«Resistere». Trincea e prigionia nell’archivio Barberio
Una delle prime trincee scavate nell’argine destro del Piave nell’ottobre – novembre 1917
Pubblico dominio, Collegamento
Giuseppe Ferraro
«Resistere». Trincea e prigionia nell’archivio Barberio. Con le biografie dei prigionieri di Dunaszerdahely in Ungheria
Pellegrini editore, 2018
Per i soldati, per gli ufficiali, per tutti i combattenti, scrivere, mettere ordine nei pensieri, lasciare traccia di sé voleva dire sfuggire, sia pure momentaneamente, agli orrori della guerra, significava sopravvivere, reagire, in una parola “resistere” a un’esperienza esistenziale inimmaginabile e dirompente.
Diari, memorie, lettere, annotazioni autobiografiche hanno rappresentato negli ultimi decenni, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso con una significativa ripresa nella stagione del centenario, le testimonianze più suggestive per afferrare, attraverso il racconto personale dei molti protagonisti, la complessità di un evento che ha prodotto una “lunga e traumatica” cesura. Questi documents of life offrono una cifra interpretativa privilegiata per ricomporre percorsi di vita, vissuti, emozioni e percezioni che, in una lettura più complessiva, divengono espressione di un sentire comune che può restituire – come ribadisce Antonio Gibelli nella Prefazione al volume di Ferraro – «la coralità, gli elementi comuni e insieme le difformità, le articolazioni territoriali, sociali, culturali di quell’esperienza collettiva di inedita portata che la prima guerra mondiale era stata» (p. 11).
Nel volume l’autore, che negli ultimi anni ha dedicato molti lavori al tema del primo conflitto mondiale, ripercorre le vicende del calabrese Bernardo Barberio, esponente di una famiglia della borghesia agraria meridionale, capitano di complemento del 142° Regimento fanteria, mobilitato sul fronte di guerra tra il 1915 e il 1916 quando, durante il duro scontro sul Monte Cengio, cade in mano agli Austriaci. Da questo momento inizia per Barberio l’esperienza della prigionia prima nel campo di Sigmundsherberg in Austria e successivamente in quello ungherese di Dunaszerdahely, dove rimane fino all’armistizio.
Il ricordo del vissuto bellico è affidato da Barberio alle pagine di due diari (redatti il primo tra il 1915 e il 1916 e il secondo tra l’agosto e il novembre del 1918) attualmente conservati, insieme a numerose altre testimonianze, nell’Archivio privato di famiglia, fortunatamente conservato e reso accessibile dagli eredi. I diari divengono per Ferraro la fonte principale, valorizzata dall’incrocio con altre documentazioni pubbliche e private (italiane e austro-ungariche), per proporre una lettura della Grande guerra in più direzioni.
Certamente sul piano del dibattito storiografico, l’attento lavoro di ricerca, che si inserisce nel prolifico filone di studi sulla memorialistica di guerre e sulla storia “dal basso”, contribuisce a dare visibilità, fuori dall’anonimato delle cifre e delle statistiche, alla «gente comune» coinvolta in «un evento fuori dal comune» (come scrive ancora Gibelli), aprendo peraltro nuovi spaccati di conoscenza sulle provenienze territoriali dei combattenti, in particolare dal Mezzogiorno e in questo caso dalla Calabria. Il volume si spinge oltre gli steccati del discorso accademico. La sua “plus-valenza”, avvalorata dalla trascrizione in appendice dei due diari, da un interessante apparato iconografico e dalle brevi biografie dei prigionieri del campo di Dunaszerdahely (tra le quali quelle inedite di molti soldati calabresi), va rintracciata – per cifra narrativa, struttura, fruibilità – nelle potenzialità didattiche. Muovendosi tra rigore scientifico e finalità divulgative, l’opera offre la possibilità di attrarre, coinvolgere, interessare le generazioni più giovani, superando il canone contenutistico-nozionistico delle date e delle battaglie. Già scorrendo i titoli, sintetici ed efficaci, dei singoli paragrafi si colgono le linee-guide di un itinerario di studio mediante il quale si possono ripercorrere i molti “tragitti” della guerra, spesso ignorati o appena accennati nei manuali scolastici. L’opportunità per gli studenti è quella di cogliere dall’interno la drammaticità dell’evento; di familiarizzare con il linguaggio, le suggestioni, le stesse emozioni sollecitate dalla lettura; di confrontarsi con riflessioni e commenti; di partecipare attivamente all’elaborazione di un processo didattico funzionale a trasmettere un passato percepito come più vicino, più intimo, più umano.
Il primo diario si apre, secondo un incipit ricorrente in molte documentazioni diaristiche, con la partenza per il fronte, che rappresenta il momento del distacco dagli affetti, dalla propria terra, dalle cadenze della quotidianità. Segue poi il viaggio, l’arrivo nelle zone a ridosso del fronte bellico e successivamente sul campo di battaglia, dove avviene il primo impressionante impatto (psicologico ed emotivo) con la modernità del conflitto, tra luci accecanti, rumori assordanti, esplosioni e bombardamenti.
L’aspetto della guerra più raccontato, anche nei manuali, è sicuramente la vita in trincea. Anche qui nelle pagine di Barberio si dà spazio alla precarietà dell’esistenza nella trincea, rappresentata come «un sepolcro, buia, fetida, immonda, piena d’acqua sporca» (p. 47), dove i soldati condividono sofferenze, privazioni, ristrettezze fisiche e psicologiche, arrivando a perdere gradualmente, attraverso lo stravolgimento dei tratti somatici «per l’esaurimento enorme, le barbe lunghe, i vestiti sporchi» (p. 52), la propria identità. Solo il suggestivo paesaggio della pianura friulana incorniciata dalla Alpi «invita a vivere», diffondendo «nell’aria un desiderio di pace» (p. 58).
Con il secondo diario inizia il racconto della prigionia a Dunaszerdahely. Il tema della prigionia, per lo più assente nei libri di testo, svela alcuni aspetti meno noti della guerra, che possono risultare funzionali a progetti formativi di tipo laboratoriale.
Alcuni elementi di approfondimento possono riguardare la geografia dei campi; la sperimentazione della prigionia di massa; la valenza dell’incontro tra soldati di varie nazionalità; altri i frammenti della vita nel campo, scandita da «appelli, pasti in comune, il bagno, il lavaggio e la cucitura della biancheria, le passeggiate» (p. 68), a cui si alternano attività sportive, concerti musicali, concorsi letterari e artistici, iniziative editoriali (come la redazione del settimanale «L’Attesa» e del gazzettino «Wonbaraccopoli»). Non solo. Si può lavorare ancora su quella che Ferraro chiama «la quotidianità della fame», andando a indagare, partendo dalle note diaristiche e dalle liste dei cibi riprodotte nel libro, la questione cruciale dell’approvvigionamento alimentare durante il conflitto. Anche le brevi biografie riportate in appendice rappresentano materiale utile per avviare ricerche su itinerari esistenziali che si incrociano nella comune condivisione della tragicità della guerra.
A questo tipo di percorsi didattico-laboratoriali (suscettibili di altri spunti e arricchimenti) il volume di Ferraro offe un ulteriore contributo grazie alla proposta di un racconto per immagini (con fotografie e stampe conservate nell’archivio privato), che aiuta a leggere con più immediatezza contesti, ambienti e persino stati d’animo. Un’ultima annotazione rispetto all’apparato iconografico: nelle fotografie di gruppo che rappresentano i prigionieri intenti a sollevare pesi, a giocare a scacchi, a suonare, a lavorare nei laboratori non mi pare di scorgere mai neppure un accenno di sorriso.