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Partigiani presso gli stabilimenti Ercole Marelli

Fotografo non identificato, [Un gruppo di partigiani presso gli stabilimenti Ercole Marelli], Sesto San Giovanni, [fine aprile 1945] ca 4x5 cm; bordo frastagliato
Fondazione Isec, Sesto San Giovanni, Gruppo di studio sulla Resistenza, (https://fondazioneisec.it/media/pages/patrimonio/archivio/politico-sociali/gruppo-di-studio-sulla-resistenza-di-sesto-san-giovanni/2075091111-1551838799/inventario_gruppodistudio.pdf )

CONTESTO STORICO

Dopo cinque anni di guerra, che negli ultimi venti mesi si trasforma in guerra civile, «negli ultimi giorni dell’aprile 1945 convivono, nel clima di generale euforia, la fiducia e i dubbi nei confronti del prossimo futuro, i timori degli Alleati, del governo di Roma e dei partiti moderati che la situazione sfugga loro di mano e la spinta invece a compiere, finché si era in tempo, il massimo possibile di atti irreversibili».[1] È in questo clima di tensione e confusione che le città del Nord Italia vengono liberate dalle formazioni partigiane, con le stragi e i tentativi di distruzione dell’apparato logistico e produttivo che contrassegnano la ritirata nazista.

Tra il 21 aprile – quando truppe del Corpo italiano di liberazione (Cil) e il II Corpo polacco liberano Bologna – e il 2 maggio – quando le truppe neozelandesi entrano in Trieste già occupata dagli sloveni – si consuma l’ultimo atto della Resistenza. Torino, Milano e Venezia sono state raggiunte dagli Alleati il 30; quasi dovunque le formazioni partigiane e le formazioni territoriali (Sap e Gap) hanno già provveduto alla cacciata dei nazifascisti […].[2]

Nelle parole del rappresentante comunista del Comando piazza di Torino, Mario Mammucari, nome di battaglia Brandani, «[…] le masse sono l’elemento base dell’insurrezione».[3] Tanto più che «aprile rappresenta un continuum di mobilitazioni preinsurrezionali»[4] nell’Italia ancora occupata.

A questi movimenti e alla lotta insurrezionale danno un fondamentale contributo anche le donne, come ha provato a mettere in luce una lunga e feconda stagione di studi impegnata a superare «la pluridecennale inclinazione guerriera, “militante” e monosessuale della storiografia».[5] Si tratta di una partecipazione che assume forme variegate e che si dipana sulla lunga durata; già il 26 maggio del 1942, ed è solo un esempio tra i molti possibili, circa trecento donne a Sesto San Giovanni avevano manifestato la loro protesta contro le insostenibili condizioni di vita che avrebbe portato alcune di loro nelle carceri milanesi.
(https://old.fondazioneisec.it/allegati/news/scioperi_marzo_43_def.pdf). L’impegno continuerà, in diverse forme, nei mesi della Resistenza e nei giorni della liberazione.

L’IMMAGINE

La fotografia è stata scattata nei pressi dello stabilimento principale della Ercole Marelli a Sesto San Giovanni nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione. Ritrae un gruppo di giovani uomini e donne in posa, per lo più sorridenti, lo sguardo rivolto all’obiettivo. È confluita in un fondo di documenti appositamente raccolti per lo studio della Resistenza a tre decenni di distanza dai fatti e che hanno costituito il nucleo originario dell’archivio di Fondazione Isec.

Si è volutamente scelto di non lavorare su una delle raffigurazioni “iconiche” del racconto resistenziale ma di individuare un’immagine comune, simile a molte facilmente reperibili in archivi cittadini o anche familiari. Una fotografia apparentemente anodina e su cui abbiamo poche informazioni ma che, tuttavia, ci consente molteplici riflessioni e che può servire come traccia di lavoro.

Lo scatto è stato prodotto da una persona di cui non conosciamo l’identità ma che, con ogni probabilità, non è del mestiere. L’inquadratura sbilanciata e poco centrata ci fa pensare piuttosto a quel vasto gruppo di immagini resistenziali che il massimo studioso italiano dell’argomento, Adolfo Mignemi, definisce “fotografia spontanea”. Una tipologia di fotografie che si sono prodotte «casualmente in ragione della presenza di una macchina fotografica e di un fotografo, perlopiù dilettante». All’interno di questa documentazione, due sono le tipologie prevalenti, spiega sempre Mignemi, «la registrazione di eventi e il ritratto»; ritratto che, nella maggioranza dei casi, è un ritratto di gruppo a sottolineare una «effettiva partecipazione emotiva».[6]

La nostra immagine rientra, quindi, in questo vasto insieme di rappresentazioni che servono a documentare la propria partecipazione all’evento resistenziale e la condivisione con altre e altri di un tempo straordinario, letteralmente al di fuori dell’ordinario. La forte dimensione partecipativa della guerra resistenziale, come guerra per bande, è stata del resto sottolineata da molti storici come fenomeno caratterizzante di questa forma di conflitto.

Il gruppo è composto da quattro giovani uomini e tre giovani donne. Difficile dire quanto le proporzioni di genere rimandino a quelle effettive nelle forze partigiane, data la difficoltà di avere delle statistiche efficaci per un fenomeno fluido quale quello resistenziale. L’unica cifra ufficiale è quella delle 700.000 schede regionali per il riconoscimento della qualifica di partigiano confluite nel Ricompart attualmente in fase di studio (http://www.icar.beniculturali.it/index.php?id=355); cifra che, tuttavia, pone una serie di problemi ben individuati dalle studiose e dagli studiosi.[7]

Ad ogni modo, la fotografia, al di là di un impossibile valore statistico, ci restituisce correttamente la rappresentazione di una guerra a cui partecipano, in forme talvolta simili talvolta differenti, sia uomini che donne. E di giovane età. La generazione che partecipa alla guerra di liberazione è, principalmente, la generazione che è nata o ha vissuto la prima infanzia sotto il regime fascista.[8]

Altrettanto problematico, nonostante tentativi anche significativi in questo senso, è definire la composizione sociale delle partigiane e dei partigiani.[9]

Sicuramente la componente operaia, soprattutto in una regione come la Lombardia, e in particolare nella zone di Milano e Sesto San Giovanni fu consistente.[10] I protagonisti della fotografia sono, con ogni probabilità, in maggioranza operai e operaie della Marelli che, proprio nel teatro della propria lotta quotidiana si vogliono rappresentare. Alle loro spalle si intravede una bicicletta, strumento cruciale per la Resistenza, si pensi al ruolo delle staffette ma anche all’importanza fondamentale della bicicletta per i gappisti che dovevano spostarsi rapidamente in città, ma importantissima anche per operaie e operai che devono recarsi al lavoro, percorrendo anche lunghe distanze.[11]

Anche gli abiti delle persone fotografate non sono un aspetto secondario, ma ci consentono importanti riflessioni. Una delle donne indossa un grembiule nero da lavoro, a testimoniare la sua appartenenza alla classe operaia. Anche l’uomo al centro porta quella che potrebbe essere una tuta di fabbrica o una tuta da lavoro di ambito militare, decorata con un triangolo e una stella. La guerra di Resistenza è una guerra in cui i combattenti non sono soldati di un esercito regolare e dunque non è prevista una divisa. Tuttavia i partigiani insistono per il riconoscimento di combattenti a tutti gli effetti e la creazione di divise improvvisate, così come l’esibizione delle armi, rientra in questa logica. In questa fotografia sono evidenti alcune di queste strategie. La più semplice e ricorrente, sia maschile che femminile, è quella dei fazzoletti al collo, che possiamo supporre rossi. Anche in virtù della scritta sull’elmetto, altro elemento militare, che tiene in mano la donna sulla destra e su cui pare di poter leggere “Garibaldi […]”. Il secondo uomo da destra porta, invece, una fascia al braccio sinistro. Ci sono poi le armi: la pistola alla cintura dello stesso partigiano, mostrata con disinvoltura un po’ baldanzosa alla Tom Mix, e il fucile mitragliatore su cui appoggia la mano l’uomo al centro. La volontà di vedere riconosciuta a tutti gli effetti la propria partecipazione alle vicende resistenziali, inclusa l’assunzione dell’esercizio della violenza, è uno degli elementi che danno forma a questa immagine.

A questa esigenza di rappresentazione se ne contrappone tuttavia, durante la guerra, una, di segno uguale e contrario, di segretezza. Una delle caratteristiche della lotta partigiana è il lavoro in incognito. Questa è una delle ragioni per cui sono scarse, per non dire inesistenti, le immagini scattate in combattimento. La guerra per bande è una guerra in cui si vive nascosti, le azioni devono essere improvvise e imprevedibili, i nascondigli e le identità segrete, e gli scontri in campo aperto da evitare il più possibile. Non è un caso che le più famose immagini della Liberazione (i partigiani sui tetti di Milano o nelle calli di Venezia, per citarne alcune tra le più note) siano tutte ricostruzioni. L’azione partigiana, che avvenga in montagna o in città, tra le valli o nelle fabbriche, deve essere nascosta e anonima. Non può, quindi, essere rappresentata. Nonostante immagini dei combattenti circolino anche durante la guerra in ambienti protetti, esporre il proprio volto e la propria condizione di partigiano e i luoghi della clandestinità è un rischio che non ci si può permettere.

Mentre le guerre contemporanee ci hanno sempre più abituati a una profusione di immagini spettacolari scattate nel cuore degli scontri, secondo il noto detto attribuito a Robert Capa per cui: «se le tue fotografie non sono buone, significa che non sei abbastanza vicino», la fotografia resistenziale è una fotografia poco spettacolare, che non rappresenta il momento dello scontro, ma semmai quelli procedenti o successivi. Anche le belle immagini scattate dai pochi fotografi partigiani – si pensi a Luciano Giachetti, Giovanni Brasi, Felice de’ Cavero, Ettore Serafino – ritraggono una quotidianità quasi antieroica: il momento dei pasti, i giochi, i ritratti di gruppo, talvolta con la famiglia. Sono fotografie da cui è difficile, spesso impossibile, avere una percezione della pericolosità e della violenza dell’esistenza partigiana. Le scene con il più alto tasso di violenza espressa sono generalmente scattate dal nemico e sono immagini prodotte a conclusione degli scontri, create e diffuse con il duplice scopo di infierire ulteriormente sul «corpo del nemico ucciso»[12] e di terrorizzare la popolazione dei territori occupati.

Non sappiamo come l’immagine che abbiamo analizzato sia giunta negli archivi della Fondazione, molto probabilmente consegnata al gruppo di studiosi che dà vita al Gruppo di studio sulla resistenza da uno dei suoi protagonisti o dall’anonimo fotografo. Insieme a questo collegamento si sono persi nomi, date, storie che solo parzialmente, e con molta fatica, possono oggi essere ricostruiti. È la sorte comune a centinaia, migliaia di immagini, magari conservate nei cassetti dei nostri salotti, che aspettano qualcuno che restituisca loro una voce. Perché una cosa è sicura, raramente una fotografia vale, da sola, più di mille parole.

BIBLIOGRAFIA

Nessuno dei testi inseriti in bibliografia ragiona specificamente su questa immagine, si tratta tuttavia di una selezione di lavori utili a chi volesse affrontare un percorso di uso della fotografia resistenziale come strumento storico anche in ambito didattico.

C. Bertelli, G. Bollati, L’immagine fotografica. 1845-1945, Einaudi, Torino 1978.

Fotografia e violenza. Visioni della brutalità dalla Grande Guerra ad oggi, numero unico di “Memoria e ricerca. Rivista di storia contemporanea”, 20, 2005.

A. Giovannini Luca, D. Tabor, Guerra e Resistenza nelle fotografie di Ettore Serafino, Angeli, Milano 2017.

A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. Le fotografie come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

A. Mignemi (a cura di), Storia fotografica della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

-, Immagini di Resistenza, Comune di Chiusa di Pesio, Chiusa di Pesio 2000.

Sitografia

La Resistenza e la fotografia: storia di una ricostruzione, in http://reportage.corriere.it/senza-categoria/2015/la-resistenza-e-la-fotografia-storia-di-una-ricostruzione/  url consultata il 19 aprile 2020.

PAROLE CHIAVE

PER CITARE L’ARTICOLO

, Partigiani presso gli stabilimenti Ercole Marelli, Novecento.org, n. 16, agosto 2021.


Note: 

[1]    C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati e Boringhieri, Torino 1994 [I ed. 1991], p. 506.

[2]    S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, p. 161.

[3]    Cit. in Pavone 1994, 508, 509.

[4]    Peli 2004, p. 157.

[5]    A. Bravo, Resistenze e riduzione del danno, in D. Gagliani (a cura di), Guerra Resistenza Politica. Storie di donne, Aliberti editore, Reggio Emilia 2006, p. 352.

[6]    A. Mignemi (a cura di), Storia fotografica della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 115.

[7]    Sulla difficoltà di calcolare il numero dei partigiani si veda G. Rochat, Appendice statistica e dati quantitativi, in Collotti E., Sandri R., Sessi F. (a cura di), Dizionario della resistenza. Vol. 2 Luoghi formazioni protagonisti, Torino, Einaudi, 2001, p. 771.

[8]    Il database costruito sulle Ultime lettere dei deportati e condannati a morte della Resistenza (http://www.ultimelettere.it/?page_id=114), interrogato sulle fasce di età, restituisce 279 nomi tra i 16 e i 25 anni di età su un totale di 574, quasi il 50% del totale dunque, tenendo conto che per 63 persone non è nota l’età e che non si tratta, naturalmente, di un campione statistico.

[9]    Si vedano, ad esempio, la banca dati sul partigianato piemontese (http://intranet.istoreto.it/partigianato/default.asp) e quello ligure (https://www.ilsrec.it/banca-dati-del-partigianato-ligure-conclusione-del-progetto/).

[10]  Sull’intreccio tra le lotte aziendali e la Resistenza si veda, ad esempio, la sezione Lotta operaia e lotta armata, curata da Luigi Borgomaneri in Collotti, Sandri, Sessi 2001, pp. 537 ssg.

[11]  Proprio per il ruolo importantissimo della bicicletta nella guerra partigiana, moltissime sono le ordinanze, in tutte le città del Centro e del Nord Italia occupate, che ne proibiscono. Se ne può vedere un esempio, che riguarda la città di Bologna, a questo link https://www.bibliotecasalaborsa.it/cronologia/bologna/1944/divieto_di_circolazione_per_le_biciclette#top. Al tema è stato dedicato anche un volume di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, edito dalle Edizioni Arterigere nel 2010.

[12]  G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Einaudi, Torino 2006.