Møllergata 19. Il diario di Petter Moen
Particolare della foto di copertina del volume in cui si notano due simboli della resistenza norvegese spesso associati: il monogramma del re Haakon VII e la V di Victory. Questi simboli erano disegnati clandestinamente ovunque possibile e spesso ostentati su anelli e spille.
Tutte le immagini sono state fornite dal Norges Hjemmefrontmuseum di Oslo che ringraziamo per la collaborazione.
Petter Moen
Møllergata 19
A cura di Maurizio Guerri
Traduzione di Bruno Berni
Quodlibet, Milano, 2019, pp. 208.
Resistenza civile, resistenza di civiltà. Il diario di Petter Moen
Nel cuore di Oslo, travolta dall’occupazione nazista (1940-1945), una via e un numero civico divengono tristemente famosi: Møllergata 19, sede delle carceri cittadine e del commissariato trasformati in quartier generale della Gestapo. Migliaia di cittadini norvegesi vedono qui materializzarsi i loro incubi peggiori: il carcere durissimo, l’isolamento totale e le inaudite sofferenze che fiaccano lo spirito e confondono la mente, gli improvvisi e interminabili interrogatori sotto tortura nella limitrofa Victoria Terrasse, ripetuti più e più volte, il doloroso transito prima dell’internamento in campi di concentramento e di sterminio, la morte.
Al termine della guerra un migliaio di fogli di carta igienica scura, pazientemente raccolti in mazzetti da cinque e ordinatamente avvolti come sigari in un sesto foglio numerato, emergono dalle condotte nel pavimento di due celle del carcere, nelle quali erano stati infilati dai fori delle prese d’aria. Non sono scritti a penna. Ogni parola, ogni lettera dell’alfabeto è pazientemente tracciata con una sequenza di piccoli fori praticati con un ferretto metallico. Ritorna così alla luce una delle testimonianze più intense e palpitanti della resistenza civile norvegese.
L’autore è Petter Moen, internato per sette mesi a Møllergata prima di perdere la vita nell’affondamento della nave che avrebbe dovuto deportarlo in Germania. Il suo “segreto” è rivelato al termine della guerra da uno dei prigionieri sopravvissuti al naufragio che ne consente così il recupero. Matematico di formazione e impiegato presso un’agenzia assicurativa, Moen partecipa fin dal 1940 al movimento della resistenza civile collaborando alla redazione di varie testate illegali. Fra queste, la più diffusa è il «London-Nytt», di cui Moen diventa direttore nel novembre 1943. Dal gennaio 1944 è responsabile del comitato di coordinamento di tutta la stampa antinazista norvegese.
Il diario, pazientemente ricomposto e trascritto, è pubblicato in Norvegia nel 1949 e in seguito tradotto in numerose lingue. Per la prima volta è oggi proposto al pubblico italiano con la traduzione di Bruno Berni, in un’accurata edizione curata e annotata da Maurizio Guerri (Quodlibet, Macerata, 2019, pp. 208). Con un linguaggio lucido ed essenziale, quanto chiaro e penetrante, l’autore descrive i fatti, i pensieri, le riflessioni, le speranze e il dolore dei suoi 214 giorni di prigionia, distinti in due momenti per registro e contenuti: il periodo dell’isolamento e i successivi mesi di condivisione della cella con altri prigionieri. Questo seconda parte lascia maggiore spazio alla quotidianità e al disagio della sopravvivenza, allentando un poco la tensione introspettiva dei primi mesi.
Le ultime 50 pagine della pubblicazione ospitano un significativo contributo del curatore; non una postfazione, ma un corposo saggio intitolato Scrittura ed etica nella resistenza. Il diario di Petter Moen, nel quale Maurizio Guerri traccia dapprima le coordinate storiche dell’invasione nazista della Norvegia e della risposta resistenziale. Poi, partendo dalle pagine del diario, ricostruisce possibili relazioni con altre opere di scrittura testimoniale, e soprattutto ne rintraccia gli ascendenti filosofici, letterari ed estetici, fornendo ai lettori – in particolare ai docenti che volessero utilizzarlo in chiave didattica – tutte i riferimenti necessari.
L’accanimento nazista nei confronti del prigioniero Moen non sarebbe compreso appieno senza il ruolo rivestito dalle circa trecento testate illegali prodotte dalla resistenza norvegese. La fortuna della stampa clandestina era esplosa in seguito alla requisizione degli apparecchi radiofonici per impedire che giungessero notizie sull’andamento della guerra e che Re Aakon VII e i membri del governo legittimo, in esilio a Londra, potessero tenere unita la popolazione e coordinarne la resistenza. Una resistenza che si era fin dall’inizio sviluppata con il sostegno di tutte le forze antinaziste norvegesi e si era incanalata nelle due organizzazioni parallele della resistenza armata e della resistenza civile. Quest’ultima si manifestava in modo diffuso nel cosiddetto Isfront, fronte di ghiaccio, un atteggiamento sia individuale che collettivo di orgogliosa ostilità. Un’opposizione particolarmente determinata messa in atto anche dal mondo della scuola che rifiutava le direttive di nazistizzazione dell’istruzione e che sarebbe costata migliaia di arresti e di deportazioni senza uscirne piegata.
Nel febbraio del 1944, con il Pressekrakket (crollo della stampa) i nazisti colpiscono duramente gli ambienti dell’informazione clandestina interrompendo la diffusione di molte testate. Anche Petter Moen è catturato il 3 febbraio e condotto alla Victoria Terrasse dove, in un clima di terrore fisico e psicologico, subisce interrogatori e torture prima di essere rinchiuso nel vicino carcere della Møllergata 19. L’isolamento sarà assoluto fino al 21 aprile, poi Moen sarà spostato in una seconda cella che dovrà condividere con criminali comuni. Rinchiuso da solo in uno spazio minuscolo completamente oscurato, il prigioniero soffre il freddo, la fame, lo scherno dei carcerieri, vive gli incubi della notte e il terrore del giorno, che trascorre spesso nell’angosciosa attesa di altri interrogatori. È vietato ogni gesto che rammenti le più semplici e quotidiane attività della vita libera, comprese la lettura e la scrittura. E proprio quest’ultima diventa per il prigioniero l’unica via, sofferta e tortuosa, che lo porta a instaurare un nuovo dialogo con se stesso, a scavare nella profondità della propria coscienza fino alle domande più dolorose. Sono gli spazi profondi in cui Moen «costituisce lo spazio di ri-creazione» della propria esistenza, «l’iscrizione del percorso di riconquista di sé nell’attimo della massima espropriazione»,[1] come spiega Maurizio Guerri nel fondamentale saggio che chiude il volume.
A partire dalla ricerca, inizialmente spasmodica, della fede che aveva sostenuto le certezze e il percorso di vita dei suoi genitori, Moen si interroga sul proprio bisogno di credere. Ma è con lucida consapevolezza che rifiuta una facile via consolatoria, per cercare un’impossibile esperienza di fede che appaghi anche la razionalità del suo pensiero, perché «non voglio ingannarmi a credere perché ho bisogno di credere. Non c’è alcun “errore” nella fede che nasce dall’angoscia – ma deve sbocciare almeno con la stessa forza di un pensiero convincente».[2]
Nella scrittura perforata di Moen sfilano i momenti cruciali della sua vita: le scelte, i comportamenti, le relazioni affettive messe di fronte alle responsabilità che ha saputo o non saputo assumersi, come l’amore per la moglie Bergliot[3], affettuosamente chiamata ‘Bella’, arrestata con lui e inviata al campo di concentramento di Grini, e nei confronti della quale il rimorso è pungente. Un rimorso che lo sferza anche per i compagni traditi sotto tortura:
Mi hanno fatto due interrogatori. Mi hanno frustato. Ho tradito Vic. Sono debole. Merito disprezzo. […] Ah Dio, quanto mi pento di avere tradito Victor e Erik. Non mi perdonerò mai. Eppure sotto tortura lo rifarei. Questo è l’inferno.[4]
O ancora per la presunzione di avere accettato un incarico di grande responsabilità per il quale forse non era all’altezza:
[…] Per vanità e ambizione ho chiesto una posizione per cui non ero adatto e che ha portato molti alla sventura. Terribile!!!! […] Non riesco a sopportare la mia colpa. Avrei dovuto essere più cauto con la sicurezza degli altri. Per la mia indolenza e la mia debolezza molti devono soffrire e la stampa libera in Norvegia è distrutta. Ah compagni – merito il vostro disprezzo. Il frutto della vita è amaro.[5]
Il diario di Moen appartiene al ristretto numero di testimonianze scritte direttamente dal carcere, dove anche il semplice atto della scrittura, per la sfida quotidiana che comporta, diviene resistenza. Rappresenta il bisogno e l’urgenza del suo autore di tenere saldo il filo dell’esistenza, di resistere all’annientamento del sé, come risposta etica individuale che assume un valore universale, laddove una moltitudine di singoli lotta per lo stesso ideale di libertà. «Attraverso la scrittura il singolo ha potuto decidere, prendere posizione nella storia, resistere al proprio annientamento, anche quando, come nel caso di Moen, sia risultato individualmente sconfitto».[6] Ma il suo sgorgare dall’interno della tragedia non separa sostanzialmente questa forma di scrittura da altre fondamentali testimonianze composte in momenti successivi alla detenzione, facendone una composizione secondaria sul piano letterario. Come ci spiega Guerri citando Ernst Jünger:
Forse un giorno si riconoscerà che la parte più potente della nostra letteratura è proprio quella non scaturita da intenti letterari […]. Si dovrà riconoscere che nel suo de profundis l’uomo ha toccato abissi che arrivano alle fondamenta stesse dell’essere e incrinano la tirannia del dubbio. Qui egli perde la paura.[7]
E, nella stessa citazione di Jünger qualche riga più avanti, si avanzerà l’ipotesi che proprio negli appunti di Moen si sostanzi questo atteggiamento e che l’autore possa «essere considerato il discendente spirituale di Kierkegaard»,[8] secondo cui: «chi vive eticamente esprime nella sua vita l’universale, diviene uomo universale».[9] Secondo Jünger, le persecuzioni del Novecento costituiscono:
il punto di svolta per l’esistenza e la letteratura: i resoconti, gli epistolari i diari nati nel corso dei massacri e delle persecuzioni nazifasciste son ciò che rimane della libertà umana, sotto la pressione del terrore assurto a normalità. Questa libertà si fonda sulla decisione di resistere al nulla, di contrapporsi al male, di opporsi attivamente al dolore[10]. […] Nel dialogo con se stesso, [Moen] pratica il proprio essere soggetto etico e politico e traccia il confine tra libertà e terrore, tra giustizia e oppressione[11].
Si concentrano, dunque in questo volume, alcuni dei grandi interrogativi del Novecento, le voci della filosofia, della letteratura, della storia, della religione, della cultura occidentale contemporanea nel suo complesso. E quante opportunità didattiche in questa intensa testimonianza: per un approccio transdisciplinare alla storia e per uno sguardo ampio, che varca i confini nazionali in una ricerca di senso che attraversa le resistenze europee. Possono scaturirne progetti coordinati fra docenti di varie discipline, o laboratori per il confronto di testimonianze da paesi diversi e molto altro ancora, secondo la sensibilità di ciascuno e le domande che il diario di Moen è in grado di suscitare.
Temi e suggestioni che trovano una lucida analisi nel saggio finale, nel quale Guerri non si limita a indicare puntualmente le coordinate storiche degli eventi, ma rintraccia i fili che tessono la trama culturale del diario, risale alle loro matrici e le riconnette in forma critica. Prepara, così, il passo interpretativo successivo nel quale l’opera è assai più di una testimonianza della resistenza civile al nazismo e diviene un baluardo contro ogni possibile forma di violenza, sopraffazione, aggressività, volgarità, misoginia, mancanza di pietas che caratterizza un folto sottobosco di figure che si muovono negli interstizi della storia, trovando in piccole azioni meschine il proprio momento di gloria:
Uomini grandi, potenti, con berretti e cordini e nastri colorati qui e là che […] si comportano in maniera terribile per delle cose piccolissime che gonfiano fino a farle diventare ‘questioni di stato’. È tutto completamente ridicolo e sullo sfondo di morti in massa e distruzioni sembra folle preoccuparsi di una scheggia di legno quando interi regni vengono annientati – perché la vanità è legata alla scheggia di legno – è veramente umano – e disprezzabile.[12]
Tutte le immagini sono state fornite dal Norges Hjemmefrontmuseum di Oslo che ringraziamo per la collaborazione.
Note:
[1] M. Guerri, Scrittura ed etica nella resistenza. Il diario di Petter Moen, in P. Moen, Møllergata 19, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 194.
[2] P. Moen, Møllergata 19, a cura di M. Guerri, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 31.
[3] P. Moen, 2019, p. 11, nota 3.
[4] P. Moen, 2019, pp. 11-13.
[5] P. Moen, 2019, pp. 15-16.
[6] M. Guerri, 2019, p. 195.
[7] E. Jünger, Il trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 1990, p. 85 (trad. it. modificata in M. Guerri, p. 183).
[8] M. Guerri, 2019, p. 183.
[9] M. Guerri, 2019, p. 183 (cit. da S. Kierkegaard, Aut-aut, a cura di R. Cantoni, Mondadori, Milano 2016, p. 123).
[10] M. Guerri, 2019, pp. 183-184.
[11] M. Guerri, 2019, p. 194.
[12] P. Moen, 2019, p. 107.