Le tensioni nazionali nell’Impero e il cambio di sovranità, il caso trentino
Il Mausoleo di Cesare Battisti
Foto di Paolo Deimichei – Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento
Abstract
Negli ultimi cento anni, diversi confini hanno separato il territorio del Trentino e dell’Alto Adige in punti che sono cambiati nel tempo. Il saggio analizza la questione dell’identità nazionale della popolazione trentina nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento al primo dopoguerra, esaminando il quadro locale e i rapporti complessi con il Regno d’Italia: un sistema in cui gioca un ruolo importante anche lo sport, in particolare il ciclismo e l’escursionismo.
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Over the last hundred years, various borders have separated the territory of Trentino and South Tyrol at points that have changed over time. The essay analyses the question of the national identity of the Trentino population in the period from the end of the 19th century to the first post-war period, examining the local framework and the complex relations with the Kingdom of Italy: a system in which sport, in particular cycling and hiking, also played an important role.
Il confine
La parola confine non segna solo una distinzione tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra di una linea. Se facciamo proprie le considerazioni di Gian Primo Cella, sono i confini a fornire uno straordinario principio di rafforzamento della realtà, contribuendo a rendere unitario, per il solo effetto di esistere, quello che è proprio da essi circoscritto[1].
Negli ultimi cento anni, diversi confini hanno separato il territorio del Trentino e dell’Alto Adige in punti che sono cambiati nel tempo. Confini nazionali che sono stati spostati da Ala al Brennero, confini interni che sono mutati (il Land del Tirolo Vorarlberg, nel 1922 la provincia unica con capoluogo a Trento, nel 1927 le due province di Trento e Bolzano, nel 1972 il complesso sistema della regione con le due province autonome).
Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono stati molto delicati per quanto concerne la questione dell’identità nazionale della popolazione trentina, della sua élite e il rapporto con il Regno d’Italia.
La conclusione del processo risorgimentale con la costituzione del Regno e poi la sottoscrizione della Triplice Alleanza nel 1882, avevano sancito l’inizio di una fase politica internazionale che sembrava ostacolare qualsiasi attività che avrebbe potuto incrinare l’accordo che univa il Regno all’Impero austro-ungarico.
L’azione propriamente politica di chi sosteneva la necessità di separare dal resto del Tirolo la minoranza italiana che viveva in Trentino per unificarla all’Italia, risultava di fatto impedita dalla sottoscrizione dell’accordo tra i due Stati, che aveva sottratto l’appoggio ufficiale del Regno a qualsiasi richiesta anti-austriaca.
Cultura e antropologia
Spostando l’analisi dal piano diplomatico a quello culturale-antropologico, l’appartenenza nazionale della popolazione che abitava l’attuale Provincia autonoma di Trento era ancora poco caratterizzata dal punto di vista nazionale. Le analisi linguistiche, i racconti dei viaggiatori che attraversavano le Alpi e la cultura materiale dell’epoca, testimoniano una pluriappartenenza nazionale, che veniva vissuta senza particolari disagi. Si poteva parlare italiano e contemporaneamente essere fedeli a Francesco Giuseppe, senza che le sovrapposizioni e le incongruenze fossero necessariamente portatrici di conflitti insanabili.
In questo contesto fluido dal punto di vista identitario, alla fine del XIX secolo alcuni fattori stavano però iniziando a cambiare, soprattutto nei centri maggiori Trento e Rovereto, dove una crescente insoddisfazione per la politica austriaca e la delusione per l’epilogo dei moti del 1848 e del 1860 spingevano la borghesia cittadina su posizioni maggiormente filo italiane.
In Trentino, a Trieste e lungo il Litorale, dove era concentrata la popolazione di lingua italiana dell’Impero Austroungarico, si stava sviluppando una politicizzazione della società civile in chiave nazionale frutto della ricerca di un consenso nella popolazione, interessata da una fitta rete di associazioni culturali ed artistiche, sportive e ricreative. Le azioni di queste società andavano ben al di là dei loro scopi statutari e riuscivano a mobilitare molte più persone di quelle che praticavano realmente le attività fisiche proposte, in un’incipiente “nazionalizzazione delle masse”.
Queste associazioni si distinguevano per la capacità di produrre delle liturgie laiche che davano espressione al culto della nazione, riuscendo ad attivare reazioni emotive attraverso l’organizzazione di manifestazioni solo apparentemente non politiche come feste, spettacoli musicali, brindisi in occasioni sportive, merende. Progettavano luoghi simbolici per i soggetti che illustravano – come i monumenti – o per la posizione geografica che occupavano – ad esempio dei rifugi alpini- .
Lo sport
Oltre alla monumentalistica[2], un altro veicolo per rinsaldare il legame con il Regno d’Italia era fornito dalle attività promosse dalle associazioni sportive.
Come accade tra XIX e soprattutto XX secolo in Europa, molti dei gruppi nazionali in cerca di autonomia o in lotta per l’indipendenza dalla maggioranza tedesca in Austria-Ungheria, adottarono gli esercizi, i simboli, i rituali dei Turnen (società ginnastiche) teorizzati da Friedrich Ludwig Jahn.
Il caso più evidente era forse quello dei Sokol, associazioni ginnastiche nate originariamente in Boemia (ora Cecoslovacchia), dove il primo Sokol (falco) è stato fondato nel 1851 con chiari intenti patriottici, tanto che i suoi soci avrebbero poi fornito la maggioranza dei volontari boemi nella Prima guerra mondiale contro gli imperi centrali. Si tratta di un esempio che mostra come gli stessi rituali potessero essere utilizzati in modo diverso a seconda delle intenzioni che li animavano, e la validità della ‘ricetta’ di Jahn, adattabile a tutti i contesti di lotta nazionale.
Benché la situazione in Trentino non giungesse alle punte di acre scontro della Boemia, ma neppure presentasse quel carattere di violenza che talvolta compare nella italiana-asburgica Trieste, il clima si riscaldava notevolmente anche in quelle vallate e investiva non solo le arene politiche, ma anche due elementi che non rientrano nelle categorie della storia istituzionale: cioè il corpo e il territorio, stretti in un inedito modo di praticare entrambi, unirli e dare loro un significato che è quello identitario di una comunità nazionale. La pratica fisica si sposava con una lettura che da geografica diventava sempre più simbolica del territorio: se la ginnastica era diffusa nel XIX, in Trentino nel XX è soppiantata dall’alpinismo e dal velocipedismo/ciclismo.
In questo processo si possono inscrivere i cambiamenti che subentrano nella lotta per l’autonomia, un tema certo non nuovo, ma la cui cifra cambiò inesorabilmente nei primi anni del secolo spostandosi dalle aule della Dieta di Innsbruck e dal parlamento di Vienna, per arrivare nelle aule delle università, negli scontri tra studenti ‘italiani’[3] e ‘tedeschi’. Entrano in questa dinamica conflittuale per coinvolgere la costruzione degli asili di lingua tedesca voluti dal Volksbund nelle zone mistilingue, e le attività di contenimento della Lega Nazionale, che provvedeva alla costruzione di simmetrici asili di lingua italiana e infine l’utilizzo stesso del corpo in pratiche fisiche non competitive, per lo più dimostrative di una presenza, di una forza e di un legame con il vicino Regno d’Italia.
Torniamo quindi alla questione dei confini, da cui siamo partiti.
Il Giro del Trentino
Per opporsi a qualcuno o a qualcosa bisogna sapere prima chi si è e, secondo Pierre Bourdieu, “la distinzione è anche un insieme di riti di istituzione, ovvero atti di investitura simbolica, con le connesse magie performative”[4]: il Giro dei confini ciclistici del Trentino in velocipede corso nel 1908 può appartenere a questi rituali performativi in cui corpo, territorio e identità trovano una fusione efficace.
Il peso del Giro come performance politica è suffragato dall’episodicità dell’evento, perché non venne ripetuto l’anno successivo, e dalla sua non competitività: anzi, molti dei suoi caratteri sembrano richiamare più i cortei che si formavano per accompagnare oggetti sacri (statue o reliquie) dato che in realtà solo sette corridori lo percorsero nella sua interezza, e furono accompagnati nelle varie giornate dai gruppi locali di velocipedisti federati (dalle cronache mai inferiori a venti) e accolti in occasione dei pranzi e delle cena dai podestà dei vari paesi incontrati, nonché dai vari presidenti dei circoli.
Già il titolo dell’evento presentava le parole chiave del processo identitario trentino all’inizio del secolo scorso, una costruzione che passava soprattutto attraverso il contrasto e in cui l’appropriazione del territorio e della sua liminalità assumeva un valore sempre più significativo.
Dalla prima parola Giro: presuppone una circolarità, la compiutezza di una forma geometrica chiusa. Nella cronaca del Giro pubblicata sul quotidiano Alto Adige il 4 agosto 1908, si leggeva che uno dei sette corridori protagonisti, di fronte all’accoglienza ricevuta a Cavalese, disse che «la gita era stata fatta unicamente per dimostrare che il Trentino non è un’utopia, ma bensì esiste e sa far rispettare il proprio diritto di esistere». Utopia nel senso di desiderio, ma anche più etimologico di non luogo, a cui contrapporre un’entità geografica in grado addirittura non solo di esistere, ma dotata di diritti da far rispettare.
Il giro era ciclistico, non a piedi, non a cavallo, ma in bicicletta. A differenza dell’alpinismo, pratica più elitaria e già all’inizio del secolo radicata e con una sua tradizione alle spalle, il velocipedismo si caratterizzava come metafora di modernità. Con i treni e i transatlantici, la bicicletta si inseriva nel mito della velocità, contribuendo a cambiare la percezione del tempo e soprattutto delle distanze: la bicicletta accelerava di quattro volte la velocità dell’andamento a piedi, permettendo per la prima volta a moltissime persone di viaggiare individualmente e liberamente.
La metafora, diffusa sulla stampa dell’epoca anche in Trentino, della bicicletta come cavallo alato, e del velocipedista come cavaliere, segnò anche l’appropriazione simbolica di una possibilità di spostamento veloce che in precedenza era appartenuta a pochi, e che invece si diffuse in maniera esponenziale sia tra gli operai che tra i contadini.
Si possono desumere i dati quantitativi relativi al numero dei soci e delle società presenti sul territorio dalla Strenna della Federazione ciclistica trentina, sorta nel 1905 con l’intento di costituire “una grossa falange sportiva con proprio statuto, amantissima della sacra sua terra, conscia dei pericoli che la minacciano, legando così a mezzo della balda gioventù, d’ogni ceto e condizione, le città, le borgate, i paeselli, i casolari, in unione concorde di fratellanza”[5].
La copertura territoriale delle società fu estesa, soprattutto se si considera il cattivo stato delle strade, nonché la natura montuosa del Trentino. Nella Strenna del 1913 sono dichiarati 1000 soci, non concentrati nei centri maggiori, ma distribuiti anche nelle vallate.
Il Giro è ciclistico e del Trentino: un termine, ‘Trentino’, per nulla scontato in quell’epoca. Del tutto inutilizzato dalle autorità imperiali, che fino all’ultimo utilizzeranno il toponimo Welschtirol, venne fatto proprio anche dal quotidiano cattolico che lo assunse come testata il 27 marzo del 1906, suscitando notevoli polemiche tra chi oltre Brennero sosteneva addirittura che ‘non c’è nessun Trentino’.
I quotidiani al seguito
Poi la parola confini; negli stessi giorni del Giro, sul quotidiano socialista Il Popolo, diretto dal socialista e geografo Cesare Battisti, si rispose ad una polemica del giornale Innsbrucker Nachrichten, che sosteneva l’inesistenza del Trentino, che veniva smontato in diversi pezzi geografici (Primiero, val di Non, val di Fiemme e Fassa, il roveretano…) fino a disconoscerne ogni carattere unitario. «Dunque – conclude ironicamente l’articolo – il Trentino non esiste e, e qui viene l’importante, non si darà mai l’autonomia ad un paese che non esiste»[6].
Realizzare un giro dei confini significa, per riprendere le osservazioni di George Vigarello a proposito del Tour de France, corso per la prima volta l’anno precedente, nel 1907, mettere «in scena uno spazio-nazione, una scena costituita dal territorio stesso […]. Il Tour non solo rende visibili confini e l’unità del paese, ma ne suscita anche la memoria»[7].
Non sembri eccessivo il richiamo al Tour francese, che ebbe importanti implicazioni politiche per quanto riguarda in particolare le tappe corse lungo le province perdute a favore della Germania e che probabilmente era un precedente noto agli organizzatori trentini, dato che sull’Alto Adige il 9 agosto 1908 compare una corrispondenza dal secondo Tour.
Il 24 luglio 1908 compaiono sul giornale socialista Il Popolo le informazioni tecniche del Giro, che durò cinque giorni, coprì circa 449 km e coinvolse nella sua interezza solo sette ciclisti, accompagnati di giorno in giorno dai soci delle sedi locali delle società velocipedistiche.
Il Giro e l’idendità locale italiana
Il percorso ricalcava sì i confini, ma soprattutto univa i nodi ideali dell’identità locale italiana.
- (I giorno) Rovereto, Riva, Molina, Bezzecca, Tione,
- (II giorno) Tione, Spiazzo, Campiglio, Malè, Mostizzolo, Cavareno
- (III giorno) Cavareno, Dermulo, Mezzolombardo, Lavis, Cembra, Grumo, Cavalese,
- (IV giorno) Cavalese, Predazzo, Primiero
- (V giorno) Primiero, Dogane, Fonzaso, Primolano, Borgo, Levico, Trento
Le cronache che seguono nel dettaglio lo svolgersi della manifestazione avevano sempre il tono trionfale dei fiori gettati dai balconi, dei discorsi e delle festose accoglienze.
Si trattò tutto sommato di un piccolo Trentino quello segnato da questo confine, ma non per questo poco significativo: era un percorso che poteva essere ascritto alla cartografia ingenua o topologica, cioè a una rappresentazione in cui la forma conta meno delle esigenze soggettive che si vogliono sottolineare.
Si pensi alla garibaldina Bezzecca, di cui era caduto l’anniversario il 21 luglio, solo una decina di giorni prima del Giro, ma anche ai paesi della Valle di Non, così vicini alla Frontiera nascosta riccamente documentata da Cole e Wolf nell’omonimo volume. Il percorso scelto per raggiungere Cavalese non è casuale, ma riprende quello che in Trentino si sperava – vanamente – sarebbe stata la traccia della ferrovia che avrebbe congiunto Trento con la Val di Fiemme, il passaggio nel Primiero, il lambire la frontiera con il Regno d’Italia a Primolano e il ritorno a Trento, dove i corridori concludono il giro nell’ombelico della patria-trentino, la statua a Dante.
Il Giro dei confini ciclistici del Trentino entrò a pieno titolo in quelle manifestazioni che concorsero a chiarire e a introiettare l’esistenza e la peculiarità – vera o presunta – del Trentino anche attraverso il segno impresso dalle ruote delle biciclette sulle strade.
La scelta stessa come mezzo di locomozione della bicicletta è significativa non solo per i riferimenti già sottolineati alla modernità, ma anche per l’utilizzo delle strade. Non sentieri, non vie antiche, ma strade che – come scrive Daniele Marchesini ne L’Italia del giro – «nel loro costituire un apparato continuo e funzionale che innerva la globalità di un territorio, attestano la vitalità dell’evento che vi si svolge, nel quale un paese può riconoscersi e rispecchiarsi»[8]; se questo apparato non funziona – e l’obsolescenza del sistema viario era uno dei temi delle polemiche e delle recriminazioni dei trentini nei confronti di Innsbruck – le strade forniscono anche la concretizzazione della frantumazione e dell’abbandono in cui la comunità può sentirsi.
Il Giro dei confini contribuì a dare capacità generativa al confine, che non ha un ruolo secondario e derivato, rivolto a delimitare differenze e distinzioni già consistenti, ma è esso stesso, nel momento in cui viene percorso, segnato, impresso su un territorio, dotato di un potere performativo che contribuì alla definizione dell’identità trentina attraverso il contrasto.
L’antropologo norvegese Fredrik Barth, a proposito dei gruppi etnici e delle comunità locali, scriveva nel 1969 una frase che ho trovato valida per il Trentino in via di definizione del XIX e XX secolo: «diventa il confine etnico che definisce il gruppo, non la sostanza culturale che esso racchiude».[9]
Appartenenza e spaesamento
Le tragiche esperienze vissute durante il conflitto dalla popolazione civile e militare trentina furono importanti, perché segnarono in profondità la popolazione. Nel breve periodo, negli anni successivi all’annessione, il ricordo del trattamento subito dalle autorità imperiali rese difficile l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e collaborazione reciproca con la popolazione di lingua tedesca residente a nord di Salorno. Secondo il trentino Alcide De Gasperi, il peso di questo passato avrebbe influito anche sulla valutazione con cui le autorità italiane lessero le proposte dei trentini, che vennero sottovalutate proprio perché considerate viziate dal desidero di vendetta sui “cugini” tirolesi.
Il fatto che la popolazione trentina facesse parte del Regno d’Italia, potrebbe far pensare a una completa soddisfazione della popolazione o per lo meno di quella élite che aveva guidato il movimento filoitaliano negli anni che avevano preceduto la guerra.
Eppure, dalle cronache del 1919 e del 1920 emerge anche un senso di spaesamento, la necessità di trovare una nuova posizione soggettiva, prima ancora che geografica.
Nel giugno del 1919 (sette mesi dopo la fine della guerra), il Veloce Club Trentino organizzò una gita ad Ala e Avio, al vecchio confine tra Austria e Italia. Ma ricordare una barriera, seppur commemorando la sua sparizione, non era più in linea con i tempi, tanto più perché Ala e il paesaggio circostante erano molto segnati dalle distruzioni della guerra, il cui ricordo doloroso si voleva rimuovere al più presto.
Lo spostamento della frontiera al Brennero e la definitiva inclusione delle vallate trentine nel Regno d’Italia avevano depotenziato il valore simbolico del territorio, che all’indomani della guerra era ‘solo’ un ambiente alpino, tormentato dai segni del conflitto, ma non diverso da altre zone. Il compimento dell’unità paradossalmente tolse peso ai protagonisti del movimento che la avevano tanto auspicata, come testimonia la vicenda dell’assorbimento (con qualche rammarico) della Lega Nazionale nella Dante Alighieri e della Società degli Alpinisti Tridentini nel Club Alpino Italiano.
CAI e Touring Club: il ruolo delle escursioni
Il confine sensibile, il terreno dello scontro si è spostato più nord, oltre Salorno, dove iniziavano a spingersi le escursioni del CAI e del Touring Club Italiano mentre la SAT e la Susat (Sezione Universitaria della Società degli Alpinisti Tridentini) si attestavano al massimo sul confine tra le due ‘regioni’, rimarcando luoghi un tempo delicati, ma poco rilevanti agli occhi dei nuovi arrivati.
Nel giugno del 1919, 400 soci del CAI si arrampicarono sulla Vetta d’Italia insieme alla fanfara degli alpini di stanza a Brunico; sulla cima vennero pronunciati i discorsi da una socia milanese, da un generale, da un capitano triestino e dal capitano Guido Larcher, l’unico trentino presente. Tornato a Trento, il gruppo rese omaggio in quello che stava per diventare il nuovo luogo sacro cittadino, che avrebbe sostituito per importanza il monumento a Dante, la fossa del Castello del Buonconsiglio dove erano stati condannati a morte Damiano Chiesa, Cesare Battisti e Fabio Filzi .
In luglio il Touring Club Italiano si spinse in una carovana di auto dopo Bolzano, verso Dobbiaco, fino a Cortina. Un’escursione che aveva il carattere dell’esplorazione, in cui la cronaca del giornale La Libertà del 22 luglio si dilunga soprattutto sui segni lasciati dalle bombe sull’ambiente naturale, sconvolto e luttuoso: «ogni albero, ogni pietra, ogni zolla sembrano raccontare una tristissima storia: d’aver veduto tanti figli di mamma – d’ogni nazionalità – cadere sbardellati (sic!) sotto il piombo inesorabile»[10]. Ciò che colpisce e si differenza in modo profondo dalle cronache delle gite degli anni precedenti della SAT o dell’Unione Ginnastica, sempre descritte come festanti, rumorose per l’accompagnamento delle fanfare e acclamate dai residenti dei paesi che si incontravano, fu il silenzio. Nessuno accolse la colonna di auto proveniente da sud; a Bressanone «le caratteristiche casette moderne sembrano essere state abbandonate dalla corpulenta borghesia conservatrice di cui non si vede, né alla finestra né sulla via, nessuna traccia»[11], nei boschi dove si fermarono a campeggiare non venne visto un bambino incuriosito o un contadino al lavoro. Questo vuoto surreale, denso di presagi e significati politici che non sembrano essere colti dal giornalista, si interrompe all’arrivo a Cortina, dove si mise in scena la consueta decorazione di bandiere e fiori con l’accompagnamento musicale della banda miliare che esegue alcuni canti patriottici, e al ritorno in Trentino, a Cavalese.
Il trentinismo
Un articolo del trentino Alcide De Gasperi pubblicato sul Nuovo Trentino il 21 maggio 1919 permette di spiegare la situazione di sospensione e spaesamento che sembra caratterizzare i primi mesi di pace “italiana” nella popolazione: «la nostra psicologia – scrive De Gasperi – è influenzata ancora da quel ’trentinismo’ che per nostro destino avevamo dovuto creare ed acuire fino all’esasperazione nella lotta contro il germanesimo e il dominio straniero».
La frase di De Gasperi è importante perché, nel giustificarsi di fronte alle critiche, egli dichiara la natura processuale, di deliberata e consapevole costruzione del ‘trentinismo’. Ricorrendo al piano della psicologia, o della mentalità, e non a quello della politica, egli spostò l’analisi dai programmi realizzati dai singoli schieramenti, all’identità come denominatore comune della vita politica trentina.
In questa situazione complessiva, il progetto degasperiano del trentinismo, «quel trentinismo che abbiamo dovuto creare ed acuire fino all’esasperazione nella lotta contro il germanesimo», risultò apparentemente superato dalla Storia nel momento in cui il confine tra stato italiano e popolazione di lingua italiana era stato tolto, spostato molto più a nord.
Il senso di marginalizzazione
Dopo le lungaggini dell’annessione, gli errori amministrativi ed economici compiuti nell’immediato dopoguerra, nel 1927 la separazione della provincia di Bolzano fu interpretata come il segno di un’ulteriore marginalizzazione del Trentino. Dopo alcuni decenni in cui la gran parte delle energie culturali e politiche erano state spese per fortificare un’identità italiana da opporre alle forze tedeschizzanti, i trentini, anche parte del gruppo dirigente che più aveva animato questo processo, faticarono a trovare un posto nell’Italia reale.
Marco Cuaz ha rintracciato qualcosa di simile dopo il 1860 nei gruppi dirigenti della Val d’Aosta. Questi, dopo aver professato la propria italianità e sostenuto il Risorgimento, cominciarono a vivere con qualche criticità l’essere a tutti gli effetti italiani. Anche in quel caso l’unificazione aveva coinciso con la trasformazione della regione alpina nell’estrema periferia di uno stato centralizzatore, e la perdita delle proprie istituzioni tradizionali aveva coinciso con una lettura politica della propria storia contrapposta a quella italiana.
In Trentino negli anni successivi al 1918 continuarono ad emergere tracce di disagio (culturale se non politico), nonostante l’energica omologazione culturale imposta dal regime fascista.
Trentinismo e antitrentismo
La rimozione dalla memoria storica dell’esperienza della guerra combattuta nell’esercito austro-ungarico e il progressivo oblio imposto anche al vissuto delle migliaia di profughi, condizionarono il rapporto tra la popolazione e un presente che sottolineava solo la voce dei volontari nell’esercito italiano e di chi aveva divulgato l’italianità incondizionata della popolazione. Il mito della guerra eroica, la sua celebrazione monumentale, la fondazione a Rovereto nel 1921 del Museo Italiano della Guerra e a Trento nel 1923 del Museo del Risorgimento, proprio nel Castello dove erano stati giustiziati Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, danno corpo ad una rappresentazione della storia del Trentino esclusivamente tesa alla liberazione dal dominio austriaco. L’enfasi sul sacrificio dei volontari per l’Italia non poteva incontrare facile adesione presso uomini e donne che della tragedia europea avevano conosciuto direttamente altri volti e altri scenari, e che si trovavano di fronte alla necessità di elaborare altri lutti.
Il dibattito sul trentinismo e l’antitrentinismo della fine degli anni Venti fu una delle tracce della difficoltà a confrontarsi con l’Italia. L’eccezionalità di questa discussione pubblica è che emerse in un momento di generale apatia dell’opinione pubblica e che segnò l’ingresso del termine nel lessico politico locale anche tra persone molto lontane dal mondo cattolico che lo aveva concepito. Un articolo del segretario del partito fascista trentino dedicato al «trentinismo» aveva suscitato l’arrivo di moltissime lettere al giornale Il Brennero, per lo più comprensibilmente anonime. Come un fiume carsico, era emersa la forza di un problema non risolto. Una parte di questo epistolario venne pubblicata in un opuscolo curato nel 1928 da Dante Maria Tuninetti, Trentinismo e antitrentismo, che rimanda ancora oggi i temi e il senso della difficoltà dei trentini: «non è possibile in soli dieci anni cambiare la mentalità d’un popolo. Italiani sì, sempre italiani ma, per ora, a modo nostro. L’unico mezzo, secondo me, è di valorizzare la nostra intelligenza, la nostra gente, i nostri cuori con metodi di bontà e non con la brutalità del gabbellotto»[12].
Negli anni Venti del XX secolo si assiste ad un fenomeno culturale che in un certo senso ratifica il processo di creazione del Trentino italiano e favorisce la rimozione dell’esperienza bellica vissuta pochi anni prima dalla memoria pubblica attraverso la sostituzione del repertorio musicale locale con la coralità alpina ufficiale. Nel 1919 è ricostituita la Società degli alpinisti tridentini e due anni dopo viene fondata la Sosat, la sua sezione operaia.
Parallelamente allo sviluppo del fenomeno del coro della Sosat, nacque, in un contesto estraneo al mondo ufficiale, il teatro dialettale. Si trattava di una novità per il panorama locale, che ha subito un notevole successo sia in ambiente laico che cattolico. In un contesto in cui la lingua parlata aveva fornito fino a pochi anni prima la più importante variabile di identificazione nazionale, non è azzardato ipotizzare che l’uso del dialetto risentisse del desiderio di riconoscersi in un linguaggio altro rispetto all’italiano, un segnale che potrebbe alludere ad un riflusso dalla retorica nazionale imperante negli anni Trenta e Quaranta. Può essere una coincidenza, o forse il segno di una società in difficoltà a rapportarsi con il suo presente, ma proprio nello stesso anno in cui sul «Brennero» venivano pubblicate le lettere su trentinismo e antitrentinismo, il 1927, venne rappresentata la commedia Vecie storie di Dante Sartori[13].
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- E. Tonezzer, Il peso di un’eredità: De Gasperi e il Trentino asburgico alla prova del dopoguerra, «Annali dell’Istituto storico itali-germanico in Trento», XXXIV, 2008, pp. 233-247.
- E. Tonezzer, Alcide De Gasperi leader studentesco e giornalista 1901-1915, in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, a cura di E. Tonezzer, M.P. Bigaran, M. Guiotto, Bologna, 2006, I, pp. 125-144.
- E. Tonezzer, Segnare il confine con una performance ciclistica. In bicicletta sulle strade dell’identità, in «Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine», 2007, 36, pp. 59-71.
- D. M. Tuninetti, Trentinismo e antitrentismo, Trento 1928.
- G. Vigarello, Il tempo dello sport, in A. Corbin (a cura di), L’invenzione del tempo libero 1850-1960, Bari 1996, pp. 214-243.
- G. Vigarello, Il Tour de France, Memoria, territorio, racconto, in «Ludus», I, 2, 1992, pp. 17-40.
Note:
[1] G.P. Cella, Tracciare confini, il Mulino, Bologna 2006, p. 19.
[2]Il monumento a Dante Alighieri viene eretto a Trento nel 1896.
[3] Sono consapevole che l’appellativo corretto sarebbe italiani d’Austria o Sudditi imperiali di lingua italiana, ma per brevità d’ora in poi utilizzerò il termine italiani o trentini per indicare gli abitanti dell’attuale provincia autonoma di Trento.
[4] P. Bourdieu, Méditations pascaliennes, Seuil, Paris 1997, p. 285, cit. GP. Cella, Tracciare confini, il Mulino, Bologna 2006, p. 29.
[5] Federazione Ciclistica Trentina, «Strenna 1912 della Federazione Ciclistica Trentina», 1912, 1, p. 1.
[6] Esiste il Trentino?, «Il Popolo», 3 agosto 1908, p. 2.
[7] G. Vìgarello, Il Tour de France, Memoria, territorio, racconto, «Ludus», 1992 I, 2, p. 61.
[8] D. Marchesini, L’Italia del giro, Il Mulino, Bologna 1996, p. 63.
[9]Le riflessioni sono contenute nel saggio che introduce la raccolta curata da F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries, Boston 1969; la citazione è ripresa dal medesimo saggio pubblicato in Questioni di etnicità, a cura di V. Maher, Torino 1994, p. 41.
[10] L’escursione del Touring nell’Alto Adige, «La Libertà», 22 luglio 1919, p. 1.
[11] L’escursione del Touring nell’Alto Adige, «La Libertà», 22 luglio 1919, p. 1.
[12]D. M. Tuninetti, Trentinismo e antitrentismo, Tridentum, Trento 1928, p. 14.
[13]Cfr. F. Rasera, Dal regime provvisorio al regime fascista (1919 -1937), 1919 -1937), in A. Leonardi e P. Pombeni (a cura di), Storia del Trentino, VI, L’età contemporanea. Il Novecento, il Mulino, Bologna 2005, pp. 75-130, pp. 107-108.