
Migrazioni e spostamenti forzati di oggi e di ieri: la prospettiva dell’antropologia
Igiaba Scego, Internazionale a Ferrara 2008 (festival.internazionale.it)
Foto di Federica Poggi per Internazionale, pubblicata sul profilo Flickr di Internazionale, con Licenza CC BY-NC-SA 2.0
Abstract
Nel corso della Summer school 2024 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, tenutasi a Trieste dal 28 al 30 agosto, Aldo Gianluigi Salassa ha intervistato Cecilia Pennacini, docente di antropologia presso l’Università di Torino. Dal loro dialogo sono scaturite diverse riflessioni su migrazioni e spostamenti forzati attuali e del passato, con un particolare focus sull’Africa, sui concetti di razza, etnia e cultura e sul particolare valore che può avere la prospettiva antropologica nell’ambito della didattica della storia.
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During the 2024 Summer School of the Istituto nazionale Ferruccio Parri, held in Trieste from 28 to 30 August, Aldo Gianluigi Salassa interviewed Cecilia Pennacini, professor of anthropology at the University of Turin. Their dialogue gave rise to various reflections on current and past migrations and forced displacements, with a particular focus on Africa, on the concepts of race, ethnicity and culture, and on the particular value that the anthropological perspective can have in the teaching of history.
Qual è lo stato di salute dell’antropologia culturale oggi in Italia? Ed è vero, come sostengono alcuni, che l’antropologia si sta sempre più trasformando in una sorta di scienza dell’immigrazione?
Prima di rispondere occorre fare una premessa. Da africanista quale sono, porterò inevitabilmente un punto di vista sulle migrazioni che riguarda soprattutto l’Africa e sarà un punto di vista incentrato sull’antropologia culturale, che naturalmente ha dei rapporti molto stretti con la storia, ma anche un suo sguardo specifico.
“Antropologia” deriva dai termini greci antropos e logos, dunque è un discorso sull’essere umano e sul rapporto tra identità e alterità. La domanda “Chi siamo noi in relazione agli altri?” è nel cuore dell’antropologia e questo offre fin da subito una chiave di lettura specifica.
Nel corso della Summer school Paolo Barcella ha già sollevato diversi temi che riguardano il modo in cui l’essere umano guarda all’altro. Ebbene, l’antropologia ha messo a punto alcuni strumenti concettuali che può essere utile richiamare quando parliamo di migrazioni, quindi di mobilità delle persone e di incontri tra le culture. L’antropologia infatti si forma e mette in campo questi strumenti concettuali in una fase ben precisa della storia dell’Europa: la seconda metà dell’Ottocento, l’epoca in cui da un lato si compiono i processi nazionali, dall’altra si dà sistematicità al progetto coloniale. Lungi da me pensare o dire che l’antropologia possa essere ridotta a una scienza coloniale: non è mai stata solo questo. Su questo c’è un dibattito all’interno della disciplina, ma l’antropologia nasce soprattutto per costruire strumenti per conoscere il mondo extraeuropeo, che l’Europa stava andando a conquistare e ad amministrare. E c’era davvero bisogno di conoscere per poter amministrare.
Quali sono questi strumenti? Anzitutto il concetto di cultura. Non è possibile pensare la diversità senza trasformare il concetto classico di cultura, quello ciceroniano che ancora oggi usiamo – e che vede la filosofia come la coltivazione dell’animo – in qualcos’altro. Il concetto di cultura va adottato anche, ad esempio, dove non c’è scrittura. Da africanista, questo è un punto a cui tengo molto, perché l’Africa subsahariana (con l’unica eccezione dell’Etiopia), non ha prodotto tecnologie di scrittura, e nonostante ciò ha culture raffinate, antiche, che hanno dato vita a moltissima letteratura orale e produzione artistica. Osservare e comparare le diversità era molto difficoltoso nell’Ottocento proprio per questo ostacolo, ovvero per la mancanza di un concetto antropologico di cultura che ne potesse allargare l’idea e il senso in maniera inclusiva. Comprendere nel concetto di cultura anche le classi subalterne, spesso analfabete, all’interno delle società occidentale, e le società agrafe all’esterno della società occidentale crea un innesco dal quale scaturisce l’antropologia. Non sarebbe stato possibile entrare in questa prospettiva dell’umano senza un nuovo concetto di cultura, ben delineato nel 1871 da Tylor,[1] che la definisce come un ampio sapere acquisito dall’uomo in quanto essere sociale, quindi non sui libri – come pensava Cicerone – ma in una dimensione pubblica, come ad esempio il mercato.
Da allora il concetto di cultura è ulteriormente cambiato e anche in questo senso, studiando la mobilità, si osserva sempre di più che le culture non appartengono a una dimensione territorializzata, bensì seguono i flussi delle persone, del denaro, degli oggetti. Arjun Appadurai, antropologo di origine indiana che insegna negli Stati Uniti, nel libro Modernità in polvere[2] descrive la cultura in termini di flussi. È quindi necessario pensare ai flussi, al movimento, alle dinamiche culturali, perché altrimenti è arduo capire cosa è successo e cosa sta succedendo nel mondo.
Nel periodo dell’imperialismo il grosso dell’attività degli antropologi consisteva nel descrivere, documentare, catalogare gli esseri e i tipi umani dal punto di vista somatico, associando alle caratteristiche superficiali delle caratteristiche intellettuali. Mi riferisco qui al secondo concetto chiave, ovvero quello di razza. Non possiamo negare che l’antropologia lo abbia abbondantemente utilizzato. Vi sono però eccezioni. Negli Stati Uniti, ad esempio, Franz Boas già ai primi del Novecento ha combattuto una battaglia per smantellare il concetto di razza.[3] In Italia, per ragioni storiche, l’antropologia è stata indubbiamente razziologica e anche razzista[4] almeno fino agli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento. Negli anni Cinquanta Biasutti ancora pubblicava Razze e popoli della terra:[5] il concetto di razza era allora ampiamente utilizzato.
In ambito scientifico è stato invece abbandonato fino a essere spazzato via dalla scoperta del DNA nel 1956. Nel discorso pubblico, tuttavia, ancora oggi si discute ad esempio di ius sanguinis, che a mio modo di vedere rimanda a un paradigma di tipo razziologico, mentre parlare di ius scholae significa riconoscere che la cultura si impara a scuola, non è nel sangue. Questo dibattito mostra che non ci siamo completamente liberati del concetto di razza e di quello che ne consegue (fenomeni di razzismo). C’è un altro concetto che in un certo senso ha sostituito il concetto di razza ma che non è meno problematico: è il concetto di etnia, che per altro emerge spesso nelle riflessioni sulla migrazione. Etnia è una nozione problematica già a partire dalla sua etimologia, perché ethnos (pl. ta ethne) in greco antico era usato per definire coloro che non erano i greci abitanti delle polis; anche nei Vangeli il termine è usato per i popoli barbari, cioè coloro che “balbettano” perché non conoscono il logos.
Un esercizio che faccio sempre con gli studenti, quando mi trovo in una classe fondamentalmente composta da italiani, è chiedere qual è la loro etnia. Di solito c’è grande imbarazzo, perché il concetto di etnia non è un concetto che l’Europa utilizza nei confronti di se stessa. Nel linguaggio scientifico e nel linguaggio politico esso è stato utilizzato essenzialmente nell’opera di colonizzazione delle società, in particolare in Africa, secondo la regola del dividi et impera: per comprendere, per amministrare, è necessario separare.
Il mondo africano in epoca precoloniale era un universo continuo, composto da catene di società strettamente connesse le une alle altre ed estremamente mobili[6]. In Africa c’è sempre stata una mobilità enorme fin dall’emergere della nostra specie (noi siamo in qualche modo africani, arriviamo da quel continente attraverso la migrazione). Ebbene, i confini in Africa sono stati introdotti dal colonialismo. Non esistevano etnie, esistevano catene di società interconnesse tra loro che si scambiavano cultura, religione, lingue in ampi spazi di condivisione. Nel 1885, con la Conferenza di Berlino, le nazioni europee decidono in maniera arbitraria, senza conoscere la realtà del territorio, di istituire dei confini che di per sé producono delle fratture e poi dei conflitti, i quali sono alla base dei motivi per cui tanti africani oggi migrano. La situazione che si è creata allora, per mille ragioni che è difficile sintetizzare, ha bloccato e classificato dei gruppi che in precedenza tendevano invece a fluire e a trasformarsi dinamicamente gli uni negli altri. Questa è una delle origini del problema e della crisi africana di cui noi vediamo oggi solo la punta dell’iceberg.
In qualità di corresponsabile di un progetto che si occupa proprio degli spostamenti interni di popolazione, nell’Africa orientale in particolare, e nello specifico della mobilità degli oggetti, sarebbe interessante esaminare questi due aspetti come due facce di una stessa medaglia, che è appunto quella del colonialismo e della decolonizzazione o anche del neocolonialismo.
Come già anticipato, parlando dell’Africa la mobilità è stata almeno parzialmente bloccata per ragioni amministrative in epoca coloniale. I confini di allora non sono cambiati: come sappiamo, i confini delle Nazioni africane sono rimasti esattamente i confini coloniali. Queste nazioni si trovano quindi molto spesso a gestire l’eterogeneità di popolazioni, di culture, di lingue (in Repubblica democratica del Congo se ne parlano 240 diverse) e di religioni, con rapporti di forza che sono mutati proprio in epoca coloniale, generando tensioni. Il blocco della mobilità, che almeno in parte è stata artificiosamente impedita, ha dato luogo ad altri fenomeni, come le migrazioni interne. Dal momento che l’obiettivo delle potenze coloniali era lo sfruttamento sistematico delle risorse naturali attraverso la manodopera africana, questo ha comportato sia migrazione interna e spontanea verso la città – quindi fenomeni di urbanizzazione impressionanti che poi sono continuati dopo le indipendenze – sia migrazione coatta e deportazione, riproponendo situazioni che l’Africa già aveva conosciuto nel periodo precedente, con la tratta schiavista (il colonialismo si autolegittima come abrogazione della tratta, ma in realtà questo non è del tutto vero).
C’è però anche uno sfruttamento delle risorse culturali. L’Europa non solo ha sfruttato le materie prime e la manodopera, ma ha anche esportato forse il 90, 95% dell’arte e del patrimonio culturale africano, che ora si trova nei nostri musei. Questo per altro denota un rapporto ambiguo tra colonizzatori e colonizzati. Una storica della letteratura. Mary Luise Pratt, ha coniato un termine affascinante, che è ”zona di contatto”. Lei sostiene che, laddove colonizzatori e colonizzati si incontrano, in maniera diseguale e anche violenta, le culture si avvinghiano le une alle altre. Ci sono fenomeni di mimesi dal punto di vista dei colonizzati e ci sono anche acquisizioni da parte dei colonizzatori. Si sviluppa, insomma, una relazione complicata, che pure c’è e coinvolge anche la cultura. Con l’indipendenza, le cose non sono cambiate sul territorio africano. Le crisi politiche, e poi anche climatiche e demografiche, sono cresciute sempre di più, dando luogo a una mobilità estremamente spinta di cui noi vediamo arrivare qui solo una piccolissima parte. Il 90% della migrazione africana avviene sul continente africano, nei paesi limitrofi, ed è una migrazione causata da fattori che è fondamentale conoscere e su cui è necessario riflettere. Movimenti epocali di popolazione si verificheranno in misura sempre maggiore e più frequente. I tassi demografici e di fertilità sul continente africano continuano a essere molto alti poiché la cosiddetta transizione demografica che ci si aspettava non è avvenuta. Ad oggi l’indice di fertilità media è di 3-4 figli per donna, con picchi di 6 in certi paesi. Questo significa che la popolazione africana raddoppierà all’incirca in cinquant’anni: un miliardo e 230 milioni (quasi un miliardo e 300) adesso, due miliardi nel 2050, quattro miliardi nel 2100.
Questa spinta demografica possente genera anche crisi di ordine politico, perché le situazioni coloniali hanno lasciato degli strascichi traumatici in alcune aree. Pensiamo al Corno d’Africa, la regione che è stata colonizzata dall’Italia: l’Etiopia, la Somalia, l’Eritrea (come nel Nordafrica la Libia) sono tutti paesi nel pieno di conflitti, interni o esterni, che producono un’enorme mobilità. Anche l’impatto della crisi climatica non è da sottovalutare. Se in Europa ci si lamenta del caldo, nell’area saheliana[7] la situazione è di autentica invivibilità: la regione si sta desertificando a una velocità tale per cui le popolazioni fuggono verso sud o verso nord. In Sudan ad esempio c’è una guerra legata certamente a un problema di accesso alle risorse (come il petrolio), ma anche al dramma di una terra che non è più coltivabile e che non può più essere adibita a pascolo perché fa troppo caldo.
Una parentesi veloce sul progetto su cui lavoriamo in Uganda. L’Uganda confina col Sud Sudan, lo Stato più recente al mondo (nato nel 2012), dove nel 2013 è scoppiata una guerra drammatica, quasi un genocidio. Circa un milione di sudsudanesi ha passato il confine con l’Uganda e l’Uganda li ha accolti, come ha accolto profughi dalla Repubblica democratica del Congo e prima ancora dal Ruanda. L’Uganda ha sempre accolto così come fanno gli Stati africani: c’è una tradizione di accoglienza che non mette mai in discussione la possibilità che chi arriva (e sono soprattutto donne coi bambini che attraversano a piedi il confine) venga accolto. Malgrado l’Uganda sia un Paese povero, con un PIL ridottissimo, grazie anche al supporto delle organizzazioni umanitarie esso fornisce un appezzamento e delle sementi a queste famiglie matrifocali e crea un minimo di autosufficienza. In Uganda oggi ci sono 46 milioni di abitanti, quindi non molti meno rispetto all’Italia, con un milione e mezzo di richiedenti asilo (non di migranti). Per fare un raffronto, i richiedenti asilo in Italia sono circa 50mila.
Ci sono tanti motivi pratici per cui l’Africa non può permettersi di non accogliere i migranti; però ci sono anche dei motivi culturali, che rendono l’Uganda un modello encomiato dalle Nazioni Unite. Un modello che mostra come l’accoglienza arricchisca le comunità locali, perché la costruzione di scuole e di ospedali per i rifugiati va anche a beneficio delle comunità locali. Si può dunque dire che l’accoglienza crea sviluppo fornendo un modo diverso di guardare alla mobilità. In un luogo dove essa è la norma, è necessario anche dotarsi di strumenti nuovi.
Qual è il contributo che può dare l’antropologia su temi che incrociano l’insegnamento della storia e dell’educazione civica? Anche rispetto al razzismo, una delle definizioni più convincenti che si possono dare dell’antropologia è quella di scienza dell’alterità e della differenza.
Sono convinta che nel mondo globalizzato di oggi l’incontro tra le culture sia la norma e anche la causa di tanti conflitti e tante tensioni. Mai come oggi c’è bisogno dell’antropologia, capace di fornire strumenti concettuali che consentono l’attraversamento culturale, che consentono di farci dialogare, di farci transitare da una cultura all’altra. E c’è grande bisogno di conoscenze del mondo extraeuropeo. A Torino, oggi, nelle classi circa il 18% di alunni sono stranieri. La scuola è dunque un ambiente estremamente multietnico. Malgrado ciò, i programmi scolastici non paiono adeguarsi. Come fanno ragazzi e ragazze di origine africana o sudamericana ad acquisire una cultura, a essere accolti, se non trovano il modo di identificarsi in essa? Se non ritrovano sé stessi e la loro storia in quello che studiano? Questo è un problema già presente in epoca coloniale. Nelle colonie, per esempio, si studiava la storia europea (e questo è vero anche oggi nelle nazioni postcoloniali).
Personalmente sono reduce da un’esperienza molto importante a Torino, dove è stata allestita una mostra sulle collezioni africane presenti in Italia. In questo contesto, il rapporto con le scuole è stato fruttuoso perché finalmente alunni e alunne stranieri hanno potuto vedere gli oggetti della loro civiltà, della loro storia, della loro arte. Per contrastare i fenomeni della xenofobia (e quindi per andare incontro all’educazione civica), c’è bisogno di superare le difficoltà dovute al non capirsi, al non conoscersi, al non riuscire a dialogare. Per colmare questo vuoto non vi sono altri strumenti se non quello di cercare di conoscere e di mettere in dialogo le culture altrui con le nostre.
Note:
[1] E. B. Tylor, Primitive culture, 1871.
[2] A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001
[3] C. King, La riscoperta dell’umanità, Einaudi, Torino 2020.
[4] Va ricordato ad esempio che Il manifesto per la difesa della razza è stato scritto anche da degli antropologi.
[5] R. Biasutti, Razze e popoli della terra, UTET, 1953
[6] J.L. Amselle. E. M’bokolo, L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma 2008 (ed. originale, La Découverte, Paris 1985).
[7] L’area subsahariana che si trova tra il deserto, la foresta sudanese e l’Oceano Atlantico.