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Il Polizei- und Durchgangslager di Bolzano

Il Polizei- und Durchgangslager di Bolzano

Istallazione inaugurata nel novembre del 2019 di fronte al muro dell’ex campo di Bolzano.
Foto dell’autore

Abstract

Il campo di concentramento di Bolzano è stato uno dei principali luoghi di tortura e di deportazione nazista in Italia. La sua storia e ancora poco conosciuta nonostante negli ultimi anni sia diventato un luogo di memoria. In questo contributo sono ricostruite le vicende che vi sono accadute dalla sua costituzione, maggio 1944, fino al suo scioglimento avvenuto nell’aprile del 1945.

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The Bolzano concentration camp was one of the main sites of Nazi torture and deportation in Italy. Its history is still little known despite the fact that in recent years it has become a place of remembrance. In this contribution, the events that took place there from its establishment in May 1944 until its dissolution in April 1945 are reconstructed.

Un luogo di memoria poco conosciuto

Il campo di concentramento di Bolzano insieme alla Risiera di San Sabba a Trieste è stato il principale luogo di detenzione e di tortura nazista allestito e gestito dalle SS in Italia. Per circa un anno, dal maggio 1944 alla primavera del 1945, tra le sue mura vi sono state internate almeno 9.500 persone, principalmente antifascisti e resistenti che, insieme agli ebrei, vi transitarono per essere inviati nei lager del Terzo Reich. Malgrado qualche testimonianza dei superstiti e delle pubblicazioni a livello locale, la storia del lager è stata quasi del tutto rimossa sia dalla comunità di lingua italiana che quella di lingua tedesca. La prima perché doveva farsi perdonare la violenta campagna di italianizzazione forzata, la seconda perché voleva che fosse dimenticata la collaborazione durante l’occupazione tedesca e i misfatti accaduti fuori e dentro il perimetro del campo.

Subito dopo la guerra le baracche sono state utilizzate per accogliere profughi, sfollati e reduci. Negli anni Sessanta la zona è stata riqualificata e nell’area dove sorgeva il campo sono stare costruite una dozzina di palazzine di edilizia residenziale cancellando quasi del tutto le tracce della sua esistenza.

L’interesse per la storia del campo viene riaccesa nel 2000 grazie al processo davanti al Tribunale militare di Verona all’ex aguzzino Michael Seifert. Negli anni successivi si assiste alla ripresa di nuovi studi e alla valorizzazione del luogo di memoria. Nel giugno 2004 il comune di Bolzano ha collocato di fronte al muro di cinta, tra le poche tracce che rimangono del campo, 6 pannelli che ricordano il lager e le sue vittime. Nel 2012, in occasione del Giorno della memoria, il percorso espositivo è stato arricchito con nuove tabelle esplicative in più lingue. Nel novembre del 2019, in occasione dell’omaggio congiunto ai deportati, l’ex campo è stato visitato dal presidente della Repubblica austriaca Alexander Van der Bellen e di quella italiano Sergio Mattarella, Nell’occasione è stata inaugurata l’istallazione permanente che ricorda i nomi di 8.000 detenuti nel lager.

Come si presentava il muro esterno del campo nel 2016. Foto dell’autore.

Istallazione inaugurata nel novembre del 2019 di fronte al muro dell’ex campo di Bolzano. Foto dell’autore

La costruzione del campo

Prima che il lager di Bolzano diventi, nell’agosto del 1944, un Polizei- und Durchgangslager (campo di transito e di polizia) viene utilizzato per alcuni mesi come un AEL, cioè un Arbeitserziehungslager (campo di rieducazione al lavoro). La decisione di attivare un AEL a Bolzano viene presa dal «Vice comandante della Polizia di sicurezza e servizio d’informazione dell’SD» Sturmbannführer delle SS Rudolf Thyrolf per decongestionare le affollate carceri cittadine[1].

A sopraintendere alla sua realizzazione viene inviato il tenente (Obersturmführer) delle SS Georg Mott che già dirige il lager di Reichenau a Innsbruck. L’incarico di costruire il campo di Bolzano gli è stato affidato dall’Ufficio centrale della Polizia di Stato di Innsbruck nel gennaio del 1944. Invece a decidere l’effettivo avvio dei lavori, sembra che sia stato il «Capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza» (KdS) di Verona, l’SS-Brigadeführer Wilhelm Harster. La costruzione dei primi due blocchi (A e B) inizia nella seconda metà dell’aprile del 1944. I lavori, sotto la direzione del tenente delle SS Brünot, sono affidati a un gruppo di 35-40 detenuti comandati dalla guardia del campo il sudtirolese Albino Cologna. Ultimati i primi blocchi, il campo di rieducazione al lavoro viene ufficialmente aperto il 15 maggio seguente.

Sono circa 70 gli internati in questo periodo, per poi raggiungere le 120 unità verso la metà di luglio. Per la maggior parte si tratta di oppositori al nazifascismo sudtirolesi, familiari di renitenti alla leva, «disertori» tenuti come ostaggi e alcuni detenuti per reati comuni. Non mancano anche fascisti che si sono resi responsabili di insubordinazione o che hanno commesso illeciti che hanno danneggiato l’esercito nazista.

I fascisti da «rieducare» sono classificati nella categoria degli «Arbeiter»: sono sempre distinti dagli altri internati, non hanno numero di matricola e sono addetti a lavori leggeri. Condannati a una «pena preventiva» di sei mesi, che può essere rinnovata se non conducono una buona condotta, sono man mano liberati. Nel lager si istaura immediatamente, da parte dei sorveglianti, un clima di violenza mutuato da quello in uso nel campo di Reichenau. Oltre a essere vietata ogni relazione tra «borghesi» e internati, regna la «disciplina della frusta». Nei circa tre mesi e mezzo di attività, i detenuti sono costretti a dormire su un «pancaccio nudo ed eseguire di giorno pesanti lavori di costruzione del campo». Alcuni sono impiegati anche in una cava di ghiaia, mentre la sera devono «eseguire delle esercitazioni o altri esercizi ginnastici». L’alimentazione è insufficiente e per tutti i detenuti che si ammalano o si feriscono non è prevista nessuna possibilità di curarsi. Durante il periodo della direzione di Mott, nel campo non esiste un’infermeria e mancano anche le medicine.

Da Fossoli a Bolzano

Nelle prime settimane di luglio, il KdS di Verona Wilhelm Harster, per motivi di sicurezza, decide che bisogna chiudere il principale campo di concentramento per la deportazione politica e razziale dall’Italia ai lager del Terzo Reich, il Polizei- und Durchgangslager di Fossoli di Carpi e trasferire il suo comando al campo di concentramento di Bolzano. Dopo pochi giorni iniziano i primi trasferimenti degli internati dal campo di Fossoli di Carpi all’Arbeitserziehungslager altoatesino. Un primo gruppo viene trasferito il 22 luglio 1944, un secondo e un terzo contingente arrivano rispettivamente il 26 e il 31 dello stesso mese. A Bolzano, gli internati giunti da Carpi trovano una situazione più dura di quella che avevano vissuto fino a quel momento a Fossoli.

Il nuovo comandante, l’SSUntersturmführer (tenente) Karl Friedrich Titho, che fino ad allora aveva diretto il campo di Fossoli, formalmente assume la direzione del campo di Bolzano il 5 agosto. Dal campo carpigiano viene trasferita anche gran parte della struttura di comando e di guardia. Titho, che è un uomo di fiducia di Harster, da questo momento inizia a trasformare il campo di Bolzano da Arbeitserziehungslager in un «campo di smistamento di polizia».

Quando Titho arriva a Bolzano trova una situazione diversa da quella di Fossoli. Il campo è ancora in costruzione, manca l’acqua, i servizi igienici sono carenti e, in poco tempo, si passa da poche decine di internati ad alcune centinaia. Titho riorganizza l’apparato burocratico, fa costituire le sezioni amministrative che prima non esistevano. I detenuti sono immatricolati con il metodo già utilizzato a Fossoli e registrati, in ordine alfabetico secondo il loro cognome, nello stesso schedario che dal campo carpigiano è stato trasferito in quello di Bolzano. Inoltre, a differenza del periodo precedente, con il trasferimento di 200 donne, viene costituito anche uno specifico blocco femminile.

Da Fossoli provengono anche alcuni macchinari che sono utilizzati per impiantare le officine dove impiegare gli internati. Ma, rispetto al precedente campo dove solo una piccola percentuale di internati era addetta ai lavori, a Bolzano invece viene «creato un vero campo di lavoro con tutte le specialità: tipografia, meccanica, falegnameria, autoriparazioni, elettricisti, ecc.»[2]. Sono circa 300 gli internati utilizzati in queste officine, mentre altri sono addetti ai servizi nel campo: in infermeria, in cucina, nel magazzino, nell’orto e come operai e inservienti per i lavori di manutenzione. Quotidianamente un gruppo di internati, sotto il comando di Francesco Meraner, si reca a fare la legna. Non pochi sono quelli inviati a svolgere altri lavori fuori dalla struttura. Sotto la scorta di guardie armate sgomberano macerie, fanno lavori di ripristino delle linee ferroviarie e delle strade, rimuovono ordigni inesplosi, costruiscono fortificazioni e rifugi. Fino al novembre 1944, sono organizzate delle squadre impegnate nella costruzione del campo di concentramento che, in parte, lavorano anche in una vicina cava. Dall’autunno 1944, alcuni reparti di lavoratori coatti sono impiegati alla galleria del Virgolo, dove è stata trasferita la fabbrica dell’«IMI» (Industria Meccanica Italiana) di Ferrara che produce cuscinetti a sfera. Altri prigionieri sono ceduti giornalmente alle ditte esterne della zona industriale come: la «Magnesio», la «Lancia», la «Feltrinelli». Non bisogna dimenticare che «per ogni internato che andava a lavorare nelle industrie di Bolzano il comando tedesco riceveva e teneva per sé £. 60,= al giorno»[3].

Come si presenta il campo di Bolzano dopo la nuova riorganizzazione amministrativa, c’è lo descrive lo stesso comandante quando viene interrogato nel dopoguerra[4]:

Rep. I e II comando del campo e affari del personale come pure ufficio posta;
Rep. III direzione del campo di arresto e protezione;
Rep. IV amministrazione.
La direzione del campo di arresto e di protezione era affidata al maresciallo delle SS Hans Haage. Gli incombeva di prendere in consegna i detenuti, di registrarli nello schedario, di ricoverarli nei blocchi di abitazione, di assegnare loro l’occupazione, di curarsi dei detenuti nell’interno del campo come pure di prendere misure di disciplina semplici.

Oltre alle 4 sezioni già menzionate, vi era il «Servizio sanitario» e il «Servizio lavoro».

La gerarchia del campo. Laboratorio di storia di Rovereto, Il popolo numerato, p. 28.

 Condizioni di vita  

Le difficili condizioni di vita e come sono divisi gli internati nei vari Block, lo possiamo capire dal rapporto scritto dall’ex internato Luciano Elmo che, rifugiatosi in Svizzera, il 23 dicembre 1944 riesce a farlo pubblicare sul giornale la «Libera stampa» di Lugano[5].

…Gli internati dormono in cuccette (tipo marina) in legno a tre piani. Ogni internato ha un sacco con il pagliericcio di trucioli e due coperte. All’arrivo, gli internati vengono accuratamente tosati. Essi subiscono poi un’accurata perquisizione da parte dei militi delle SS e vengono naturalmente spogliati di tutti gli averi: valori in denaro, sigarette, ecc.. Viene concesso di conservare 500 lire italiane: tutti i documenti di identità sono meticolosamente ritirati. A ogni internato viene poi assegnato un numero di matricola stampigliato su un rettangolo apposto su un triangolo di stoffa di colore vario, che l’internato deve costantemente portare in modo visibile.
Gli internati vengono divisi nelle seguenti categorie:
Arbeiter: non hanno triangolo distintivo; non hanno numero di matricola. Sono adibiti a lavori leggeri; sono destinati a una successiva liberazione dal campo.
Triangolo rosso: internati politici gravi, sono adibiti a lavori pesanti: destinati alla deportazione in campo di secondo e terzo grado.
Triangoli rosa: internati politici meno gravi: adibiti a lavori fuori del campo; per essi è contemplata la possibilità di diventare lavoratori liberi e di essere destinati a campi di primo
grado.
Triangolo giallo: internati ebrei: adibiti a lavori nell’interno del campo: sono destinati alla deportazione nei campi per ebrei.
Triangolo bianco: internati considerati ostaggi: si tratta di vecchi e bambini che restano a disposizione del comando del campo74.
Esiste inoltre un distaccamento di lavoratori nelle vicinanze di Merano con poche unità.
Gli internati sono divisi in Block.
Block A: (120-130 internati).
Lavoratori fissi:
falegnami, meccanici, sarti: lavorano per le SS esclusivamente. Teoricamente tale qualifica esclude dalla deportazione successiva in Germania.
Block B: (200 internati circa). Comprende lavoratori fissi come per il Block A e internati della categoria Arbeiter.
Block C: (200 internati circa)
Block D: (240 ” ” )
Block F: (100 ” ” )
Block G: ( ? )
Block H: (300 ” ” )
Block I: (250 ” ” )
comprendono tutta la massa degli altri internati che vengono utilizzati per lavori pesanti, specie in cave, gallerie ecc. sotto scorta armata e dentro il campo. Sono sempre disponibili per l’inoltro in Germania.
Block E: (250 circa). Comprende tutte le donne ebree. Vi sono rappresentate tutte le condizioni sociali possibili. Alcune sono adibite a lavoro di sartoria, rammendo, lavanderia per le S.S. Esiste anche per le donne la categoria dei lavoratori fissi. Alcuni gruppi di donne disponibili per lavori vari pesanti seguono la sorte dei lavoratori deportabili in Germania.
Block L: (17). Comprende tutti gli ebrei uomini. Sono adibiti ai lavori più umili all’interno del campo: pulizia del campo, ecc. Sono sempre disponibili per la deportazione in Germania.
Numerosi elementi transitati per il campo di Bolzano furono in seguito inoltrati al campo di Innsbruck. Sulla loro sorte successiva non è possibile avere alcuna notizia.
Corredo: A ogni internato viene assegnato: una tuta blu[6] da operaio portante tutti una croce di S. Andrea rossa, una camicia grigioverde, un paio di mutande di tela, un paio di zoccoli.
Ogni internato può inoltre conservare gli indumenti civili.
Alimentazione: I lavoratori fissi ricevono una razione di pane giornaliero di gr. 150 e due volte al giorno una abbondante ciotola di pasta e brodo. Per questa categoria di internati è consentito
di ricevere dall’esterno pacchi di viveri che però vengono censurati e spesso manomessi. Per tutti gli altri esiste una razione di pane giornaliera di gr. 150 e due volte al giorno una ciotola di brodo con poca pasta.
Disciplina: È tenuta dai militi delle SS al comando di un maresciallo coadiuvato duramente da una donna.
Vi è poi una gerarchia interna tenuta da internati italiani così costituita:
capo campo che risponde di tutto al maresciallo delle SS; capo block, capi squadra. In ogni block vi è poi un consigliere del block che dovrebbe funzionare come organo di conciliazione per le piccole
questioni interne.
Orario: Sveglia 4¾ per le donne; 5 per gli uomini – ore 6 adunata, verifica dei presenti – dalle 7 alle 12 lavoro – ore 12 primo rancio – dalle 13 alle 17 lavoro – ore 17 secondo rancio – ore 18 adunata e chiusura baracche – ore 21 silenzio.
Sanzioni: Casi gravi: fucilazione. Casi meno gravi: bastonature e celle.
Nelle celle erano rinchiusi anche alcuni elementi ritenuti più pericolosi, che arrivavano al campo con tale destinazione. Durante il soggiorno al campo del relatore non è stata eseguita alcuna fucilazione. Erano presenti al campo alcuni partigiani piemontesi (valli di Lanzo, Sesia, Biella) che avevano subito sevizie dalle SS: dita bruciate, ustioni sul palmo delle mani, bruciature sui testicoli.

Viene costituita anche un infermeria nel campo e una farmacia. La cura medica dei detenuti viene affidata allo studente di medicina già presente a Bolzano e in principio pure internato: Karl Pittschieler[7].

Il disegno della mappa del campo è stato realizzato da Loredana Giancola. C. Di Sante, Criminali al campo di Bolzano, pp. 44-45.

Gli internati adibiti ai lavori hanno diritto a due pasti al giorno. L’alimentazione rimane comunque sempre al di sotto delle reali necessità e, nell’ultimo periodo, diventa sempre più precaria. Mentre le condizioni igienico-sanitarie sono rese problematiche a causa della penuria di farmaci e dai pidocchi che infestano i blocchi. Non si verificarono malattie epidemiche in misura considerevole, anche se si ebbero alcuni casi di tifo e difterite. Per lavarsi gli internati hanno a disposizione tre o quattro rubinetti per blocco, senza sapone e con l’acqua che viene tolta frequentemente. Vicino ai lavatoi ci sono anche i gabinetti composti da due fori per l’escrezione, mentre la lavanderia la possono usare solo alcune «persone privilegiate»[8].

Anche dal punto di vista della vigilanza Titho mantiene gli stessi uomini e la stessa impostazione che aveva già adottato a Fossoli. Nel campo veniva nominato dai detenuti un capo campo e un suo sostituto. La disciplina è molto più dura e, rispetto a Fossoli, le violenze sono quasi quotidiane. I misfatti più gravi avvengono nel «blocco celle» dove sono seviziati e assassinati: Augusta Menasse, Giulia Leone, Alberto Niszim, Guido Raffa, Dora Luzzati, Elda Levi e Bortolo Pezzutti. Tranne Raffa e Pezzuti, tutti gli altri sono di religione ebraica. Complessivamente il numero degli ebrei deceduti nel campo, durante la sua attività, sono dodici, perché a quelli già menzionati bisogna aggiungere altri 7 ebrei: Alberto Levi, Mario Foà, Marco Vitale, Maria Terracini, Giuseppe Salomoni, Angelo Colombo e Ettore Graziani.

Tra le vittime del lager, ci sono i 23 prigionieri che tra le sue mura furono internati prima di essere fucilati nella caserma Mignone il 12 settembre 1944. Sembra anche che la  «zingara» Edvige Mayer, arrestata a Castello Tesino (BZ), il 28 aprile 1945 vi sia stata eliminata. Mentre altre otto persone sono morte subito dopo la liberazione a causa dei maltrattamenti o delle malattie contratte durante la reclusione. Invece, altre sei persone trovano la morte subito dopo essere evase o dopo essere state liberate, in scontri a fuoco contro le truppe naziste. Infine, non bisogna dimenticare che due terzi, almeno 2.500 persone, dei 3.802 deportati dal Polizei- und Durchgangslager Bozen nei lager oltre il Brennero non fecero più ritorno a casa. Per loro, l’internamento tra le mura di via Resia è stato un passaggio decisivo e propedeutico alla loro successiva deportazione verso l’annientamento.

Delle maggior parte delle violenze e degli omicidi avvenute nel campo sono responsabili i due militi delle SS: il lettone di origine tedesca Otto Sein e l’ucraino Michael Seifert, quest’ultimo conosciuto tra gli internati come «Mischa». I due, comunque, non potevano agire senza il consenso o la complicità del responsabile della disciplina Hans Haage e del suo braccio destro di Albino Cologna. Mentre, per i maltrattamenti e le brutalità contro le donne, la principale responsabile è Hilde Lächert che, per la sua ferocia, gli internati chiamano la «Tigre».

Esterno del blocco celle.

Interno di una cella di punizione.

Le deportazioni e i campi esterni

Come era successo a Fossoli, anche gli internati di Bolzano sono prigionieri del Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des Sicherheitsdienst (Comandante della Polizia di Sicurezza e dei Servizi di sicurezza) di Verona. L’organizzazione dei convogli è decisa dall’ufficio IV della Gestapo: per gli ebrei, dall’ufficio «IVB4» diretto dall’SS-Sturmbannführer Friedrich Boßhammer; mentre degli oppositori politici si occupa soprattutto Karl Müller dell’ufficio Schutzhaft diretto da Franz Schwinghammer. La divisione tra le due categorie avviene anche nella compilazione delle schede personali: «quella politica e quella “razziale”, erano divise con attenzione, sulla base della motivazione specifica dell’arresto»[9].

Su circa 9.500 internati a Bolzano, 3.802 sono quelli deportati nei lager oltre Brennero. Dal 5 agosto 1944 al 22 marzo 1945, sono stati 16 i trasporti partiti per i campi di concentramento del Reich. La maggior parte dei detenuti di Bolzano è stata inviata nel campo di Mauthausen (1.914 internati) e nei suoi sottocampi. Le partenze per Mauthausen, che è l’unico lager di terza categoria dove i nazisti inviano gli internati ritenuti «incorreggibili» sono indicate nella tabella sotto riportata.

I trasporti partiti da Bolzano diretti nei lager oltre il Brennero. Laboratorio di storia di Rovereto, Il popolo numerato, p. 48.

Le deportazioni sono organizzate ammassando 65 persone per ogni vagone merci, dove rimangono stipati per tutto il viaggio. Un ultimo grande convoglio, composto da oltre 700 internati, viene organizzato per il 25 febbraio 1945. A causa dei bombardamenti, che danneggiano la stazione e la linea ferroviaria per il Brennero, gli internati sono costretti a rimanere rinchiusi nei dodici vagoni bestiame per trenta ore senza mangiare e bere per poi essere nuovamente ricondotti nel campo.

Nell’ultimo periodo, nonostante la linea interrotta, il BdS di Verona per continuare a trasferire manodopera coatta in Germania invia al campo di Bolzano il maresciallo Billhartz (sic!) perché organizzi direttamente sul posto i convogli. Ma, a parte i 52 internati inviati a marzo a Dachau con due trasporti, probabilmente con dei torpedoni, non risulta che sia riuscito a organizzare altre deportazioni di massa oltre il Brennero.

Dal settembre 1944, la presenza media nel campo si aggira intorno alle 1.200 unità. Negli ultimi tre mesi, quando le deportazioni sono impraticabili, le presenze superano le 2.000 unità. Durante il suo funzionamento, secondo alcune testimonianze, sono alcune centinaia quelli che riescono a evadere o che sono rilasciati dal comando del campo. Tra questi anche diversi Arbeitseinsatz Häftlinge «detenuti impiegabili nel lavoro», contrassegnati con il triangolo rosa, che vengono consegnati, probabilmente all’inizio del 1945, all’organizzazione Todt di Verona.

Rispetto alle evasioni, Titho parla di più di 200 casi, molti dei quali si verificano nell’ultimo periodo, quando si assiste alla diserzione di «80 uomini della polizia trentina» che garantivano la vigilanza[10]. Alcuni di essi erano riusciti a riconquistare la libertà riuscendo anche a corrompere le guardie del campo o le autorità superiori.

Diverse evasioni avvengono durante il trasferimento dal campo alla fabbrica della IMI impiantata nella galleria del Virgolo e dai sottocampi di lavoro. Oltre ai servizi esterni al campo, sono attivati dei campi satelliti. Come ricorda Titho: «Il campo di concentramento di polizia di Bolzano doveva mettere a disposizione di diversi uffici militari e civili di continuo degli operai. Inoltre manteneva posti di lavoro esterni permanenti»[11]. Eccetto i campi di Merano e di Certosa in val Senales, attivi già nell’agosto del 1944 per lo stoccaggio dei beni razziati dai nazisti, gli altri vengono istituiti nei mesi successivi. Dalla ricostruzione fatta dal comandante del campo, risulta che siano stati allestiti:

  • campo della caserma di artiglieria in Oltrisarco con 320 persone, fra le quali 140 donne. Detti detenuti erano occupati nell’officina industriale della galleria del Virgolo.
  • campo della Ruk a Vipiteno con 250 uomini.
  • campo nella caserma delle SS di Vipiteno di 60 uomini.
  • campo presso il deposito di economia militare a Merano (commissariato) consistente di 100 uomini e donne sotto la sorveglianza dello stesso deposito.
  • campo a Moso di Passiria (giogo Timbl) di 120 uomini sotto la sorveglianza delle SS.

Oltre a quelli già citati si hanno notizie anche di alcuni Kommandos di lavoro a: Bressanone, Colle Isarco e Dobbiaco. Nell’ultimo periodo, da Verona, viene spostato a Chiusa anche un comando denominato «Cypresse». Si hanno notizie anche di alcuni internati utilizzati presso la caserma di Salorno.

Il campo di Merano è il primo di quelli esterni a essere istituito, nell’estate del 1944 a Maia Bassa. I circa 400 internati che vi sono reclusi sono adibiti soprattutto allo stoccaggio delle merci trafugate in Italia e da inviare in Germania. Sono utilizzate l’ex caserma «Francesco Rossi in via Palade, di fronte all’ingresso dell’ippodromo» e, dall’ottobre 1944, anche l’ex caserma «Venosta della Guardia alla Frontiera presso il ponte di Marlengo»[12]. Opere d’arte, quadri, mobilia, indumenti e beni di diversa natura, venivano immagazzinati prima di essere smistati sui treni per oltre il Brennero. La vita nel campo di Merano, anche se non mancano punizioni e prevaricazioni contro gli internati, è sicuramente migliore rispetto a Bolzano. 

 

La Resistenza esterna e interna al campo

Dopo l’8 settembre 1943 nella provincia di Bolzano inizia un’attività clandestina di Resistenza che poi avrebbe portato alla costituzione del locale Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). I primi resistenti, che cercano di ribellarsi all’occupazione e al tentativo annessionistico nazista, sono: il dott. Manlio Longon «Angelo» direttore della S.A. Magnesio, il suo impiegato Armando Condanni (fidanzato di Isabella Selvi), l’ingegnere Giovanni Saulle dell’Azienda della Strada, il fotografo Enrico Pedrotti, «Marco» del Partito Comunista e pochi altri. Seppur in pochissimi, questi partigiani cercano di creare dei collegamenti con gli analoghi movimenti clandestini delle vicine province di Belluno e di Trento. Inizialmente si muovono singolarmente e, oltre a prendere contatti, cercano di raccogliere stampa clandestina per distribuirla nella provincia di Bolzano. Quest’attività era favorita, in quanto residenti, dalla possibilità di potersi muovere liberamente nell’ambito della Zona d’operazione delle Prealpi.

Per la provincia di Bolzano Giovanni Saulle scrive che «era praticamente impossibile costituire formazioni partigiane nel senso classico perché l’ambiente ostile della popolazione allogena non avrebbe permesso né la loro attività né neanche la loro esistenza». Inoltre, oltre ad alcune divisioni interne, tra la Resistenza di lingua italiana, più connotata nell’ambiente urbano e operaio, e quella di lingua tedesca, caratterizza «dall’aspetto rurale, religioso e individualistico», hanno delle difficoltà a collaborare. Difficoltà acuite da reciproche diffidenze e pregiudizi, che sono molto radicati nelle due comunità[13].

Con queste difficoltà, l’organizzazione clandestina militare bolzanina è costretta a studiare nuove tecniche di Resistenza. Non potendo dar vita a una lotta armata, iniziano a diffondere la stampa antifascista e a raccogliere fondi e offerte spontanee. Questa attività cospiratrice solo nel maggio 1944 riesce a raggiungere una certa «efficienza».

In piena estate i resistenti della provincia di Bolzano effettuano alcune operazioni di sabotaggio. Nei primi giorni di dicembre 1944, per riuscire ad avere maggiori aiuti e sostegno, il dott. Longon si reca personalmente a Milano e prende contatti diretti con il comando del Corpo Volontari della Libertà. Questa è una delle ultime iniziative che il principale esponente della Resistenza di Bolzano riesce a portare a termine, perché il 15 dicembre 1944 viene arrestato dal direttore della Gestapo August Schiffer.

L’arresto di Longon è un successo dell’organizzazione di spionaggio che il KdS di Bolzano è riuscita a costruire nella Zona d’operazione delle Prealpi. Una fitta rete di spie e confidenti assoldati dalla Gestapo che, anche per quello che gli Alleati chiamano il «caso Longon», è risultata efficace nel garantire il controllo del territorio. Longon, dopo avere subito ogni genere di torture durante gli interrogatori viene ucciso la notte di capodanno nei sotterranei del Corpo d’Armata. Il suo corpo, per fare credere che si fosse suicidato a causa del rimorso per avere fatto i nomi dei compagni, viene poi portato dagli aguzzini nel blocco celle del campo.

Durante il suo ultimo interrogatorio, molto probabilmente, Longon è costretto a fare alcuni nomi, ma non dice tutto. Infatti, dopo la sua uccisione, il Comitato esterno, seppure con mille difficoltà, viene ricostituito dai compagni e dalle compagne rimasti in libertà

Il 15 dicembre 1944 ai primi di gennaio 1945, sono arrestati quasi tutti i principali responsabili del CLN di Bolzano. Pochi sono quelli che riescono a sopportare le violenze fisiche e psicologiche. In alcuni casi queste erano accompagnate anche da ricatti e vessazioni che coinvolgevano, alcune volte, i familiari. Uno dei pochi che riesce a resistere è l’organizzatore della rete clandestina che aiuta gli internati nel campo di concentramento: Ferdinando Visco Gilardi Effettivamente Gilardi, nome di copertura «Giacomo», all’interno del CLN di Bolzano è l’ideatore e il coordinatore del «Comitato» che si occupa di aiutare gli internati del Polizei- und Durchgangslager di Bolzano. A chiedere a Gilardi di dedicarsi a questa attività, in favore degli internati di via Resia, è il suo amico Lelio Basso, dirigente di primo piano del Partito Socialista clandestino, dopo averlo incontrato casualmente alla stazione di Verona.

L’attività di «assistenza» inizia nel settembre del 1944, dopo la definitiva costruzione del lager e l’arrivo di molti internati politici dalle carceri dell’Italia settentrionale. In poco tempo Gilardi, con il sostegno del CLN di Bolzano, crea l’«organizzazione esterna» per aiutare gli internati del campo. Tramite emissari la struttura mantiene stretti rapporti con il CLN Alta Italia di Milano. Coordinati da Basso, gli aiuti partono dal capoluogo lombardo nascosti nei camion diretti alle fabbriche (Mangesio, Falck, CEDA, Lancia, ecc.) della zona industriale di Bolzano. In questo modo arrivano lettere, messaggi, aiuti economici e materiali al «Comitato di assistenza» che si preoccupa successivamente di farli arrivare al «Comitato di Liberazione e sussistenza» interno. Grazie a questa rete di solidarietà, che coinvolge diversi bolzanini, in particolare gli operai delle semirurali, sono introdotti nel campo pacchi con viveri, indumenti e somme di denaro. Aiuti che comunque non bastano a soddisfare tutte le esigenze degli internati anche perché, in alcuni casi, i pacchi sono intercettati e in parte saccheggiati o sequestrati dalle guardie. Non sempre era possibile far arrivare alle persone giuste le informazioni e gli aiuti necessari. Per sfuggire a possibili soffiate e controlli l’«organizzazione interna», coordinata da Ada Buffulini[14], adotta una serie di strategie e l’infermeria diventa una delle centrali della rete clandestina.

Le iniziative del «Comitato» sono determinanti anche per organizzare e favorire le fughe. Chi riesce a evadere trova un rifugio sicuro garantito dalla rete clandestina. Anche dopo gli arresti di dicembre, il «Comitato esterno» viene ricostruito. La sua riorganizzazione si deve soprattutto a Franca Turra «Anita», che ne eredita la responsabilità organizzativa, e alla componente femminile della struttura.  All’esterno del lager, garantiscono le loro cure a fuggitivi e ricercati anche medici e infermieri dell’Ospedale di Bolzano. In favore dei detenuti nel campo, operano pure altri soggetti non direttamente collegati al CLN, come: la «Brigata Alvise Bari», la «Brigata Giovane Italia» e altre organizzazioni cattoliche, in particolari quelle vicine all’amministratore apostolico di Belluno e Feltre monsignor Girolamo Bartolomeo Bortignon. Ricordiamo che è significativa la presenza di religiosi internati nel campo: 27 preti e 9 frati cappuccini.

Anche se tutti si riconoscono nel «Comitato di Liberazione Nazionale del campo di concentramento di Bolzano», ogni gruppo politico ha un suo «Comitato interno» di riferimento. Inizialmente sono almeno tre: quello del Partito Comunista, del Partito Socialista e del Partito d’Azione. Il gruppo di Resistenza interna e esterna, dal settembre 1944 al febbraio 1945, è stato organizzato prevalentemente dagli internati che si riconoscono in questi tre partiti. Solo verso la fine di febbraio del 1945 viene istituito anche quello del Partito Democratico Cristiano.

L’organizzazione clandestina dentro e fuori dal campo. Leonardo Visco Gilardi – ANED Milano.

Come si presentava il campo di concentramento e in particolare il piazzale dell’appello dopo la liberazione. Foto di Enrico Pedrotti.

Lo scioglimento del campo

Sulla chiusura del lager avvenuta verso la fine dell’aprile 1945 ci sono ancora molti dubbi e le ricostruzioni, per la maggior parte fornite dalle testimonianze degli internati, non hanno ancora chiarito effettivamente come avvenne. stando alla testimonianza del dirigente della Gestapo di Bolzano August Schiffer, l’ipotesi di eliminare i detenuti «più pericolosi» viene avanzata ad Harster dal capo del KdS Rudolf Thyrolf. La proposta di Thyrolf prevede che gli internati di categoria III, in quanto «soggetti a Sonderbehandlung (trattamento speciale)», non devono «essere liberati ma dovrebbero essere uccisi nel campo». Haster acconsente a che si proceda alla loro eliminazione, ma non vuole «assolvere alcun ordine ufficiale in questo senso» e lascia «la questione alla discrezione e alla responsabilità di Thyrolf», il quale a sua volta non è disposto a «ordinare l’esecuzione degli internati di categoria III del campo sotto la sua responsabilità». Il rifiuto di entrambi di assumersi l’onere dell’esecuzione, sapendo che una scelta del genere sarebbe costata cara subito dopo la fine delle ostilità, salva parte dei detenuti del campo da morte certa.

Anche i componenti del CLN di Bolzano vengono a sapere che i politici e gli ebrei internati nel campo possono essere «liquidati». Non ci sono riscontri certi della trattativa tra i partigiani e il comandante del campo, ma è possibile che sia avvenuta anche se, a determinare lo scioglimento del Polizei- und Durchgangslager, molto probabilmente è stata la decisione presa dagli alti funzionari nazisti. Infatti, mentre i detenuti stanno progettando possibili azioni di resistenza, alle ore 8 del 28 aprile arriva al comando «l’ordine di iniziare immediatamente la liquidazione del campo».

Non è un caso che, nei giorni successivi, la città di Bolzano diventi una specie di zona franca per molti criminali nazisti e un’eventuale liquidazione cruenta del campo avrebbe avuto ripercussioni negative  La liberazione degli internati avviene a scaglioni e con un certo ordine. Muniti di un regolare Entlassungsschein (certificato di rilascio), coloro che possono, cercano di raggiungere le proprie abitazioni con i mezzi di fortuna che riescono a trovare lungo la strada. Il gruppo degli ebrei è liberato tra il 29 e il 30 aprile. Quelli inviati verso Merano, stando alla lista stilata dalla Croce Rossa Internazionale, sono 107. Alcuni di essi, prima di poter ritornare a casa, per diversi giorni furono ospitati negli alberghi della città.

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Altre fonti
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  • Film di Dario Dalla Mura e Elena Piroso, Gli ultimi mesi del campo di Bolzano, Associazione memoria immagine, (Italia 2021, 45′) 2021.
  • http://www.comune.bolzano.it/cultura_context.jsp?ID_LINK=3605&area=11

Note:

[1]  Il maggiore Thyrolf dirige le SS nella Zona d’operazioni delle Prealpi o Ozav (acronimo di Operationszone Alpenvorland) cui fanno parte le provincie di Bolzano, Trento e Belluno che di fatto si intendono annesse al Terzo Reich. A. Di Michele, R. Traini (a cura di), La Zona d’operazioni Prealpi nella seconda guerra mondiale, Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento 2009.

[2]  C. Di Sante, Criminali al campo di Bolzano, p. 56.

[3] Testimonianza di Alfredo Poggi, Polifemo senza legge, in G. Mezzalira e C. Romeo, “Mischa” l’aguzzino del lager di Bolzano, p. 67.

[4]  L’interrogatorio di Titho, alla Questura di Bolzano, inizia il 20 agosto 1945 e, con alcuni giorni di pausa, continua dal 24 al 27 agosto, per concludersi il 30 seguente. Cfr. C. Di Sante, Criminali al campo di Bolzano, pp. 35-40.

[5]  La relazione è stata pubblicata per la prima volta da Luciano Happacher, che aveva recuperato il documento presso l’Archivio del Movimento di Liberazione in Italia, nel fondo C.V.L., b. 18, fasc. 4, a. 8: Il Lager di Bolzano, pp. 213-215.

[6]  Molti prigionieri – uomini e donne – ebbero una tuta chiara, color corda.

[7]  Con il medico del campo, Karl Pittschieler, lavoravano i tre dottori internati: Ada Buffulini (del Psi di Milano); l’ebreo Davide Giuseppe Diena, deportato a Flossenbürg il 14 dicembre 1944 e qui deceduto il 2 marzo del 1945; l’italo-americano Frank Pisciotta.

[8]  Testimonianza di Luigi Pirelli agli Alleati, Bolzano 9 giugno 1945. National Archives Records Administration, “War crimes. Bolzano”, Box 2059, folder 1.

[9]  S. Berger, Il BdS, l’ufficio IV B4 e la persecuzione degli ebrei, in S. Berger (a cura di), I signori del terrore, pp. 93-118.

[10]  Verbale dell’interrogatorio di Karl Friedrich Titho, Bolzano 20 agosto 1945. NARA, “War crimes. Bolzano”, Box 2060, folder 3.

[11]  Ivi.

[12]  Cfr. Il popolo numerato, pp. 77-81.

[13] Cfr. L. Steurer, Le deportazione dall’Italia. Bolzano, pp. 440-441.

[14]  Ada Buffulini, nome di battaglia «Anita», grazie alla sua laurea in medicina venne impiegata nell’infermeria del campo. Riuscì a coordinare il comitato clandestino interno fino al 2 marzo 1944 quando fu rinchiusa nel blocco celle.

Dati articolo

Autore:
Titolo: Il Polizei- und Durchgangslager di Bolzano
DOI: 10.52056/9791254691090/05
Parole chiave: , ,
Numero della rivista: n.17, giugno 2022
ISSN: ISSN 2283-6837

Come citarlo:
, Il Polizei- und Durchgangslager di Bolzano, in Novecento.org, n. 17, giugno 2022. DOI: 10.52056/9791254691090/05

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