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Rotta balcanica, rotte migratorie e spostamenti forzati: una prospettiva geografica

Rotta balcanica, rotte migratorie e spostamenti forzati: una prospettiva geografica
Abstract

Nel corso della Summer school 2024 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, tenutasi a Trieste dal 28 al 30 agosto, Elena Vellati ha intervistato Dragan Umek, docente di geografia presso l’Università di Trieste. Dal loro dialogo sono scaturite diverse sollecitazioni su rotte migratorie, rotta balcanica e spostamenti forzati, con un particolare accento sugli effetti che tali fenomeni hanno sullo spazio in cui avvengono.

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During the 2024 Summer School of the Istituto nazionale Ferruccio Parri, held in Trieste from 28 to 30 August, Elena Vellati interviewed Dragan Umek, professor of geography at the University of Trieste. Their dialogue gave rise to several questions on migration routes, the Balkan route and forced displacement, with a particular focus on the effects these phenomena have on the space in which they occur.

La prospettiva della disciplina geografica sulle questioni migratorie costituisce una chiave di lettura fondamentale per comprendere e ragionare sul fenomeno e anche per decostruire narrazioni, magari superficiali e inappropriate. Quindi la domanda è: come e perché la geografia si interessa di migrazioni?

La migrazione è un processo spazio-temporale fortemente incentrata sulla componente antropica. Essendo un fenomeno inserito in uno spazio e nel tempo, è chiaro che la dimensione spaziale per il geografo è fondamentale, e dunque la prospettiva geografica guarda anche in questa direzione, ovvero come cambia lo spazio in cui il fenomeno migratorio avviene. Il movimento delle persone da un luogo all’altro ha ovviamente delle conseguenze. Conseguenze fisiche, per i territori e i luoghi attraversati. Conseguenze sociali per le persone e le comunità coinvolte in questo fenomeno. Gli impatti che si possono notare si sviluppano su diversi piani di lettura: locale, regionale e globale.

Queste diverse scale di indagini portano però i geografi a dover aprire le analisi e gli studi ad altre discipline, a condividere le conoscenze con l’ambito storico, sociale, antropologico, psicologico, del diritto. I saperi perciò si intersecano in un contesto complesso come complesso è il fenomeno della migrazione.

Questa commistione di approcci e di saperi è essenziale per non ridurre tutto a una mera narrazione degli avvenimenti o a una identificazione deterministica di cause, effetti e conseguenze di atti o di situazioni. Nel tempo il fenomeno delle migrazioni è diventato sempre più complesso e oggi, ad esempio, ci troviamo di fronte a tipologie di migrazioni molto particolari. Negli ultimi tempi si parla spesso ad esempio di rotte migratorie. Una di queste è la rotta balcanica.

Ma cosa si intende, geograficamente parlando, per rotta migratoria? Come si può leggere anche in chiave didattica questo fenomeno in particolare? Quali sono le peculiarità della rotta balcanica verso l’Europa, tenendo conto che essa è solo una fra le rotte migratorie principali?

La rotta migratoria è sostanzialmente un percorso geografico lungo il quale i migranti e i rifugiati si muovono attraverso i cosiddetti “hub”, ovvero i nodi principali e i punti fermi all’interno di questa rete di percorsi. In effetti, più che di rotte bisognerebbe parlare di reti di passaggio, di aree di transizione da luoghi di partenza a luoghi di arrivo. È bene sottolineare che mentre i luoghi di partenza sono sempre ben definiti, i luoghi di arrivo non lo sono mai. Spesso per i migranti si determinano i luoghi di arrivo una volta che si è giunti in un posto e si cominciano a raccogliere dati, informazioni e solo a quel punto si decide cosa fare.

Posso citare, a titolo di esempio, l’esperienza personale avuta con una famiglia siriana sul confine tra Croazia e Serbia nell’ottobre del 2015. Ebbene, questa famiglia ha domandato al sottoscritto dove fosse meglio dirigersi, se in Olanda o in Svezia. Non avevano quindi assolutamente idea della destinazione al momento di lasciare la propria casa: erano semplicemente partiti seguendo il flusso.

Si tratta peraltro di un elemento fondamentale delle migrazioni odierne rispetto al passato, quando le grandi migrazioni forzate erano il risultato di eventi bellici che avevano un inizio e una fine con delle modifiche territoriali, degli eventi sicuramente tragici ma ben contestualizzati e definiti. Oggi assistiamo invece a una migrazione forzata dovuta non a guerre esplicite e aperte, ma alle cosiddette “guerre a bassa intensità” che durano molto a lungo, hanno ritorni molto ampi e dunque creano una situazione di instabilità totale, anche se non c’è un vero e proprio conflitto dichiarato apertamente. Queste ‘low intensity war’, come vengono definite, sono la maggiore fucina dell’immigrazione attuale. Da qui si origina un ulteriore elemento che bisogna tenere in conto, ovvero che molto spesso queste aree assai ampie di popolazione che si spostano, attraversano dei territori e arrivano in questi punti nodali, poi prendono direttrici diverse a seconda di varie situazioni, vari eventi o elementi contingenti. E questo, come si accennava, porta in effetti alla costruzione di traiettorie che si intersecano, di linee che si incrociano e producono delle vere e proprie reti migratorie.

Un altro aspetto fondamentale da affrontare riguarda poi la genesi di queste traiettorie. Una rotta migratoria non nasce da un momento o da un giorno all’altro. Della “rotta balcanica”, ad esempio, ci si è accorti quando si sono cominciati a riscontrare dei numeri di migranti importanti, com’è successo nel 2015 dopo il disastro della guerra in Siria, che ha portato 1 milione e mezzo di siriani a lasciare il loro Paese e a spostarsi su varie strade, ma soprattutto quelle balcaniche. E tuttavia, questa rotta esisteva già da molto prima, perché le rotte sono legate a traffici, a contrabbandi, anche a migrazioni illegali, ma di numeri piccoli, tali da farle restare sottotraccia per molto tempo, fino a che i numeri cambiano a causa di un evento scatenante.

Parlando di Europa, come già accennato, le rotte sono diverse. Noi ne riconosciamo soprattutto quattro:

  1. la rotta mediterranea occidentale;
  2. la rotta dell’Africa occidentale;
  3. la rotta del Mediterraneo orientale, che si interseca poi con la rotta balcanica;
  4. la rotta del Mediterraneo centrale.

Come si legge, come si interpreta, anche da un punto di vista geografico, la rotta?

Come accennavo, si interpreta in modi diversi e con diversi piani di indagine che si intersecano, si sovrappongono, si mescolano. Per sintetizzare, e per meglio spiegare il lavoro che si sta svolgendo sulla “rotta balcanica”, si può dividere tutto in quattro tematiche più importanti.

  1. La geografia dei flussi, cioè capire come ci si sposta lungo queste rotte.
  2. La geografia dei campi (formali e campi non formali), cioè la mappatura dei campi governativi gestiti appunto da qualche istituzione e di quelli che spontaneamente si creano lungo la rotta e all’interno di quei nodi menzionati prima.
  3. La geografia dei confini, ovvero come vengono impattati i confini da questo fenomeno e se c’è una sorta di cambiamento anche della percezione dei confini all’interno di questo movimento. In questo caso si parla di “controgeografie” perché questo fenomeno mette in discussione tutto ciò che nei grandi contesti internazionali, nelle grandi conferenze di pace si è cercato di riordinare a livello di spazi e di luoghi. Un fenomeno migratorio come quello della “rotta balcanica” mette assolutamente in crisi tutto questo, a livello locale, regionale e globale: il concetto di confine, il concetto di Stato, il concetto di riorganizzazione dello spazio… Dunque si costruiscono delle geografie diverse rispetto a quelle effettive, ufficiali.
  4. La geografia della spazialità. Cosa comporta il movimento e la presenza di migranti su un territorio? Qual è la loro ricomposizione della spazialità nei luoghi che attraversano: come percepiscono, agiscono, organizzano e si appropriano di questi spazi?

La “rotta balcanica” è una rotta soprattutto terrestre, si aggancia alla rotta del Mediterraneo orientale, che arriva dal sud est, ed è caratterizzata dall’attraversamento di gran parte di quei Paesi che noi avremmo chiamato balcanici, quindi la Grecia, la Bulgaria, la Macedonia del Nord, il Montenegro, il Kosovo, per arrivare poi in Serbia, Croazia, Bosnia e Slovenia, fino anche all’Italia, oppure proseguire anche verso Nord, come nel 2015-2016 (prima della chiusura dei confini), da Belgrado verso l’Ungheria e l’Austria. Attualmente la “rotta balcanica” è il corridoio terrestre più frequentato, più utilizzato e anche più strutturato rispetto agli altri.

Questo movimento veloce, accelerato si ferma improvvisamente dopo il 2016-2017. Prima di questo momento, gli spostamenti dei migranti venivano in qualche modo persino agevolati da parte dei governi dei Paesi coinvolti dalla rotta. Lo Stato serbo, ad esempio, organizzava trasferimenti in pullman dal Sud al Nord del paese, cioè prelevava le popolazioni appena entravano dal confine con la Macedonia e le portava al confine nord, passando per Belgrado e creando di fatto un corridoio umanitario legale. Nel 2016 però l’accordo tra Unione Europea e Turchia ferma questo corridoio. Ad un certo punto, di conseguenza, all’interno di questo territorio diffuso i migranti si bloccano, ristagnano, e si creano degli hub, dei punti di sosta. Spesso si tratta della gran parte delle città dove ci sono i campi governativi, anche se al loro interno non mancano spazi informali (come avvenuto nella stazione di Belgrado o nel Silos a Trieste). In generale, questi nodi sono i punti in cui i migranti si fermano per riorganizzarsi, per trovare i modi più facili per proseguire il viaggio o per ricevere i denari che devono arrivare dal Paese di origine. Spesso essi cercano anche di contattare i cosiddetti smugglers, ovvero i trafficanti che permettono di passare i confini in modo più o meno “creativo”. Oltre alle città possono essere individuati altri punti di stazionamento, ovvero le coste della Grecia e della Turchia o lungo i confini, dove il movimento si ferma per forza perché bisogna appunto riorganizzarsi per passare ed evitare i controlli.

Analizzando la “rotta balcanica” sotto la lente della geografia dei flussi, il primo passo è capire quali sono le principali rotte informali, come si strutturano, come funzionano, come vengono concepite, spazializzate e riprodotte dagli stessi migranti. La rotta a un certo punto, come abbiamo detto, può anche cambiare strada, cercare altre vie e per tanti motivi. Ad esempio semplicemente per questioni stagionali: a causa del meteo o dell’inverno, i monti non sono facilmente accessibili e si va dunque nelle valli o su vie più pianeggianti. Possono anche cambiare i regimi di controllo dei migranti e dei confini. L’esempio della Croazia è emblematico, perché essa è stata a lungo un Paese che impiegava metodi molto brutali nel fermare le persone al confine. A un certo punto però, questo atteggiamento cambia totalmente, forse per pressioni internazionali, forse per decisioni politiche interne. I croati – che fino a un giorno prima rispedivano indietro i migranti senza troppe remore, li picchiavano o sequestravano loro il telefonino (strumento fondamentale per le persone in movimento) – tutto a un tratto si limitano semplicemente a dare a ogni migrante un foglio in cui è scritto sostanzialmente che in 72 ore devono uscire dal territorio del Paese. Addirittura organizzano loro trasporti per accompagnarli alla prima stazione, che sia degli autobus o dei treni (notizie raccolte da vari migranti intervistati a Trieste).

Un altro caso studio interessante è la Bosnia Ercegovina, che fino al 2018 non era stata praticamente toccata dalla “rotta balcanica”, perché si riteneva che il percorso al suo interno fosse troppo lungo e articolato. Quando Orban erige il muro ai confini in Ungheria, la rotta cambia e devia il suo flusso verso la Bosnia, al cui interno trova nuovi campi, nuovi passaggi, nuovi percorsi.

Tutto questo ha creato nel tempo, anche qui una serie di strutture più o meno fisse dalle quali prende forma una vera e propria controgeografia, come si accennava sopra. Una controgeografia della rotta che deriva da varie forme di detenzione mobile (forzata o spontanea che sia)  in cui le persone entrano nella rete dei campi formali e governativi, nelle cosiddette jungles con il rischio di non uscirne più, venendo spostate da un luogo all’altro fino a trovarsi in una sorta di circolarità infinita, in cui spesso subiscono le azioni dei governi dei vari Paesi interessati, tesi unicamente o quasi a scaricare gli uni sugli altri la gestione dei migranti.

Questi nodi di mobilità e immobilità si ripetono e si perpetuano nel tempo: ci sono accelerazioni, ci sono rallentamenti, ci sono lunghi periodi di attesa; si aspetta che il governo dia alcune indicazioni o apra in qualche maniera i confini o fornisca qualche documento che possa sbloccare la situazione. Nel lungo periodo ciò ha generato anche uno spazio di attesa, una cosiddetta buffer zone, una zona in cui per lungo tempo i migranti stanno fermi o si muovono all’interno in modo irregolare, non ben definito, informale.

S’è detto dei governi ed in effetti la dimensione è evidentemente anche geopolitica, non più solo locale o regionale, ma globale, con l’Europa che dichiara apertamente di voler spostare oltre i confini di Schengen la gestione dell’immigrazione, finanziando alcuni Paesi per costruire dei campi di raccolta e adeguare i loro sistemi affinché i migranti possano chiedere lì asilo.

Qual è il ruolo di Trieste come città di confine e di frontiera nel nuovo scenario delle migrazioni contemporanee? Cosa si intende per modello Trieste nel sistema di accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo, che sono i nuovi migranti forzati?

Abbiamo visto spesso nelle nostre analisi e nei nostri studi come anche le città riflettono e subiscono la dimensione spaziale del fenomeno, con una sorta di costruzione e ricostruzione delle aree cittadine (piazze, stazioni, ecc.) da parte della comunità delle persone in movimento. A Trieste piazza Libertà è stata ribattezzata “Piazza del Mondo”; a Belgrado, il Park Luka Ćelović è diventato luogo di rifugio per i migranti ed è per questo stato ribattezzato “Afghan Park”, cioè parco Afghanistan, ma potremmo ricordarne molte altre di queste situazioni.

In questo scenario, Trieste è particolarmente importante sia per la sua dimensione storica (l’esodo italiano dopo la Seconda guerra mondiale, i profughi delle guerre jugoslave, la rotta balcanica nel 2014-2015, i richiedenti asilo ucraini dopo l’invasione russa), sia da un punto di vista geografico (è la porta d’entrata della via di terra verso l’Occidente). La città è ovviamente una zona di transito per gran parte dei migranti, ma anche un punto d’arrivo della “rotta balcanica” sia per coloro che vogliono restare, sia per i cosiddetti backflows (flussi di ritorni), cioè coloro che non avendo ricevuto nessuna protezione in altri paesi europei, decidono di tornare a Trieste perché qui le possibilità di entrare nelle procedure per la richiesta di protezione sono più facili o forse semplicemente vedono qui una dimensione più accogliente per la loro condizione di profuganza.

Parlando con i migranti, spesso li si sente definire la loro esperienza migratoria come il “game”, intendendo ovviamente la metafora di un gioco tragico. Ecco, Trieste viene considerata da tutti, non la fine della rotta – perché molti proseguono per altre destinazioni – ma piuttosto la fine del “game”, perché qui trovano in qualche maniera uno spazio di tranquillità, un “porto sicuro”, la fine dei pericoli e delle difficoltà incontrate nei Balcani. Ma purtroppo qui cominciano, per loro altre problematiche, che ben conosciamo…

Un’ultima cosa sul cosiddetto “modello Trieste” di cui tanto si parla: un modello di accoglienza in cui non si costruiscono grandi strutture bensì si favorisce un’accoglienza diffusa, con una rete di piccoli appartamenti, case affittate dal mercato e collocate in vari posti lungo il tessuto urbano. Questo permette di non ghettizzare i migranti, evitare le concentrazioni per ridurre tensioni e problematiche sociali all’interno dello spazio urbano. Le ricadute positive sono numerose, sia da un punto di vista sociale che economico. I migranti non diventano un corpo estraneo emarginato, bensì una comunità che deve necessariamente integrarsi: ad esempio usare i mezzi pubblici per spostarsi; o fare acquisti non attraverso un’unica struttura che fornisce i servizi e i beni, ma nei negozi, esattamente come fanno tutte le altre persone che vivono in città.

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