad assicurare la possibilità di esercitare il diritto di opzione, ovvero scegliere la cittadinanza italiana e trasferirsi in Italia,  suscitarono un forte impatto emotivo sulla popolazione italiana che prese coscienza del carattere definitivo dell’amministrazione jugoslava e decise così di abbandonare territori sui quali poteva contare un radicamento secolare.

Tra storiografia e letteratura

Tassello italiano del più articolato mosaico degli spostamenti forzati di popolazione che interessarono l’Europa nell’immediato dopoguerra, l’esodo, al pari delle altre vicende della frontiera orientale d’Italia, ha faticato a trovare spazi di riconoscimento nella distratta Italia del dopoguerra e in quella dei decenni successivi. Incomprensioni, strumentalizzazioni e dimenticanze, dettate anche dalle dinamiche della politica interna e internazionale che preannunciava gli scenari della Guerra fredda, hanno contribuito a seppellire sotto un fitto cono d’ombra questo nodo novecentesco, rallentandone l’inserimento nel patrimonio comune della nazione e rendendo assai complesso il tentativo di connetterlo nel più ampio quadro della storia italiana ed europea.

Un silenzio che la storiografia ha tentato di rompere a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, proponendo nuove piste di ricerca capaci di superare schematismi politici e ideologici e di allargare il campo a nuovi approcci metodologici e interpretativi[3]. Un’eredità raccolta da una nuova stagione di studi apertasi negli anni Novanta che ha portato, nella prima metà degli anni Duemila, alla pubblicazione di lavori significativi nei quali emergeva un approccio volto ad affrontare l’esodo come un fenomeno di lungo periodo e a inserirlo in una narrazione che attraversava l’intero Novecento, collocando così gli eventi giuliani nel più articolato quadro della storia nazionale[4].

Un’altra significativa acquisizione emersa dal campo storiografico, soprattutto in tempi più recenti, è quella di collocare l’esodo nel già richiamato scenario degli spostamenti forzati di popolazione che attraversarono l’Europa post-bellica, le cui strade erano percorse, come ha sottolineato Tony Judt, da «fiumane di civili disperati»[5]. Milioni di profughi, le cui vicende, proprio come quelle dei giuliano-dalmati, erano direttamente connesse alla fine del conflitto e alla contrastata definizione dei confini[6].

Un’altra voce che seppe cogliere con lucidità e sensibilità le complessità e le peculiarità dell’area fu la letteratura. Poeti, scrittori e letterati, anticiparono infatti quanto gli storici colsero in tempi successivi, evidenziando così come le loro riflessioni costituiscano un prezioso punto di riferimento cui guardare e con il quale dialogare per analizzare i passaggi salienti del lungo Novecento istriano che ha nell’esodo, come si è visto, uno snodo cruciale.

Il confronto con la letteratura dell’esodo, vero e proprio genere narrativo, consente infatti di indagare le cause, i processi e le dinamiche di un processo che, attraversandola trasversalmente, rappresentò un trauma collettivo per l’intera comunità italiana, sia per quanti partirono, sia per coloro, una minima parte, che decisero invece di restare, trovando proprio nella letteratura uno strumento fondamentale per mantenere viva e coltivare la propria italianità.

Partenze

Il peschereccio, schiacciato dal peso di quell’umanità fuggitiva, levò le ancore e puntò la prua su Bari. Fino all’ultimo io guardai l’amico che, in piedi sul molo, senza mai agitare la mano, diventava via via sempre più minuto, più fragile, più evanescente. Quando si ridusse a un grigio puntolino nell’azzurro, capii che il mio esilio era davvero incominciato.[7]

Così Enzo Bettiza, in un passaggio di Esilio, struggente romanzo autobiografico, ricostruisce il momento in cui lasciava per sempre Spalato, sua città natale, dove nel settembre 1944 erano giunti i partigiani di Tito, per dirigersi, come molti altri suoi concittadini, sull’altra sponda dell’Adriatico e iniziare, insieme alla famiglia, la vita da esule. Lo sradicamento, la rinuncia alla propria terra e all’identità, le privazioni materiali e morali costituirono le «dure sottrazioni» imposte dall’esodo, vissuto come un trauma che né il tempo né una nuova vita avrebbero cancellato poiché, afferma lo scrittore dalmata, «resterà sempre la cicatrice al posto della ferita»[8].

Se le parole di Bettiza rimandano alla prima fase dell’esodo, ovvero quella avvenuta da Zara e dai territori della Dalmazia, saranno Marisa Madieri e Pier Paolo Pasolini a raccontare nelle pagine dei loro romanzi l’esodo da Fiume.

La prima in Verde acqua, scritto sotto forma di diario tra il 1981 e il 1984, ripercorre la sua storia, che è quella di una bambina che vive l’esperienza dell’esilio e del taglio delle radici. Radici strappate, da ritrovare e ripiantare, non senza difficoltà, nella nuova vita che la attende a Trieste, la città che la accoglie insieme alla sua famiglia.

Madieri introduce il tema dell’esodo in maniera delicata, a tratti innocente, guardandolo con gli occhi della bambina che era allora. Infatti scrive di aver fatto amicizia «con i bambini slavi che vennero ad abitare vicino a noi al posto degli italiani che cominciavano ad andarsene in massa e non capivo» – ecco che affiora lo sguardo della bambina – «il tacito rancore dei miei genitori»[9].

Il rancore, continua, era dovuto al fatto «di vedere snaturata la città, da nuovi costumi e nuove facce […], dall’arrivo massiccio di serbi, croati, macedoni e bosniaci»[10]. Oltre all’esodo il passaggio consente di riflettere su un altro elemento e cioè l’arrivo in città di uomini e donne giunti dalle regioni dell’interno della Jugoslavia che andranno a occupare le case lasciate vuote dagli esuli, modificando, con la loro presenza, lo spazio cittadino. Il rancore evocato da Marisa stava proprio in quel cambiamento, considerato epocale per quanti, come i suoi genitori, vedevano improvvisamente mutare il volto identitario e culturale di una città che, oramai diversa, percepivano sempre più lontana.

Un piccolo ma significativo sguardo su Fiume e il suo esodo lo offre anche Il sogno di una cosa, romanzo d’esordio di Pasolini, ma pubblicato solo nel 1962, che racconta le vicende di quattro ragazzi ventenni partiti dall’indigente campagna friulana alla volta della Jugoslavia, che ai loro occhi appariva come un «mondo nuovo, libero e luminoso», dove per la gioventù «sarebbe cominciata la vita». Furono sufficienti poche settimane per toccare con mano la difficile realtà del dopoguerra jugoslavo («belle ragazze, ma troppa fame»[11], aveva sentenziato Eligio, uno dei protagonisti, stilando un bilancio delle loro primo periodo fiumano) e cambiare idea. Decisero così di tornare a casa. Lo fecero prendendo un treno che da Fiume li avrebbe ricondotti a Gorizia ed è proprio alla stazione, sulla banchina, che si imbatterono in una «folla, quasi tutta di profughi» che  «correva su e giù per i binari […] in una confusione indescrivibile»[12].

Dopo Fiume, Pola che, lasciata da circa 27.200 dei suoi 32.000 abitanti[13], divenne la città simbolo dell’esodo, le cui atmosfere trovano spazio nella narrazione di Ester Sardoz Barlessi, che in Una famiglia istriana, descrive una «fila interminabile di gente che con carri, carretti, fagotti in mano e sulle spalle percorreva la via verso la stazione ferroviaria o verso il porto»[14], dove si sarebbe imbarcata sul Toscana, la motonave messa a disposizione del governo italiano. In quei giorni, scrive invece Alessandra Fusco in Tornerà l’imperatore, sembrava che «un’enorme mano» avesse «staccato la lampadina» per togliere la luce e fare assomigliare la città  «a un cimitero»[15].

E’ però Nelida Milani, tra le più note voci della letteratura dell’esodo, a dipingere un affresco della città durante l’esodo. I contorni tratteggiati sono quelli di una città vuota, che vide «il destino caderle addosso», gettando i polesani in una «condizione di orfanaggio» e catapultandoli «in un’avventura che aveva oltrepassato i binari della normalità»[16].

«Partivano a grappoli»[17], si legge ne Il pianoforte, racconto che compare ne L’osteria delle Parenzana, il primo volume de Cronache delle baracche, la trilogia che raccoglie la sua intera opera narrativa, fissando lo smarrimento, il tempo sospeso e gli spazi lasciati vuoti da chi abbandonava case, quartieri, amicizie e legami. Ad andare in scena, si legge in Bora, uno dei suoi volumi più noti scritto insieme ad Anna Maria Mori, era l’esodo di tutti, certificando la trasversalità di un fenomeno che coinvolse  «l’operaio e l’artigiano, il manovale e il cantierino, il professore e il veterinario, i motoristi di Scoglio Olivi [il cantiere navale cittadino] e le operaie della Fabbrica Tabacchi»[18]. A fare da sfondo alle partenze, un rumore di chiodi, martelli e casse imballate.

L’opera di Nelida Milani consente anche di riflettere sul trauma che l’esodo rappresentò per quanti, come lei, decisero di restare, i cosiddetti rimasti, trovatisi a vivere in una città i cui quartieri, a iniziare dal popolare rione delle Baracche, dove Nelida nasce e cresce, avevano cessato di pulsare, vivendo soltanto più di «malinconie e ricordi»[19].

Racconti di guerra[20], altra antologia della Milani, riesce a far emergere il sentimento di spaesamento e di straniamento di chi, rimasto in città, si trovò di fronte a una realtà che aveva improvvisamente spezzato equilibri, norme e tradizioni ben radicate nella società. Fu praticamente impossibile per la popolazione, non subire i traumi causati dallo smarrimento e dal disorientamento originati dall’esodo[21].

Chi resta si sentì investito da un mondo nuovo e sconosciuto che sostituiva le gite domenicali con il lavoro volontario, le scuole italiane con quelle croate, portando con sé una quotidianità segnata da tessere annonarie, la zimica, negozi vuoti e una danza, il kolo, che nessuno voleva ballare[22].

L’ultimo grande esodo, si è detto, ebbe come teatro la Zona B del TLT e anche in questo caso interessò le differenti stratificazioni sociali, dagli impiegati agli operai, dai manovali agli elettricisti, fino ad arrivare a pescatori (soggetti al sequestro e al blocco delle imbarcazioni), commercianti e liberi professionisti.

«A ogni appello della maestra, i banchi erano sempre più vuoti. I miei compagni», scrive Marino Piuca ne I gatti di Pirano, ripercorrendo con la memoria i giorni dell’esodo, «non si presentavano a scuola. Improvvisamente scomparivano»[23].

Centri costieri come Pirano, Capodistria e Isola persero così gran parte dei loro abitanti. Proprio come le campagne, poiché l’esodo dalla Zona B del TLT toccò in maniera consistente anche i contadini, categoria che, prima di allora, era stata coinvolta solo limitatamente dal fenomeno: infatti se fino alla primavera del 1954 le loro partenze avevano assunto un peso specifico piuttosto marginale, con l’arrivo dell’autunno il loro contributo all’esodo divenne consistente.

A dettare i tempi non fu l’incertezza, quanto piuttosto il ritmo della stagione agricola, che portò proprietari terrieri e braccianti a decidere di seguire fino all’ultimo le fasi del raccolto, nel tentativo di riuscire a ricavare più utili possibili prima della partenza.

Cooperativizzazione, collettivizzazione delle colture, introduzione di normative limitanti le esportazioni private e gli scambi commerciali, indebolirono fortemente produttori e agricoltori sul piano economico, consentendo loro di trarre profitti minimi di poco superiori alla soglia di sussistenza. Fu perciò l’insieme di tali condizioni che li spinse alla partenza.

È Fulvio Tomizza, modellatore di una scrittura nella quale convergevano i lineamenti plurimi della grande anima istriana, a restituire alcuni scorci dell’ultimo grande esodo del modo contadino. Il riferimento è a Materada, il suo primo romanzo, edito nel 1960, nel quale, attraverso la storia della famiglia Kozlovich, specchio della sua vicenda personale, lo scrittore nato a Giurizzani nel Comune di Materada, ripercorre il periodo dell’esodo. Un tempo nel quale, si legge, «presentare la domanda [di opzione], caricare le proprie robe sul camion, era diventata una moda. La nuova moda di Giurizzani e degli altri paesi che non avevano mai visto campanile più lontano di quello di Buie, né strada più larga, né monte più alto»[24].

Approdi

Per i giuliano-dalmati l’esodo costituì dunque un repentino rovesciamento del mondo precedente. Se una parte dei profughi andò ad alimentare il serbatoio dell’emigrazione transoceanica approdando in Australia, Stati Uniti, Canada e Sud America, grazie anche ai programmi di emigrazione assistita e ricollocamento lavorativo predisposti per profughi, rifugiati e Displaced Person’s dall’International Refugees Organization (IRO)[25], la maggioranza giunse in Italia, distribuendosi a macchia di leopardo sull’intero territorio nazionale.

Qui, per riprendere le parole di Claudio Magris, gli esuli trascinarono dietro alla loro esperienza «la desolazione dell’abbandono, la povertà, l’incertezza del futuro e la misera sistemazione, per anni, in campi profughi»[26].

Campo profughi. Termine che, se provassimo a costruire un ideale dizionario dell’esodo, rappresenterebbe certamente una delle principali parole chiave per definire la diaspora istriana.

Furono infatti tali complessi, 109 in tutto il Paese, gestiti dal Ministero dell’Interno, a costituire il primo impatto con la nuova realtà[27].

La letteratura offre più di uno spunto per riflettere sulla vita quotidiana nei campi, restituendone frammenti e memorie. Caterina Edwards, scrittrice canadese figlia di istriani giunti nello Stato nord-americano grazie ai programmi dell’IRO, nel suo romanzo autobiografico Riscoprendo mia madre, affronta il tema del campo attraverso la testimonianza di una sua anziana zia, che ricorda di aver vissuto, per anni, «in una capanna di metallo in un campo profughi»[28]. Una fotografia che appare molto simile a quella scattata da Pietro Spirito ne Il suo nome quel giorno, romanzo ambientato in buona parte nel campo profughi di Padriciano, sull’altopiano carsico sopra Trieste. E’ qui che insieme ad altri 5.000 profughi Giulia, la protagonista, trascorre i suoi giorni in baracche prive di riscaldamento e acqua corrente, definite come «scatole di legno di quattro metri per quattro»[29].

Si può intuire come il campo coincise con una condizione di precarietà e fragilità, cui si aggiunsero i disagi materiali e morali legati a una nutrizione deficitaria, alle precarie condizioni igieniche e alla mancanza di spazi intimi e personali. Un’esperienza restituita, in tutta la sua durezza, da Diego Zandel e, ancora una volta, da Marisa Madieri.

Il primo riprende lo sgomento della madre subito dopo il suo primo impatto con il centro di raccolta di Servigliano, ricavato da un ex campo di internamento: «[i miei genitori] ci arrivarono il pomeriggio. C’era una sola entrata, con la grande scritta Centri di Raccolta Profughi. Nell’interno le baracche. […] La mamma tratteneva a stento le lacrime. […] Un uomo li accompagnò alla baracca cui erano destinati. Dentro c’erano già altre famiglie di profughi in spazi comuni, ciascuno separato con dei visori precari, coperte, tendaggi»[30].

E’ invece il Silos di Trieste, vecchio deposito del grano a pochi passi dalla stazione ferroviaria, a ricoprire un ruolo centrale nella narrazione della scrittrice fiumana, che vi restò a sprazzi, per periodi più o meno lunghi. Ne emerge una sequenza dai contorni ruvidi, nella quale la struttura sembra assumere i crismi di una sorta di girone dantesco pervaso dall’odore dolciastro e l’aria stantia che avvolgeva i box al cui interno erano stipate le famiglie. Anche i Madieri, che vivevano in uno spazio privo di «luce e aria. Nella zona notte dormivamo in cinque su quattro letti, separati da pesanti tendoni che la mamma aveva appeso a delle corde, creando tante celle anguste e soffocanti. […] La sottile parte di legno e il tetto di carta, assicuravano solo un isolamento visivo e non certo acustico».

Luogo di emarginazione ed esclusione, il campo, insieme alla sconosciuta condizione di profughi, portò gli esuli a maturare un senso di dispersione e spaesamento. Esso rappresentò, dopo quello dell’esodo, un altro trauma, molto difficile da superare, soprattutto per le generazioni più anziane. Per loro, «i nostri vecchi», citando nuovamente Tomizza, «fu duro lasciare la terra sulla quale ti sono [erano] venuti i capelli bianchi»[31].

Accogliere

Ad attendere i profughi vi erano dunque un presente precario e un futuro incerto, che si intrecciarono con i chiaroscuri di un’accoglienza nella quale la solidarietà della popolazione italiana e gli sforzi governativi dovettero fare i conti con l’esclusione e il pregiudizio, sintetizzati in maniera eloquente da Silvia Di Prà nel suo Senza salutare nessuno. I profughi, scrive, erano divenuti «nell’immaginario e nell’ignoranza comune, i fascisti che venivano a rubare un pane già così scarso»[32]. Parole che sottendono le difficoltà di inserimento dei giuliano-dalmati nelle diverse trame della società italiana che li lasciò, per lungo tempo, in una condizione di isolamento ed emarginazione, superata soltanto negli anni Sessanta sulla scia del boom economico.

Un’analisi più specifica sulle politiche governative rivela però anche un altro elemento, e cioè come i giuliano-dalmati, esauritasi la prima fase dell’esodo e l’emergenza a essa legata, furono al centro di provvedimenti più organici, miranti a potenziare, superandole, le misure di prima assistenza. Uno spunto in tal senso è offerto da Mauro Covacich, che in Trieste sottosopra, libro che propone quindici itinerari in luoghi simbolo e simbolici della città, ci conduce a Chiarbola, quartiere istriano, dove furono costruite case «che hanno lasciato in eredità ai figli. Gli istriani, si legge ancora, hanno ricreato quel misto di atmosfera un po’ marina e un po’ rurale tipica della loro terra»[33].

Il riferimento alle abitazioni consente di introdurre un ulteriore elemento, ovvero lo sforzo profuso dalle istituzioni in favore dei profughi, non solo in termini assistenziali, ma anche per accelerare un il loro inserimento nel tessuto economico e sociale del paese. Un ruolo di primo piano fu assunto in tal senso dall’Ufficio per le zone di confine (Uzc), sorto nel 1947 per volontà di Alcide De Gasperi che ne affidò la gestione politica a Giulio Andreotti[34]. L’azione governativa conobbe una svolta decisiva con l’approvazione della legge n. 137 del 4 marzo 1952, meglio nota come Legge Scelba, che favorì sia il collocamento lavorativo, obbligando imprese pubbliche e privata ad assumere al loro interno la quota del 5% di profughi, sia di sistemazione abitativa assegnando ai profughi il 15% della nuove abitazioni di edilizia popolare consentendo così la creazione, in circa quaranta città italiane, dei cosiddetti borghi giuliani, di cui Chiarbola, a Trieste, costituisce solo un esempio.

Nostalgia

Le ferite dello sradicamento e il trauma della separazione costituiscono un trait d’union che ritorna costantemente nell’intera produzione letteraria dell’esodo, al cui interno si può cogliere anche un altro elemento che emerge, quasi fosse un denominatore comune, in molte narrazioni. Il riferimento va alla nostalgia della terra natia, luogo definitivamente perduto che, attraverso approcci e prospettive differenti, costituisce un «motivo dominante»[35] della narrativa di frontiera.

Nostalgia delle atmosfere che hanno avvolto infanzia e giovinezza, delle persone care, del proprio ambito familiare, degli ambienti e dei luoghi che si cristallizza nelle pieghe dei ricordi di scrittori e scrittrici. La perdita diventa così uno strumento di conservazione e fissa la memoria intorno a immagini che restano, a distanza di tempo, nitide negli occhi di chi parte. «L’Istria», scrive ancora Caterina Edwards riferendosi all’anziana madre, «era una fantasia, un costrutto mentale, una sequenza di immagini […]. Esisteva nella mente di mia madre, nelle reminescenze che scambiava con gli amici, come l’amata, perduta patria, la sorgente della nostalgia»[36].

La nostalgia di un mondo venuto meno improvvisamente contribuisce a rafforzare l’identità istriana, in realtà mai del tutto perduta, diventando anche un balsamo per lenire le ferite di un’esistenza lacerata dall’esilio, una sorta di corazza da indossare nelle tappe del tortuoso percorso che li conduce verso una nuova vita. Il ricordo della propria terra assume così i contorni di un’ancora alla quale aggrapparsi, di un porto sicuro al quale guardare e dove poter trovare riparo di fronte alle intemperie e alle difficoltà che gli esuli, donne e uomini con alle spalle storie diverse ma una condizione comune, incontrarono nel riannodare, altrove, i fili delle loro esistenze.


Note:

[1] Secondo le stime più puntuali abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia circa 300.000 persone. Insieme alla componente italiana, stimata intorno alle 250.000 unità (cifra confermata anche dalla Presidenza del Consiglio dei ministri che in una nota del 26 luglio 1955 parlava di 255.000 profughi), partirono anche 34.000 sloveni e 12.000 croati, per la gran parte di origine istriana, alla quale si accodò un’ondata di circa 4.000 individui tra romeni, albanesi e ungheresi. O. Mileta Mattiuz, Le quantificazioni a compendio dei trattati storici: utilizzo del mezzo demografico-statistico-comparativo, in E. Miletto (a cura di), Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Seb 27, Torino 2012, pp. 121-125.

[2] Per un inquadramento sull’esodo da Fiume, Pola e dalla Zona B del TLT, cfr. R. Pupo, Fiume città di passione, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 247-260; R. Spazzali, Pola città perduta. L’agonia, l’esodo (1945-1947), Edizioni Ares-Irci, Milano 2022, pp. 311-450; E. Miletto, Gli italiani di Tito. La Zona B del TLT e l’emigrazione comunista in Jugoslavia (1947-1954), Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 153-182.

[3] Cfr. l’ancora oggi imprescindibile C. Colummi, L. Ferrari, G. Nassisi, G. Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia-Giulia, Trieste 1980.

[4] Cfr. R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005; G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007.

[5] T. Judt. Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Roma-Bari, 2017, p. 19.

[6] Cfr., almeno, M. Cattaruzza, M.  Dogo, R. Pupo (a cura di), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche, Napoli 2000; G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008; A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate: esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, il Mulino, Bologna 2012; P. Audenino, La casa perduta. La memoria dei profughi nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2015.

[7] E. Bettiza, Esilio, Mondadori, Milano 1996, p. 421.

[8] Bettiza, 1996, p. 344.

[9] M. Madieri, Verde acqua e La radura, Einaudi, Torino 1987, pp. 37-38.

[10] Madieri, 1987, p. 38.

[11] P. P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 2000, p. 60.

[12] Pasolini, 2000, p. 62.

[13] Spazzali, 2022, p. 330.

[14] E. Sardoz Barlessi, Una famiglia istriana, Il ramo d’oro/Edit, Trieste-Fiume 2012, p. 58.

[15] A. Fusco, Tornerà l’imperatore. Storia di una donna istriana tra guerre e esodo, Affinità elettive, Ancona 2002, p. 114.

[16] N. Milani,Opzioni e ormoni, in Ead, Lo spiraglio, Besa, Nardò 2017, p. 8.

[17] N. Milani, Il pianoforte, in Ead, Cronache dalle Baracche, vol. I., L’Osteria della Parenzana, Ronzani, Dueville 2021, p. 237.

[18] N. Milani, A. M. Mori, Bora. Istria, il vento dell’esilio, Marsilio, Venezia 2018, p. 153.

[19] N. Milani, Carnevale tragico, in Ead, L’Osteria della Parenzana, cit., p. 48.

[20] N. Milani, Racconti di guerra, Il ramo d’oro – Edit, Trieste-Fiume, 2008.

[21] Sui rimasti, con particolare riferimento alla Zona B, si vedano anche gli studi di Gloria Nemec. In particolare, Ead., Nascita di una minoranza. Istria 1945-1965: storia e memoria degli italiani rimasti nell’area istro-quarnerina, Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Rovigno 2012.

[22] Sull’avvento di un “mondo nuovo” e le sue conseguenze sulla comunità italiana, cfr. R. Pupo, Adriatico Amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza, Roma-Bari 2021, pp. 198-212.

[23] M. Piuca, A. Malvasi, I gatti di Pirano. Dal mare istriano al campo di Fossoli, Aliberti, Reggio Emilia 2011, edizione on-line.

[24] F. Tomizza, Materada, Mondadori, Milano 1960, p. 113.

[25] Per una sintesi sui programmi di ricollocamento lavorativo di profughi, Displaced Persons e rifugiati portati avanti dall’Iro, cfr. S. Salvatici, Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale, il Mulino, Bologna 2015, pp. 211-215.

[26] C. Magris, Primavera istriana, in Id. L’Infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2009, p. 121.

[27] Ricavati da strutture in disuso (ospedali, fabbriche dismesse, scuole, caserme, ma anche ex campi di concentramento e prigionia come la Risiera di San Sabba e Fossoli, divenuti campi profughi) i centri di raccolta rimasero in attività per diversi anni se è vero che nel 1963 erano ancora 8.500 i profughi ricoverati nelle quindici strutture ancora in funzione. Cfr. E. Miletto, Novecento di confine. L’Istria, le foibe, l’esodo, FrancoAngeli, Milano 2020, p.103.

[28] C. Edwards, Riscoprendo mia madre. Una figlia alla ricerca del passato, Les Flâneurs, Roma 2021, p. 66.

[29] P. Spirito, Il suo nome quel giorno, Marsilio, Venezia 2018, p. 23.

[30] D. Zandel, I testimoni muti. Le foibe, l’esodo, i pregiudizi, Mursia, Milano 2018, pp. 18-19.

[31] Tomizza, 1960, p. 27.

[32] S. Dai Prà, Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 135.

[33] M. Covacich, Trieste sottosopra, Laterza, Roma-Bari, p. 104.

[34] Sull’attività dell’Uzc, cfr. D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), il Mulino, Bologna 2015.

[35] S. Polo, La memoria in esilio. Il racconto dell’esodo istriano nella letteratura di frontiera e nella memoria orale, Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale “Leo poldo Gasparini”, Gradisca d’Isonzo 2014, p. 59.

[36] Edwards, 2021, p. 43.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Scritture di frontiera. L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura di confine
DOI: 10.52056/9791254693162/09
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.18, dicembre 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Scritture di frontiera. L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura di confine, in Novecento.org, n. 18, dicembre 2022. DOI: 10.52056/9791254693162/09

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