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Leningrado. Memorie di un assedio

Leningrado. Memorie di un assedio

Alcune donne alla fine dell’assedio. La scritta che si presume stia per essere cancellata significa: “Cittadini! Questo lato della strada è più pericoloso durante gli attacchi dell’artiglieria”
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Lidija Ginzburg
A cura di Francesca Gori
Leningrado. Memorie di un assedio
Guerini editore, Milano, 2019.

Edito nella collana «Narrare la memoria»[1], Memorie di un assedio si inscrive nell’attività di Memorial-Italia, impegnata a sollecitare la riflessione pubblica sui temi della violenza, del totalitarismo e dei regimi illiberali con la promozione di convegni, seminari e mostre; con la raccolta di documentazione e memorie e con la pubblicazione di studi di storia e di letteratura.

Le pagine di Lidija Ginzburg raccontano una delle vicende più drammatiche del Novecento: l’assedio di Leningrado da parte delle truppe tedesche, durato 900 giorni, dal settembre 1941 al gennaio 1944. La città aveva tre milioni e mezzo di abitanti: per la fame e per il freddo ne morirono circa un milione, anche se questa cifra non è accertata, e forse lo è per difetto. Questi gli antefatti: Iosif Stalin e i dirigenti sovietici avevano gravemente sottovalutato i chiari segni delle intenzioni aggressive dei tedeschi che, nel corso dell’«operazione Barbarossa», in poche settimane riuscirono a impadronirsi delle ex repubbliche baltiche, della Bielorussia, dell’Ucraina e di quasi tutta la Crimea. Leningrado, ove restava ancora la maggioranza della popolazione civile, con un numero elevato di bambini che non si era fatto in tempo a evacuare, fu circondata e subì il primo disastroso bombardamento agli inizi del settembre 1941.

Lidija Ginzburg, nata a Odessa nel 1902 da una famiglia ebraica, si era trasferita nel 1922 in quella città allora chiamata Pietrogrado, e in seguito intitolata a Lenin, ove trascorse il resto della sua intensa esistenza fino alla morte, nel 1990. Scrittrice e autrice di lavori di critica letteraria improntati dal cosiddetto formalismo di seconda generazione, riuscì a sopravvivere durante l’assedio grazie a un modesto impiego nel Comitato della radio di Leningrado, il mezzo di comunicazione al quale la popolazione si aggrappava per avere informazioni, l’unico legame che aveva con il resto del paese. Da quella stazione radiofonica, presso la quale era stata assunta come speaker e redattrice, la poetessa Olga Berggol’c, leggendo in alcune trasmissioni brani delle sue composizioni sul blocco dell’assedio, aveva lanciato messaggi di incoraggiamento a resistere: «Sopporta, non cedere, mia terra, resisti mio esercito perché io voglio vivere, perché tu riuscirai a vivere malgrado tutto il sangue versato»[2]. E ancora, proprio agli inizi dell’assedio, Šostakovič aveva informato di aver composto i primi movimenti della sua settima sinfonia ed esortato i suoi amici e colleghi musicisti a «difendere la musica».

La Ginzburg non racconta in prima persona, ma in via mediata, tramite un alter ego maschile, che chiama genericamente N – anch’egli impiegato in quel Comitato della radio di cui facevano parte scrittori, poeti, attori e personalità di spicco del mondo intellettuale leningradese – che non era stato arruolato né nell’esercito, né nella milizia, perché riformato a causa della sua miopia.

Il libro è un’intensa e drammatica testimonianza dell’intima sofferenza dell’uomo nella condizione dell’assedio, inscindibile dalla corale sofferenza di un popolo. Come scrive Francesca Gori nelle pagine introduttive, Ginzburg racconta la resistenza e la forza vitale dell’individuo che lotta quotidianamente per preservare il diritto a esistere, la propria dignità, la libertà di pensiero e che, malgrado le condizioni di estrema degradazione, sente al tempo stesso di essere parte di una «causa comune». Un tema, questo, al centro della visione della storia di Tolstoj e che trova la sua massima espressione in Guerra e pace. E il libro si apre proprio con un richiamo al senso della grande epopea tolstojana, ricordando come in quegli anni terribili chi aveva ancora la forza sufficiente leggeva avidamente Guerra e pace:

Tolstoj aveva detto una parola definitiva riguardo al coraggio, a chi partecipa alla causa comune della guerra di un popolo. […] Gli abitanti di Leningrado assediata lavoravano (fin che potevano) e salvavano, se potevano, se stessi e i propri cari dalla morte per fame. E in fin dei conti questo era anche essenziale alle sorti della guerra perché la città continuava a vivere e sbarrava la strada al nemico che avrebbe voluto annientarla[3].

Questo volume non si ascrive facilmente a un genere: il termine Memorie, a prima vista, potrebbe indurre a collocarlo nel filone delle «scritture di sé», nell’ambito di quelle che gli storici e gli studiosi di letteratura definiscono «fonti autonarrative», «forme primarie di scrittura». In realtà Lidija Ginzburg, come si è detto, evita qualsiasi riferimento immediato a se stessa; alla voce narrante dell’anonimo N., nella seconda parte del volume, se ne alternano molte altre che si intrecciano nelle conversazioni nei luoghi di lavoro – e nella fattispecie nella redazione di radio Leningrado – nelle mense, nelle code per procurarsi le razioni di cibo, nei rifugi antiaerei. Pur banali, le conversazioni sui temi della quotidianità erano una forma di autoaffermazione in cui si alimentava l’utile illusione di un graduale ripristino della normalità, anche se l’orrore riaffiorava spesso nel corso del chiacchiericcio apparentemente più disinvolto e il tema dell’assedio era sempre presente, apertamente o implicitamente, come un polo magnetico da cui non ci si poteva allontanare. Le conversazioni comunque proseguivano anche quando nelle immediate vicinanze esplodevano cariche di artiglieria, e questo stava a significare che la reiterazione ossessiva delle situazioni riusciva ad atrofizzare a poco a poco l’impulso della paura: «nella Leningrado assediata, vedevamo di tutto, ma quasi mai la paura»[4].

Le Memorie della Ginzburg sono al tempo stesso un saggio letterario e uno studio antropologico e filosofico, dove si intrecciano due registri di scrittura: in una cifra di crudo realismo, ma senza indulgere al pietismo o sentimentalismo, si descrive lo sfinimento della popolazione, nel quale domina prima di tutto – e  al di sopra di tutto – l’ossessione della fame, il cui assillo superava quello del freddo. Il gelo – la fase più terribile fu registrata nell’inverno ’41-’42, definita dai leningradesi il «tempo morto» – era una morsa da cui la popolazione cercava di difendersi, la notte, infilandosi in una sorta di «sacco, una specie di caverna che si era costruita con tutte le cose che era riuscita ad ammucchiarsi addosso», nelle case non di rado semidistrutte, ridotte a scheletri, ove le finestre erano  sigillate con strisce di carta adesiva, o coperte con assi.  La fame scavava i corpi, riduceva la «pelle come un sacco sporco, troppo grande per il suo contenuto», «l’anima trascinava con sé il corpo»[5].

L’altra cifra della scrittura è la penetrante sottigliezza con cui è analizzata la psicologia dell’assediato, accerchiato dal nemico, confinato nel perimetro degli elementari, lenti e comunque estenuanti movimenti per la sopravvivenza, fiaccato dall’astenia del fisico e dello spirito, particolare malattia della volontà tipica degli assediati. Il motivo del cerchio ritorna ossessivamente nel libro: come simbolo della città stretta nell’assedio del nemico e nella morsa del gelo, della delimitazione dello spazio ristretto entro il quale erano costretti a muoversi gli abitanti allo stremo delle forze e, ancora, delle evanescenti conversazioni che finivano per amplificare un vuoto che invece avrebbero inteso colmare. Scrive Ginzburg:

Il cerchio è il simbolo dell’assedio di una coscienza chiusa in se stessa. Come spezzarlo? […] Chi scrive, che lo voglia o no, entra in dialogo con il mondo esterno. E anche quando chi ha scritto muore, ciò che è stato scritto rimane, senza bisogno di autorizzazioni. […] Scrivere del cerchio è spezzare il cerchio: bene o male è sempre un’azione. Nell’abisso del tempo perduto, qualche cosa è stato trovato[6].

Anche per lei, dunque, la scrittura ha avuto un significato catartico ed è stata un antidoto all’angoscia di un’epoca. Guardata con sospetto dalle autorità sovietiche, Lidija Ginzburg riuscì a pubblicare queste Memorie solo verso la fine degli anni Ottanta, con l’avvento della perestrojka e lei stessa appuntò le fasi del prolungato lavoro di elaborazione e rifinitura dello scritto: 1942, 1962, 1983. Si è giustamente osservato che non è mai facile e indolore dare voce alla memoria quando si è mantenuto a lungo il silenzio; tuttavia, come aveva scritto Aleksandr Herzen, «chi è stato capace di sopravvivere, deve avere la forza di ricordare»[7]. La forza del ricordo è priva in queste pagine di ogni concessione a una retorica esaltazione dell’eroico sacrificio ed è intrisa invece di sofferta dignità. La memoria di quella che è stata una delle pagine più tragiche della Seconda guerra mondiale emerge con un’intensa carica emozionale e ci ammonisce a contrastare ogni forma, manifesta o mascherata, di rimozione e di oblio.

Questa pubblicazione può essere utile a scuola in quanto permette di lavorare per il superamento del «presentismo» esasperato nel quale oggi siamo sempre più immersi, in gran parte illusi che il diluvio di informazioni proveniente dalla rete sia sufficiente a fornirci gli strumenti per conoscere la realtà e per attrezzarci ad affrontare il futuro. Nell’attuale quadro della comunicazione, un vocìo frammentato e quasi sempre superficiale, se non strumentale, e una sovrapproduzione di immagini tendono molto spesso a restituirci del passato, individuale e collettivo, una visione più o meno fittizia o convenzionale. L’Italia di oggi sembra essere sempre più «un paese senza memoria», anche a causa di una «perversa diseducazione civica dall’alto» e, più in generale, della rottura della catena generazionale della sua conservazione e trasmissione nell’ambito delle famiglie[8].

È senza dubbio un impegno che la scuola può intestarsi quello di richiamare l’importanza delle pratiche memoriali e di impostare correttamente il metodo per distinguere «tra eventi e racconti, tra storia e memoria», considerando che «i racconti e le memorie sono essi stessi fatti storici» e che «le discrepanze e gli errori sono eventi loro stessi», legati ai contesti socio-culturali, politici, mediatici in cui le memorie si sono formate[9]. Numerose voci, invero, si sono levate a denunciare l’abbandono «non solo delle pratiche del passato ma del loro stesso ricordo», come, ad esempio, quella di Tony Judt, che a proposito delle rimozioni del Novecento ha sottolineato come «con troppa sicurezza e poca riflessione, ci siamo lasciati alle spalle il ventesimo secolo lanciandoci a testa bassa in quello successivo ammantato di mezze verità egoistiche: il trionfo dell’Occidente, la fine della Storia, l’avanzata ineluttabile della globalizzazione e il libero mercato», così che «un mondo da poco lasciato» sembra ormai irrimediabilmente avvolto in un velo di oblio[10].

 


Note:  

[1] Collana diretta da «Memorial-Italia», filiazione  dell’omonima associazione moscovita che dagli anni Ottanta si propone sia di conservare la memoria delle violazioni dei diritti umani, in particolare nell’Unione Sovietica, sia di difenderli nella odierna Russia post-sovietica.

[2] O. Berggol’c, Diario proibito. La verità nascosta sull’assedio di Leningrado, Marsilio, Venezia 2013.

[3] L. Ginzburg, Leningrado. Memorie di un assedio, traduzione e cura di Francesca Gori, Milano, Guerini e associati, 2019, p. 23.

[4] Ginzburg, 2019, p. 46.

[5] Ginzburg, 2019, pp. 29-30.

[6] Ginzburg, 2019, pp. 91-92.

[7] A. Herzen, Il passato e i pensieri, vol. I , 6, Einaudi-Gallimard, Torino 1996.

[8] S. Pivato, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza, Roma-Bari  2007.

[9] B. Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino, Venezia 2016, passim.

[10] T. Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 3,8.