Videogames
Domanda: Nel libro insisti molto sull’importanza dei modelli di design degli ambienti di apprendimento.
Risposta: Tra gli equivoci connessi al digitale c’è anche l’idea di ispirarsi alla cultura visiva dei videogames. Esiste una letteratura sui ‘benefici del videogames’, ma si tratta di tentativi abbastanza disperati di dimostrare che questi migliorino le capacità cognitive. Un videogioco prevede una rapida interazione di tipo senso-motorio, dunque i giochi migliorano gli stimoli di risposta rapida, ma sono attività che possono servire al massimo per l’addestramento di un pilota di droni. E in più è una letteratura ‘grigia’, legata ai produttori di videogiochi. Mark Prenski, a cui si deve la fortunata definizione di digital natives, è un caso eclatante: che il suo saggio non sia stato preso per quello che era (cioè un dépliant pubblicitario burla) ma per un testo scientifico, è davvero il segno che il mondo va alla rovescia. Il suo è l’argomento di uno sviluppatore di videogiochi, che dice: – Visto che i ragazzi usano molto i videogiochi a casa mettiamoli anche a scuola -. Sarebbe come se un produttore di cioccolato affermasse: – Siccome i ragazzi mangiamo tanti snacks, diffondiamoli anche a scuola -. È davvero un pessimo argomento da tutti i punti di vista, dai difetti di logica alla collusione di interessi, ed è semplicemente straordinario che possa aver presa. Una ricerca recente di Milano Bicocca sugli adolescenti in Lombardia ci dice che l’uso del digitale è, nei fatti, “spippolamento”, di sicuro non navigazione nella conoscenza del grande universo. Si riduce a socialnetworking e a scambiarsi il link al video del gatto che tira lo sciacquone; è difficile fare in modo che un uso ludico possa servire a qualcosa di profondamente più impegnativo e diverso.