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Il fascismo al Brennero. Un breve profilo per questioni

Il fascismo al Brennero. Un breve profilo per questioni

Bolzano, Piazza Erbe, 24 aprile 1921. I militari sgombrano la piazza dopo l’aggressione delle squadre fasciste sul corteo folcloristico. (Tiroler Geschichtsverein / Sektion Bozen)

Abstract

Dai governi liberali degli anni Venti del Novecento alla “Nuova Bolzano” del regime fascista negli anni Trenta, l’autore ricostruisce la storia di Bolzano e del suo territorio durante il periodo di nascita e affermazione della dittatura in Italia.

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From the liberal governments of the 1920s to the ‘New Bolzano’ of the fascist regime in the 1930s, the author reconstructs the history of Bolzano and its territory during the period of the birth and establishment of the dictatorship in Italy.

I GOVERNI LIBERALI E LA «NUOVA PROVINCIA» (1919-1922)

Sotto il governo militare

La prima fase della politica italiana nel Tirolo meridionale vede un iniziale momento di governo militare e, successivamente all’annessione (Trattato di S. Germain), l’amministrazione da parte di un Commissario Generale Civile. È quello che viene definito “periodo liberale” ed è caratterizzato dai tentativi da parte dei fragili governi che rapidamente si succedono (Orlando, Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta) di costruire un primo approccio rispetto alle “nuove province” conquistate, che includono forti minoranze nazionali.

Dall’armistizio fino al luglio 1919, tutto il Tirolo meridionale (a sud del Brennero, in altre parole l’Alto Adige e il Trentino) fu sottoposto al governo militare del generale Guglielmo Pecori Giraldi (1856-1941), comandante della I Armata. Nell’attesa delle decisioni della conferenza di pace di Parigi, il generale si trovò a fronteggiare soprattutto le emergenze del dopoguerra, tra cui il rifornimento di generi alimentari. I contatti tra Tirolo del sud e del nord furono comunque interrotti e i Capitanati distrettuali affidati a funzionari italiani. Nell’aprile 1919 la lira divenne l’unica valuta riconosciuta, anche se con un cambio favorevole.

Da un punto di vista linguistico e culturale, Pecori Giraldi si oppose agli atteggiamenti radicali di coloro che avrebbero voluto un’immediata e completa italianizzazione. Fra costoro vi era Ettore Tolomei col suo «Commissariato alla lingua e cultura», su cui tornerò. Il governatore militare proibì, ad esempio, che si italianizzasse la toponomastica. Nelle sue riflessioni in merito ai problemi che poneva l’annessione di una compatta minoranza di lingua tedesca, Pecori Giraldi indicava come ipotesi più ragionevole quella di una «penetrazione pacifica» da parte dell’Italia, con tutele linguistiche e la concessione all’Alto Adige di un’autonomia amministrativa.

Brennero, cippo di confine, primi anni Venti (W. Meixner, Innsbruck)

 

Il trattato di pace e l’annessione

Le aspirazioni sudtirolesi e ladine per il mantenimento dell’unità del Tirolo si manifestarono attraverso petizioni e appelli alla libera autodeterminazione della popolazione. Il presidente degli USA Wilson, in uno dei suoi «14 punti», aveva indicato la necessità di segnare i nuovi confini italo-austriaci «secondo linee di nazionalità ben riconoscibili». Alla conferenza di Parigi l’Austria portò argomentazioni storico-culturali-demografiche a sostegno dell’unità del Tirolo tedesco, su cui però prevalsero quelle italiane: il confine al Brennero (lungo la linea spartiacque delle Alpi centrali) non solo era stato promesso all’Italia dal Patto di Londra del 1915, ma rispondeva anche a ragioni militari. Gli alleati avvertivano, inoltre, l’esigenza di compensare l’Italia della mancata annessione della Dalmazia e di Fiume, concesse al nuovo «Regno serbo-croato-sloveno» (dal 1928 Jugoslavia). Il trattato di pace, firmato a Saint Germain il 10 settembre 1919, fu votato dal parlamento italiano nell’agosto 1920. Nel corso della discussione, solo i socialisti sostennero l’opportunità di rispettare la volontà delle popolazioni tramite un plebiscito.

 

L’Austria e il Sudtirolo perduto

Dopo Parigi l’Austria, com’è noto, fu ridotta a una piccola repubblica in equilibrio precario a livello internazionale e con forti squilibri interni. La perdita del cosiddetto Deutschsüdtirol (Tirolo meridionale tedesco, compreso tra il Brennero e la chiusa di Salorno) rimase un forte tema di dibattito e mobilitazione nell’opinione pubblica, ma l’azione di difesa dei «fratelli sudtirolesi» a livello politico e diplomatico venne condizionata dalla debolezza della Repubblica austriaca (negli anni Trenta minacciata direttamente dalle mire annessionistiche del Terzo Reich) e dalla conseguente necessità di un buon rapporto con l’Italia.

 

Luigi Credaro e l’amministrazione civile

Con l’annessione di due nuove province caratterizzate dalla presenza di minoranze nazionali, all’Italia si presentava un problema del tutto nuovo per uno stato di forte impianto centralista (il caso della francofona Val d’Aosta si era configurato in modo del tutto diverso). L’Ufficio Centrale per le Nuove Province, istituito nel luglio del 1919 e guidato da Francesco Salata (1876-1944), avrebbe dovuto elaborare le linee politiche di tale annessione, anche attraverso la concessione di particolari autonomie. Nel luglio 1919, cessato il governo militare, venne nominato un «Commissario straordinario per la Venezia Tridentina» nella persona di Luigi Credaro (1860-1939), un politico liberale giolittiano, ex ministro dell’istruzione. Il suo profilo presentava diversi aspetti che si sarebbero rivelati critici nella complessa situazione locale. Come liberale e massone non poteva godere delle simpatie dei cattolici trentini e come ex giolittiano neutralista nemmeno di quelle dei nazionalisti. Per i tedeschi, d’altro canto, la sua figura coincideva con quella di massimo rappresentante a livello locale del nuovo Stato, percepito come occupante. Durante il suo governo tentò di impostare il problema sudtirolese in una prospettiva liberale e moderata, cercando di conciliare le aspirazioni autonomistiche della minoranza tedesca con gli interessi nazionali. Egli si trovò però ad affrontare una situazione sempre più esasperata nelle sue polarizzazioni. Alle rivendicazioni sudtirolesi di una “autonomia integrale” per la provincia di Bolzano si contrapponevano le richieste dei nazionalisti italiani (in primis Tolomei) di una sua rapida italianizzazione.

 

Le richieste del Deutscher Verband

Le forze politiche sudtirolesi (cattolici e liberali) si erano unite nel 1919 in un unico schieramento, la lista elettorale di raccolta etnica del Deutscher Verband (DV, Unione tedesca), sotto il simbolo della stella alpina (Edelweiss). Il partito socialdemocratico sudtirolese (assai minoritario) si alleò invece con quello socialista italiano. L’Alto Adige e il Trentino (formalmente non ancora annessi) non parteciparono alle elezioni nazionali del 1919, le prime col sistema proporzionale e che registrarono in tutta Italia il successo dei socialisti (32% dei voti) e dei popolari (20%). Nelle successive elezioni (1921) il DV ottenne quasi l’80% dei suffragi nella circoscrizione dell’Alto Adige, eleggendo 4 deputati.

Merano, maggio 1921. Lo striscione del Deutscher Verband con la stella alpina invita i sudtirolesi al voto (Foto: Martin Senn)

I deputati del DV presentarono a Roma un disegno di autonomia per il Sudtirolo tedesco (con le valli ladine, l’Ampezzano e la Bassa Atesina) separato da Trento, con competenze esclusive su quasi ogni ambito politico, amministrativo, economico e sociale e lasciando intatti tutti quegli ordinamenti provinciali che non toccassero direttamente l’interesse nazionale. Si trattava di un progetto inconciliabile con la concezione centralistica e unitaria dello Stato, propria della classe politica liberale italiana di quell’epoca. I trentini, dal canto loro, insistevano per l’istituzione di una «provincia unica» di Bolzano e Trento, eventualmente con due sezioni distinte della Dieta.

 

Il decreto Corbino

Predisposto da Credaro, nell’ottobre del 1921 fu emanato il «decreto-legge Corbino» (dal nome del ministro dell’Istruzione) che fu molto contestato da parte sudtirolese. Il decreto, pur confermando l’esistenza della scuola in lingua tedesca, rendeva obbligatoria l’iscrizione alla scuola italiana dei bambini la cui lingua materna fosse italiana. L’accertamento di quest’ultima era affidato a specifiche commissioni, escludendo quindi la libera opzione dei genitori. Il decreto mirava a rafforzare le scuole italiane (assai poco frequentate) soprattutto nelle zone mistilingui come la Bassa Atesina.

 

Le “prime opzioni”

Dopo l’annessione, diverse migliaia di residenti, nati fuori degli attuali nuovi confini del Regno, (ad esempio nel Tirolo del nord) dovettero fare domanda di cittadinanza italiana per poter rimanere in Alto Adige. Fu accolto circa il 90% delle domande. A risultare colpito da queste cosiddette «prime opzioni» fu soprattutto il gruppo dei ferrovieri, nucleo del partito socialdemocratico. Molti di loro dovettero andarsene.

 

IL FASCISMO IN ALTO ADIGE

Le azioni fasciste in Alto Adige

Il Fascio di Bolzano, filiazione di quello di Trento, era stato fondato agli inizi del 1921 da Achille Starace, ex ufficiale pugliese che, com’è noto, avrebbe percorso una lunga carriera nel regime fascista. Nella propaganda fascista l’Alto Adige veniva citato come esempio della debolezza dei governi liberali, incapaci di imporre il diritto della nazione alle nuove province. Il piccolo gruppo dei fascisti altoatesini, guidati dal commerciante piemontese Luigi Barbesino, si diede subito ad azioni di violenta provocazione, potendo contare sul concorso delle «squadracce» padane. Il 24 aprile 1921 circa 200 fascisti provenienti da Brescia, Mantova, Verona e Vicenza si radunarono a Bolzano ed aggredirono il corteo folkloristico che sfilava per la riapertura della famosa Fiera annuale (sospesa nel periodo bellico). Non mancava anche l’occasione “politica”: quello stesso giorno nei Länder austriaci si votava un referendum sull’annessione alla Germania (contro i trattati di pace). Furono sparati colpi di rivoltella e furono esplose bombe a mano. Il bilancio di quella che dalla stampa tedesca fu chiamata la «domenica di sangue» fu di decine di feriti e un morto, il maestro Franz Innerhofer di Marlengo. Le forze di polizia e i militari intervennero in ritardo e le indagini non portarono alla punizione dei responsabili.

Bolzano, Piazza Erbe, 24 aprile 1921. I militari sgombrano la piazza dopo l’aggressione delle squadre fasciste sul corteo folcloristico. (Tiroler Geschichtsverein / Sektion Bozen)

L’anno seguente, in un contesto nazionale sempre più segnato dalla violenza fascista, vi fu la seconda grande spedizione su Bolzano, politicamente ancor più grave. Il 1° ottobre del 1922 centinaia di squadristi, guidati da importanti nomi del partito (tra cui alcuni deputati), confluirono su Bolzano, occupando l’Elisabethschule, ribattezzata «Regina Elena» ed assegnata alle classi italiane. Il giorno seguente presero d’assalto il Municipio. La spedizione, continuata poi a Trento, ottenne due risultati “sul campo”. A Bolzano fu destituito il consiglio comunale ed estromesso il sindaco Julius Perathoner (1849-1926), che era sindaco dal 1895 ed incarnava più di ogni altro leader la continuità col periodo asburgico e la volontà di resistenza del gruppo sudtirolese. A Trento fu costretto alle dimissioni (e alla fuga) lo stesso Commissario generale civile.

A livello nazionale, la cosiddetta «marcia su Bolzano» fu un ennesimo segnale del disfacimento dei legittimi poteri dello Stato di fronte alla violenza fascista. Nemmeno un mese dopo, in seguito alla «Marcia su Roma», Mussolini ottenne dal Re l’incarico di formare il governo. Ciò incise radicalmente sulla politica in Alto Adige.

Bolzano, 1922. Cerimonia fascista davanti alla scuola occupata e ribattezzata «Regina Elena» in occasione della cosiddetta «Marcia su Bolzano» del 2 ottobre 1922. (da «Il Balilla dell’Alto Adige»)

Il ruolo di Ettore Tolomei

 Il roveretano Ettore Tolomei (1865-1952) fu prontissimo a cogliere i vantaggi dell’avvento di Mussolini al potere.  Si era formato nella cultura del nazionalismo e irredentismo italiano. Dopo anni di insegnamento e giornalismo in Italia e all’estero, nel 1906 fondò a Gleno (presso Ora) la rivista «Archivio per l’Alto Adige». Essa mirava a documentare, attraverso le più diverse discipline (geografia, archeologia, storia, toponomastica, arte etc.), tutti gli elementi di latinità/italianità del territorio compreso tra la stretta di Salorno e il passo del Brennero, più precisamente fino alla linea displuviale (spartiacque) alpina.

Rifacendosi a teorie geopolitiche allora assai diffuse, Tolomei sosteneva che la politica delle nazioni dovesse basarsi su fattori geografici. L’elemento latino avrebbe riconquistato il suo spazio verso nord fino al «confine naturale» tra le nazioni italiana e tedesca. (Per un approfondimento sul concetto tolomeiano dell’Alto Adige: qui).

Tolomei portò il Gran Consiglio del Fascismo ad approvare in pieno la propria impostazione riguardo all’Alto Adige, ovvero la necessità di una radicale assimilazione (italianizzazione). Il 15 luglio 1923 Tolomei, nominato nel frattempo senatore, espose in un famoso discorso al teatro civico di Bolzano il programma che il governo avrebbe seguito in Alto Adige. Articolate in 32 punti, le sue misure prospettavano la completa italianizzazione del territorio e dei suoi abitanti in ogni ambito: politica, amministrazione, toponomastica, scuola, cultura, economia, architettura, etc.

Il ruolo di Tolomei nella politica del fascismo in Alto Adige fu centrale negli anni Venti, ma diminuì progressivamente dopo l’istituzione della Provincia di Bolzano (1927). Le maniacali concezioni del roveretano si scontrarono spesso con le direttive del regime, che dovevano tenere conto di necessità economiche e diplomatiche.

L’ambito in cui Tolomei ottenne maggiore soddisfazione fu senz’altro l’introduzione dei toponimi italiani, alla cui elaborazione si era dedicato già nel periodo prebellico. Il suo «Prontuario» (nelle edizioni del 1916, 1929 e 1935) divenne la base della toponomastica italiana in provincia, tuttora in vigore. Esso fu il risultato del lavoro di un’équipe di cui fece parte il glottologo trentino Carlo Battisti (1882–1977). Furono adottati tre criteri per fissare le denominazioni italiane: a) «restituire» la forma latina ai nomi germanizzati; b) «sostituire» (tradurre) quelli di certa origine germanica; c) «creare» nuovi toponimi negli altri casi.

 

L’italianizzazione

Spentasi ogni speranza di autonomia, l’Alto Adige era stato intanto incorporato nella Provincia di Trento (gennaio 1923). Gli ordinamenti nazionali furono estesi alle nuove province. L’italiano divenne unica lingua ufficiale nell’amministrazione e nei tribunali e fu persino proibito il nome «Tirolo» con tutti i suoi derivati. L’unica traduzione ammessa (comunque non ufficiale) fu quella letterale di «Alto Adige» e cioè «Oberetsch».

Un decreto del 1926 previde persino la restituzione alla forma italiana dei cognomi «originari italiani o latini tradotti in altre lingue o deformati con grafia straniera». Lo staff di Tolomei elaborò negli anni un apposito prontuario con la forma italiana di tutti i cognomi (diverse migliaia) presenti sul territorio. Il decreto trovò comunque scarsa applicazione; fino al 1939 si diede corso a circa 4 mila domande di cambio di cognome.

Oltre ai partiti e ai sindacati, anche le associazioni culturali sudtirolesi furono sciolte, oppure subirono un controllo e una “riverniciatura” italiana. Lo stesso avvenne ai gruppi sportivi: nel settembre 1923 fu sciolto il Südtiroler Alpenverein e il suo patrimonio (circa 70 rifugi) passò al Club Alpino Italiano.

 

La scuola

A partire dall’anno scolastico 1923/24 la «legge Gentile» (dal nome del filosofo Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione) impose l’italiano come unica lingua di insegnamento nelle scuole «alloglotte» a partire dalle prime classi delle scuole elementari. Questo significava la progressiva fine delle scuole tedesche in Alto Adige (324), francesi in Val d’Aosta (244) e slave nella Venezia Giulia (450). Per qualche anno sopravvissero ore integrative di tedesco, spesso tenute da insegnanti di madrelingua italiana. Nel 1928 l’italianizzazione delle scuole elementari in Alto Adige era completata, come pure la costituzione delle scuole medie italiane (ginnasi-licei, scuole tecniche, etc.). Dei circa 700 insegnanti tedeschi attivi prima della «legge Gentile» pochissimi riuscirono ad inserirsi nella nuova scuola italiana. Solo la Chiesa poté mantenere strutture educative in lingua tedesca.

Energica fu la reazione del gruppo sudtirolese di fronte allo smantellamento della scuola tedesca, che suscitò numerose proteste anche a livello internazionale. Il canonico Michael Gamper (1885-1956) – figura di riferimento politico e morale della comunità sudtirolese – lanciò dalle pagine del «Volksbote» un chiaro appello alla resistenza nazionale, ovvero per l’organizzazione di una scuola tedesca clandestina. Essa fu chiamata Notschule (scuola di emergenza) o, con richiamo religioso, Katakombenschule (scuola delle catacombe) perché nascosta alle minacce della persecuzione come la fede dei primi cristiani. Si formarono insegnanti che potessero trasmettere ai bambini almeno i rudimenti della lingua tedesca. La rete, affidata a referenti territoriali, si appoggiò soprattutto sulle parrocchie e fu finanziata anche dall’estero, da cui provenivano libri e materiali. Le autorità fasciste intervennero spesso per reprimere il fenomeno e diverse/i insegnanti furono ammoniti, multati e persino confinati. Date le condizioni di provvisorietà in cui si trovarono ad operare, questi corsi non poterono ovviamente garantire efficaci risultati didattici, ma ebbero una grande valenza politica e identitaria. Le nuove generazioni sudtirolesi vissero in quegli anni una doppia identità: una pubblica, italiana e una privata, familiare, tedesca.

Un’immagine della scuola clandestina sudtirolese (Katakombenschule) che circolava in forma di cartolina in Austria e Germania (Tiroler Geschichtsverein / Sektion Bozen)

Nello stesso tempo da parte delle autorità venne avviata l’opera di selezione e motivazione dei nuovi insegnanti italiani. L’insegnante che si trovava ad operare in Alto Adige (come in ogni territorio di confine) venne investito di una spiccata missione nazionale. Fu al centro di plurime responsabilità di “funzionario intellettuale”, interpretando ruoli paralleli e in gran parte sovrapposti. Oltre alle funzioni relative all’istituzione scolastica, ricopriva spesso quelle legate alle organizzazioni del partito, all’amministrazione nei piccoli comuni periferici (talvolta era podestà o segretario), a istituzioni come la Società Dante Alighieri, l’Istituto Fascista di Cultura (divenuto in seguito, con significativa inversione di termini, Istituto di Cultura Fascista) etc.

 

Il confino di Josef Noldin

Tra gli organizzatori della rete clandestina vi fu l’avvocato Josef Noldin (1888-1929). Avvocato, combattente nella prima guerra mondiale e reduce da una lunga prigionia in Siberia, fu da subito irriducibile avversario dell’italianizzazione scolastica e organizzatore della Katakombenschule nella Bassa Atesina. Condannato al confino a Lipari all’inizio del 1927, il suo caso destò scalpore sulla stampa internazionale. Rilasciato alla fine del 1928, morì l’anno dopo a Bolzano. Nel suo confino Noldin si trovò a stretto contatto con l’antifascismo italiano. Sia dal diario liparota tenuto dallo stesso Noldin (che verrà pubblicato in Germania nel 1936 col titolo Ein deutsches Schicksal) sia dalla memorialistica dei confinati risulta comunque l’estrema distanza tra i due mondi: l’antifascismo su base etnico-nazionale di Noldin e quello politico-ideologico dei confinati italiani, a loro volta divisi in gruppi e “sette”.

 

La politica dei monumenti

Fin dall’annessione si era proceduto alla rimozione di cippi, monumenti, targhe che ricordavano il passato asburgico del territorio. L’istituzione della Provincia (1927) accelerò questa “politica dei monumenti”. Essi avrebbero dovuto “marcare” il territorio dell’Alto Adige con i simboli dell’italianità e del nuovo regime fascista. Nei punti estremi della provincia, in prossimità del confine (Malles in Venosta, Prato Isarco e San Candido in Val Pusteria), furono eretti ossari militari, a perenne ricordo del sacrificio con cui era stata raggiunta quella frontiera (in realtà vi furono collocate spoglie di soldati caduti altrove). Grandiosi monumenti all’Alpino furono eretti a Merano e Brunico.

Il Monumento alla Vittoria di Bolzano, in una cartolina viaggiata negli anni Trenta (Carlo Romeo)

L’opera più rappresentativa fu senz’altro il Monumento alla Vittoria di Bolzano, progettato da Marcello Piacentini (riguardo alla sua recente musealizzazione: qui). Iniziato nel 1926, fu inaugurato solennemente il 12 luglio 1928. Dedicato ai caduti italiani, esso sorse proprio sul luogo (di fronte a ponte Talvera e alla “città tedesca”) dove in periodo bellico era stata cominciata la costruzione di un monumento ai Kaiserjäger tirolesi.

All’interno del nuovo monumento, ai lati della statua di un Cristo risorto, furono collocate le erme dei tre martiri trentini: Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa. La vedova di Battisti (Ernesta Bittanti) non volle prendere parte alla strumentalizzazione fascista della memoria del marito. Le colonne del monumento rappresentano fasci littori, simbolo del PNF. Sul frontone, sotto la dea della vittoria alata e armata di freccia, una scritta rivendica il diritto della nazione al confine del Brennero e il ruolo guida della civiltà latino-italica rispetto a tutta l’Europa: «Hic patriae fines siste signa hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus» (Qui sono i confini della patria. Pianta le insegne. Da qui educammo gli altri con la lingua, le leggi e le arti). Il significato storico della frase va ricondotto alla grande polemica internazionale che vi era stata nel febbraio 1926, periodo in cui nacque il concetto del monumento. Politici e diplomatici austriaci e germanici avevano criticato la brutale politica di snazionalizzazione nei confronti dei sudtirolesi. Mussolini aveva ribattuto con le armi della retorica: l’assimilazione dei tedeschi dell’Alto Adige sarebbe stato un fatto naturale e, in quanto a diritti umani e civili, l’Italia non avrebbe preso lezioni da nessuno, essendo l’autentica erede della civiltà latina.

Nel luglio 1933 fu abbattuta da ignoti, sulle passeggiate del Talvera a Bolzano, la fontana di Re Laurino (realizzata dallo scultore Kompatscher nel 1907). Secondo Tolomei era stata una vergogna tollerare a Bolzano quella rappresentazione del germanesimo (Teodorico da Verona / Dietrich von Bern) che trionfava sull’antica latinità del territorio (Laurino). I pezzi della statua furono rimossi. Recentemente essa è stata restaurata e collocata davanti al Palazzo della Provincia nei pressi della .

Anche la statua di Walther – secondo Tolomei un altro intollerabile simbolo pangermanista – fu rimossa nel 1935 dalla piazza principale della città (ribattezzata «Vittorio Emanuele»), ufficialmente per motivi di viabilità. Non fu invece mai trasportata a Bolzano la statua di Druso, che Tolomei voleva si collocasse al posto di Walther. Il condottiero romano, figlio adottivo dell’imperatore Ottaviano Augusto e primo conquistatore della Raetia (15 a. Cr.), avrebbe dovuto diventare il “mito di fondazione” dell’italianità in provincia. Il nome di Druso fu comunque largamente imposto nell’odonomastica (nomi di vie, piazze, etc.) e nell’intitolazione di infrastrutture.

Nel corso del Ventennio la collocazione di monumenti accompagnò, in funzione celebrativa, anche le realizzazioni tecnologiche del regime in provincia. Particolarmente imponente fu la statua dedicata al «Genio del fascismo», presso la centrale idroelettrica di Ponte Gardena, chiamata popolarmente «il Duce di alluminio».

Bolzano. Il rilievo di Hans Piffrader sulla facciata della Casa del Littorio (oggi Uffici Finanziari)

La nuova provincia di Bolzano (1927)

La repressione delle leggi eccezionali del 1925/26 colpì ovviamente anche l’Alto Adige. La censura sulla stampa spinse alla chiusura tutte le testate dei liberali e socialdemocratici. Sopravvissero quelle cattoliche della casa editrice Athesia, protette dal Concordato con la Chiesa.

Come accennato, nel dicembre 1926 fu istituita la Provincia di Bolzano nel contesto di un riordino su scala nazionale. Essa veniva così separata da quella di Trento, sotto cui rimaneva però tutta la Bassa Atesina. L’obiettivo di Mussolini era quello di rafforzare il legame diretto tra l’Alto Adige e il governo centrale di Roma, attraverso l’azione del prefetto. La creazione di un nuovo apparato amministrativo e burocratico provinciale avrebbe inoltre incrementato l’immigrazione italiana, soprattutto nel capoluogo, che doveva essere promosso e favorito economicamente. La decisione deluse il fascismo trentino, dato che a Bolzano sarebbero stati destinati inevitabilmente maggiori finanziamenti rispetto a Trento.

Sempre nel 1926 fu varata la riforma delle amministrazioni locali. I comuni diminuirono di numero (quelli altoatesini passarono da 200 a meno di 100), sparirono i consigli comunali eletti dalla popolazione e tutti i poteri furono affidati ad un podestà, scelto e controllato dal prefetto della provincia. Di norma i podestà dovevano essere individuati tra persone residenti, “politicamente affidabili”, istruite e capaci sotto il profilo amministrativo; inoltre, l’incarico doveva essere svolto gratuitamente. In Alto Adige tuttavia, data la particolare situazione nazionale, i podestà furono chiamati in genere da fuori provincia. Le loro spese per vitto e alloggio (che venivano spesso “gonfiate”) corrispondevano in sostanza a uno stipendio. Estranei e spesso indifferenti ai problemi della popolazione, molti di loro diedero una pessima immagine dell’amministrazione statale. Mossi da mediocri interessi personali (numerosi i casi di peculato), finirono spesso coll’essere rimossi o trasferiti. Non mancarono ovviamente podestà che si dimostrarono, al contrario, capaci e coscienziosi. Vi furono anche casi in cui questo ruolo fu rivestito da personalità sudtirolesi, come Maximilian Markart a Merano e Richard Hibler a Brunico.

L’agricoltura locale era appena riuscita a risollevarsi dalla crisi del dopoguerra, trovando nuovi mercati che rimpiazzavano quelli tedeschi, quando fu travolta dalla grande crisi del 1929. La drastica diminuzione del prezzo di cereali, carne, frutta e vino portò al fallimento di molte piccole imprese. Nella prima metà degli anni Trenta furono messe all’asta circa 500 proprietà agricole, che in parte furono acquistate da enti italiani, come l’Opera Nazionale Combattenti e l’Ente di Rinascita Agraria.

Uno degli obiettivi sostenuti con maggior vigore da Tolomei era sempre stata la «conquista del suolo», cioè il trasferimento di forti nuclei di coloni italiani nelle vallate dell’Alto Adige. In realtà il progetto non raggiunse significativi risultati, a parte il caso di «Borgo Vittoria» (Sinigo, presso Merano). Qui si stabilirono, per la bonifica e la coltivazione, decine di famiglie d’origine soprattutto veneta. L’insediamento trovò però sostegno anche nella presenza della fabbrica della Montecatini, entrata in funzione nel 1926.

Il regime promosse fortemente anche il turismo italiano. Si affermò la doppia stagione, invernale ed estiva. Prima della guerra (1914) i turisti italiani rappresentavano il 2% del totale, nel 1939 erano il 72%.

 

Anni Trenta: modernizzazione e fascistizzazione

Nel 1933 viene nominato prefetto di Bolzano Giuseppe Mastromattei (1897-1986). Sotto la sua guida si realizzano i principali interventi di politica economica del fascismo in provincia, nel segno della modernizzazione e fascistizzazione: grandi opere pubbliche, sviluppo edilizio, zona industriale di Bolzano, rilancio dell’agricoltura e del turismo.

Bolzano, ottobre 1938. Il prefetto Mastromattei (a sin. del Federale) all’anniversario della Marcia su Roma, insieme alle autorità politiche e militari della provincia. (Foto: F. Miori, Bolzano)

 

Tra il 1934 e il 1935 il prefetto avvia il progetto della zona industriale di Bolzano, il più ampio intervento di politica economica del Ventennio in Alto Adige. Obiettivo era la trasformazione del quadro economico-sociale ed etnico del capoluogo (e di riflesso della provincia), incrementando nel giro di pochi anni la presenza italiana attraverso l’immigrazione operaia. Una condizione favorevole all’insediamento di grandi stabilimenti a Bolzano era la grande disponibilità in loco di energia elettrica. Non va dimenticato inoltre il contesto delle scelte del regime in campo nazionale: per incrementare la produzione in settori considerati primari (siderurgico, chimico e meccanico) furono creati, negli stessi anni, nuovi poli anche in aree sino ad allora prive di tradizione industriale.

La zona sorse alla periferia sud-est di Bolzano, su frutteti e vigneti man mano espropriati con trattative private o attraverso la mediazione del Comune. Le agevolazioni statali concesse alle imprese riguardarono principalmente i dazi doganali, le imposte sulla ricchezza mobile e le tariffe ferroviarie per il trasporto delle merci. Furono previsti anche dei contributi diretti alle ditte, da concedersi anche in base al numero dei loro occupati che provenivano da fuori provincia («manodopera regnicola e non allogena», come si espresse l’apposita commissione nel 1936).

Gli stabilimenti che man mano entrarono in funzione occupavano nel 1942 quasi settemila operai e si distribuivano nei settori della meccanica (Lancia), metallurgia (Industria Nazionale Alluminio, Acciaierie Bolzano, Italiana Magnesio), chimica («Carburanti e Derivati Autarchici, Fabbriche Riunite Ossigeno), lavorazione del legno (Società Industriale dell’Arredamento, Feltrinelli Masonite, Società Fabbriche Fiammiferi e Affini). Non mancavano anche imprese edili (Piombo, Pontalti), di abbigliamento (Calzaturificio Martini) e alimentari.

I tecnici e gli operai specializzati provenivano in maggioranza dalle case madri lombarde e piemontesi, mentre la manovalanza soprattutto dal Veneto e dal Trentino.

Inizia la costruzione delle casette semirurali del “rione Dux”, destinate agli occupati della zona industriale di Bolzano (Foto Pedrotti).

Per accogliere la massiccia ondata immigratoria furono costruiti in tempi brevissimi i nuovi quartieri «Littorio» (tra via Torino e via Dalmazia) e «Dux», quest’ultimo caratterizzato dalle casette “semirurali”. Esse possono essere lette come una specie di manifesto ideologico del regime, mirato alla “deproletarizzazione” dei lavoratori; con la coltivazione dell’orto, annesso alle casette fittamente e ordinatamente allineate, si sarebbe realizzato l’ideale connubio tra lavoro industriale e ruralismo. Il quartiere, privo peraltro di infrastrutture e servizi, risultava del tutto periferico ed emarginato non solo rispetto al centro storico della città ma anche ai nuovi quartieri riservati ai ceti dirigenziali e impiegatizi.

 

La «Nuova Bolzano»

 La crescita della popolazione nonché del ruolo politico ed economico del capoluogo fu accompagnata da un massiccio sviluppo urbanistico. Il piano regolatore del 1935 pianificò una «nuova Bolzano», moderna e italiana, contrapposta al vecchio centro storico, d’origine medievale e architettonicamente “tedesco”. Al di là del Talvera, attorno al Monumento di Piacentini, vennero così costituendosi i rioni «Vittoria», (con il corpo d’Armata ed il polo scolastico), «Venezia», «Tiberio» (corrispondente al comune di Gries, annesso nel 1925), «Battisti» (con il Tribunale e la Casa del Littorio). Più lontani, alla periferia sud/ovest, i due “quartieri operai” già citati.

La veste architettonica della nuova città fu caratterizzata dalle due principali correnti del Ventennio, il monumentalismo ed il razionalismo. Grande attenzione fu rivolta alla creazione di nuove strutture funzionali alla politica sociale del regime, tra cui quelle sportive, educative e ricreative (Stadio, Lido, Casa della GIL femminile etc.).

Nel corso del Ventennio Bolzano, calcolando anche l’annessione del comune di Gries nel 1925, passa da 25 mila a circa 65 mila abitanti. È soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si realizza il “salto” demografico, legato all’avvio della zona industriale. Basti vedere la continuità in quegli anni dei dati relativi all’immigrazione dalle province italiane nel solo comune di Bolzano: 7.655 (1937), 4.203 (1938), 5.773 (1939), 6.425 (1940).

 

Un alleato scomodo al confine

Arriviamo alla conclusione offrendo l’assist a chi seguirà trattando il tema delle Opzioni. Negli anni Trenta l’Alto Adige avvertì prima di ogni altra provincia italiana il sommovimento in corso dell’Europa centrale. Mussolini si impegnò inizialmente a difendere l’Austria dalle mire di Hitler, con solenni proclami e addirittura con gesti minacciosi, come quando, dopo l’uccisione del cancelliere Engelbert Dollfuss (1892-1934) nel putsch nazista, fece schierare divisioni al Brennero e a Tarvisio.

In ogni caso i successi di Hitler e il suo progetto di “Grande Germania”, cioè di recuperare i territori perduti dopo la guerra, avevano da subito entusiasmato i circoli giovanili delle minoranze tedesche all’estero. Così accadde anche in Sudtirolo, dove già dal 1933 era nato un movimento di lotta che si ispirava al nazionalsocialismo.

Con l’aggressione italiana all’Etiopia e con l’intervento in Spagna, i regimi fascista e nazionalsocialista si allearono sempre più strettamente finché, nel marzo del 1938, Mussolini dovette accettare l’Anschluss dell’Austria. È qui la radice dell’accordo sui sudtirolesi. Fin dai suoi esordi politici nei primi anni Venti, Hitler aveva esplicitamente affermato che la sorte di 200.000 sudtirolesi non avrebbe mai dovuto pregiudicare la naturale alleanza tra Italia e Germania.

Le Opzioni, tema centrale del successivo intervento, furono un disastro per l’Italia. Più dell’80% degli aventi diritto optarono per la Germania: un vero plebiscito per il Reich e un danno politico, economico e di immagine per l’Italia. In vent’anni di regime il fascismo non era riuscito né ad assimilare né ad avvicinare a sé i sudtirolesi. Mastromattei tentò invano di contrastare la potente propaganda tedesca, ma il suo insuccesso rispecchiò la debolezza dell’Italia verso il nuovo alleato.

Subito dopo Mastromattei fu trasferito ad altro incarico. Tolomei invece esultava: sembrava aver vinto il suo concetto di radicale spartizione etnico-geografica, mentre a nulla erano valse la politica economica e le misure di fascistizzazione messe in campo dal prefetto. Così scrisse nel suo «Archivio per l’Alto Adige» (1940):

Chi si era illuso di poter presentare un Alto Adige tedesco sì ma fascistissimo, convenne che questo plebiscito smentiva l’asserto. Chi al contrario aveva ammonito che né la scuola per quanto ottima, né il servizio militare, né i multipli benefici avevano potuto cangiare la situazione, e che poteva cangiarla una sola ed unica forza, l’immigrazione italiana dalle province interne, venne riconosciuto veritiero.

 

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Dati articolo

Autore:
Titolo: Il fascismo al Brennero. Un breve profilo per questioni
DOI: 10.52056/9791254691090/03
Parole chiave: ,
Numero della rivista: n.17, giugno 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Il fascismo al Brennero. Un breve profilo per questioni, in Novecento.org, n. 17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/03

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