Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi
Copertina del volume.
Mila Orlić
Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi
Viella, Roma, 2023, pp. 212.
Come affrontare una storia di confine? Con quali strumenti indagare gli intrecci e le intersezioni che si sviluppano in aree miste, post-imperiali, senza ricorrere a categorie interpretative inadatte a comprendere il carattere fluido e incerto delle aree di frontiera?
Il recente libro di Mila Orlić, Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi, è un notevole esempio di quanto possa essere fruttuoso l’utilizzo dei più recenti contributi storiografici elaborati per l’analisi delle zone di confine (borderlands) nel contesto di una specifica regione dell’Alto Adriatico. Il lavoro è nondimeno impegnativo in quanto, come viene ben delineato nel quarto e ultimo capitolo del testo, non deve confrontarsi soltanto con una parte di storiografia ancora oggi segnata da categorie etnocentriche, ma anche con una narrazione pubblica italiana che propone una rappresentazione del «confine orientale» appiattita sulla serie foibe-esodo letta in termini profondamente emotivi e contrappostivi.
Un approccio metodologico: storia sociale, historie croisée, indifferenza nazionale
Quale strada percorrere, allora, per comprendere in maniera adeguata una regione di confine, al di là della pubblicistica e delle storiografie riduttrici delle complesse esperienze della penisola istriana? Nell’introduzione, Orlić espone chiaramente gli approcci metodologici e le strumentazioni concettuali che sostengono le analisi dei capitoli successivi: da una parte, si combina la storia sociale a quella politica, al fine di cogliere «le sfumature di grigio che costituiscono il tessuto di fondo della vita sociale quotidiana»;[1] dall’altra, si propone il superamento non di una sola prospettiva nazionale, ma della visione nazionale tout court, attingendo ai nuovi risvolti metodologici tracciati dalla storia transnazionale, dalla histoire croisée, dalla global history. A livello epistemologico sono due gli strumenti concettuali che, operando in maniera sinergica nel testo, restituiscono la complessità dell’oggetto indagato: innanzitutto, le identità nazionali non sono da intendere come logica conseguenza di un’identità etnica o linguistica preesistente, ma piuttosto come «forme dinamiche e contingenti di identificazione all’interno delle più ampie pratiche della vita quotidiana»[2]. In contrasto, quindi, con le tesi degli storici «primordialisti», secondo cui le nazioni esistono da tempi immemoriali, ma anche, per alcuni elementi teleologici del loro discorso, coi cosiddetti «modernisti»,[3] l’approccio di Orlić presuppone che le comunità e i gruppi nazionali si producano in situazioni contingenti e che, soprattutto, possano anche non formarsi.[4]
Anzi, – e qui si introduce il secondo strumento concettuale – si dà il caso che ampie fasce di popolazione, in Istria come in altre regioni di confine,[5] siano rimaste «nazionalmente indifferenti» rispetto alle sollecitazioni delle élite nazionali. Ecco che il concetto di «indifferenza nazionale», così come è stato formulato da Tara Zahra nel saggio Imagined Noncomunities,[6] apre la strada alla fruttuosa ricerca che l’autrice ha compiuto avvalendosi di un’ampia messe di fonti, reperite in vari archivi statali e locali, da quelli istriani a quelli repubblicani di Zagabria fino a quelli federali di Belgrado, cui si aggiungono le fonti orali composte dalle interviste agli «esuli» durante i primi anni 2000. Il fatto che molti istriani risultassero indifferenti ai richiami della nazione ha permesso all’autrice di sviluppare il suo lavoro all’interno di una proficua dialettica tra processi di nazionalizzazione e resistenze da parte della società, mettendo in luce come
le appartenenze di individui e gruppi, di solito rappresentati come “italiani” e “slavi” (o “sloveni” e “croati”), erano in realtà multiple o fluide, quindi, mutevoli o manipolabili nel tempo […]. In questo senso non si può affermare che, alla fine della Seconda guerra mondiale, la società istriana fosse «divisa» in gruppi nazionali ben costituiti.[7]
Limiti e fallimenti dei processi di nation-building in Istria
Nei primi due capitoli, l’autrice indaga analiticamente le dinamiche di instaurazione dei poteri popolari in Istria. Al termine della guerra, il chiaro scopo del Partito comunista jugoslavo era quello di dare vita a uno Stato nuovo, federale e socialista, attuando una strategia politica che non si limitasse ai richiami rivoluzionari di classe, ma che integrasse il linguaggio della nazione nei termini di una emancipazione delle minoranze nazionali oppresse. Se, indubbiamente, tale strategia ebbe riscontri effettivi nell’immediato, grazie anche all’esasperazione della popolazione per i terribili mesi di occupazione nazista, già di fronte alle enormi difficoltà materiali del dopoguerra e alle prime iniziative del potere popolare sono rintracciabili diverse forme di opposizione.
La miseria e le distruzioni, il provvisorio assetto confinario che tagliava le zone interne dell’Istria dal mercato triestino, la riforma agraria, la riscossione delle tasse, la politica degli ammassi e, non da ultimo, il «lavoro volontario», produssero diverse forme di resistenza da parte della popolazione al nuovo progetto di nation-building jugoslavo. Le fonti lamentano episodi frequenti di evasori, anche tra gli appartenenti agli organi popolari locali, di «borsaneristi», di contadini che, piuttosto che sottostare alla politica degli ammassi, riducevano la produzione e la semina del terreno. Nel giro di pochi mesi, quindi, le masse contadine passarono dall’essere il privilegiato alleato politico del movimento di liberazione, a un atteggiamento di inerzia, se non addirittura ostilità, nei confronti dei nuovi poteri. I comunisti definivano tale atteggiamento come «apatia», significando, di fatto, una resistenza apolitica alle sollecitazioni del nuovo Stato, ben diffusa nelle campagne istriane. Sotto simili nomi, quindi, è possibile ravvisare una diffusa indifferenza al richiamo del progetto dei poteri jugoslavi nelle campagne istriane, immagine ben lontana dalle griglie interpretative di una certa storiografia che descrive l’instaurazione del potere jugoslavo nelle aree contese con l’Italia come una resa dei conti con l’elemento di lingua italiana.
Di estremo interesse, inoltre, è come Orlić legge, nel terzo capitolo, i dati del Censimento jugoslavo dell’Ottobre del 1945, il Cadastre National de l’Istre (d’aprés le Recensement du 1er Octobre 1945). Prodotto in un momento in cui le autorità jugoslave erano spinte a dimostrare, di fronte agli Alleati, l’appartenenza nazionale dell’Istria al nuovo Stato jugoslavo, il censimento cercava di semplificare le appartenenze nazionali per valorizzare la croaticità dell’Istria, assumendo come criterio non più la lingua d’uso, ma la lingua materna. Ben consapevoli, infatti, del diffuso plurilinguismo, le autorità popolari sollecitarono risposte in senso nazionale croato presupponendo una ovvia identificazione tra lingua materna e nazionalità. Ma i risultati, specie in alcune zone rurali, furono sorprendenti: in molti casi le persone rifiutarono di definirsi sul piano nazionale, mettendo in discussione quel plebiscito nazionale tanto atteso dalle nuove autorità jugoslave.
Creazione di una comunità immaginata: gli esuli
Con la firma del Trattato di pace del 1947, e con il passaggio della quasi totalità della penisola istriana allo Stato jugoslavo, si apre il capitolo delle opzioni. L’articolo 19 prevedeva che potesse optare per l’Italia chi ammettesse l’italiano come lingua d’uso. Coerentemente con l’approccio metodologico già sperimentato dall’autrice, la possibilità di optare per la cittadinanza italiana non viene letta come logica conseguenza di un’identità nazionale preesistente. In un’area di confine, caratterizzata da identificazioni molteplici e fluide, l’opzione per l’appartenenza italiana o jugoslava non risultava per niente scontata. Se è vero che alcuni nuclei di persone con forti convinzioni politico ideologiche o caratterizzati da una rivendicata identità nazionale non esitarono ad abbandonare le terre d’origine, in generale emerge un quadro ben più articolato e complesso, sia nel suo sviluppo temporale, sia per quanto riguarda le motivazioni che portarono le persone a scegliere per un’appartenenza o per l’altra. Il plurilinguismo, così radicato nella penisola, l’impossibilità di far coincidere senza residui l’appartenenza nazionale con quella linguistica, le tensioni prodotte dalla dialettica tra sforzi di nazionalizzazione e resistenze della società e, non da ultimo, le oggettive condizioni di vita, avviarono un complesso processo decisionale in relazione alla possibilità di abbandonare l’Istria che sarebbe riduttivo interpretare in maniera esclusiva come plebiscito per l’Italia. Le opzioni infatti offrivano uno strumento non solo per affermare le proprie convinzioni nazionali, ma anche e soprattutto per perseguire strategie di natura sociale ed economica in un contesto geopolitico bipolare.
L’attenzione ai processi, più che alle identità, conduce Orlić a vedere negli sviluppi decisionali occasionati dalle opzioni diversi percorsi di nazionalizzazione, in senso italiano, croato, jugoslavo o di indifferenza nazionale, che talvolta si producono entro le stesse famiglie.[8]
Nel quarto e ultimo capitolo del libro, in continuità coi processi descritti nel precedente, l’autrice segue dappresso il processo di costruzione di quella comunità immaginata dei profughi giuliano-dalmati, sostenuta e istituzionalizzata dall’Ufficio per le zone di confine (Uzc), fondata su due pilastri identitari: quello delle «vittime» e quello degli «esuli permanenti». In tal modo, un fenomeno molto complesso è stato progressivamente ridotto a un’unica esperienza, quella dell’esodo, interpretata a partire dalla sola categoria nazionale ed egemonizzata dal discorso vittimario, ormai quasi condizione indispensabile per legittimare qualsiasi verità pubblica.[9]
Spunti per una didattica della frontiera alto adriatica
Come scritto chiaramente nella prefazione alle Linee guida per la didattica della Frontiera adriatica (d’ora in poi Linee guida) dall’allora ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, il documento si pone come obiettivo di «superare le angustie delle storiografie nazionaliste e ideologizzate del Novecento e la disponibilità ad accogliere lo sguardo dell’altro».[10] Tale prospettiva metodologica, che rappresenta il corretto approccio a quella che, giustamente, viene nelle Linee guida definita «frontiera» adriatica per denotarne la complessità, non sempre trova nel prosieguo del documento una adeguata trattazione. I docenti che volessero effettivamente confrontarsi con una lettura che oltrepassi i paradigmi storiografici nazionali, non troverebbero molti spunti concreti né nel corpo del testo, dove anzi l’altro viene spesso definito genericamente «slavo», con una certa noncuranza verso i processi di nazionalizzazione del XX secolo,[11] né nella bibliografia.
Il testo di Mila Orlić rappresenta, da questo punto di vista, una lezione fondamentale per comprendere le vicende di una regione alto-adriatica a partire da un punto di vista non nazionale. Come affermato a chiare lettere nell’introduzione, si tratta di «superare non solo una particolare visione nazionale (italiana, croata, slovena o jugoslava che sia), ma la visione nazionale tout court della storia istriana».[12] Il lavoro offre infatti ai docenti numerosi spunti storiografici e materiali documentari per approfondire una didattica che sappia appropriarsi di quella sensibilità già dimostrata da molta letteratura, si pensi a Fulvio Tomizza e a Claudio Magris, o da analisi di carattere antropologico, come i lavori di Pamela Ballinger, capace di cogliere le identità plurime che convivono non solo nell’area, ma anche negli stessi individui, al di là di una univoca identificazione nazionale.
Tra i molti stimoli che il testo offre, ci sembra rilevante evidenziare come l’analisi del Cadastre da un punto di vista dei «nazionalmente indifferenti» aggiunga interessantissimi spunti per approfondimenti, già suggeriti dalle Linee guida,[13] circa l’uso dei dati dei censimenti linguistici asburgici, italiani e jugoslavi a fini didattici. Come sottolineato dal documento ministeriale, la questione è sicuramente complessa e richiede molteplici accortezze metodologiche e competenze statistiche; ciò nondimeno, è innegabile che le modalità, i metodi e le finalità con cui i censimenti venivano effettuati, gli effetti, talvolta imprevisti,[14] delle classificazioni etnolinguistiche da essi prodotte e, non da ultimo, le stesse resistenze alle richieste di nazionalizzazione, offrono rilevanti spunti per lavori, anche di stampo laboratoriale, da condurre in classe.
Un altro punto di estremo interesse didattico è quello relativo alla trattazione dell’«esodo» dei giuliano-dalmati senza assumere staticamente delle preesistenti lealtà nazionali o identitarie immuni ai processi di migrazione. Come si è visto, le opzioni e l’inserimento in Italia degli «esuli» hanno avuto degli effetti di nazionalizzazione importanti ma non sempre lineari. Ciò permette di condurre interessanti accostamenti con l’enorme massa di profughi dell’Europa centro-orientale nel secondo dopoguerra i quali, sollecitati dalle strutture organizzative create dagli Alleati, intrapresero spesso inediti percorsi di identificazione su base nazionale.[15] Cogliere perciò gli effetti delle migrazioni sugli individui, piuttosto che partire dal presupposto che i «migranti» siano caratterizzati da una sorta di monodimensionalità identitaria, può essere un buon approccio analitico per accostare in sede didattica fenomeni migratori di un tempo con quelli di oggi, cui spesso appartengono le storie familiari di molte nostre studentesse e studenti.
Note:
[1] M. Orlić, Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi, Viella, Roma 2023, p. 10
[2] Orlić, 2023, p. 11.
[3] Nel paradigma “modernista” di Ernst Gellner e, soprattutto, di Eugen Weber, le nazioni emergono come conseguenza di vari processi associati alla modernizzazione, nei confronti delle quali ogni tipo di indifferenza o resistenza viene inteso come una specie di reliquia del passato destinata ad essere spazzata via dalle forze della modernizzazione e dei processi di nation-building ad essi connessi. Cfr., per un inquadramento generale, F. Zantedeschi, Nazioni e nazionalismo in Europa, in «Passato e presente» a. XXV (2007), n. 70.
[4] Cfr. R. Brubacker, Ethnicity without Groups, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2004
[5] Cfr. gli studi presenti nel volume M. Van Ginderachter e J. Fox (a cura di), National indifference and the history of nationalism in modern Europe, Routledge, London 2019.
[6] T. Zahra, Imagined noncommunities: national indifference as category of analysis, Slavic Review, n. 1, 2010.
[7] Orlić, 2023, p. 12.
[8] Vedi il caso della famiglia di Karlo Saina, in Orlić 2023, pagg. 154-155.
[9] Su questi temi cfr. G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011, in particolare l’Epilogo.
[10] Linee Guida per la didattica della Frontiera Adriatica, pag. 7, consultabile sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito: https://www.miur.gov.it/-/linee-guida-per-la-didattica-della-frontiera-adriatica
[11] Š. Čok, Tra utilità e criticità: riflessione sulle linee guida per la didattica della Frontiera adriatica, in “Novecento.org”, n.18, dicembre 2022.
[12] Orlić, 2023, p. 10.
[13] Linee guida, pag. 53.
[14] Cfr. R. Stergar, T. Scheer, Ethnic boxes: the unintended consequences of Habsbourg bureaucratic classification, Nationalities Paper, 4, 2018.
[15] Cfr Zahra, 2010, pp. 116-118 e S. Salvatici, Le displaced persons, un nuovo soggetto collettivo, in G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008.