Confini planetari ed emissioni di CO2. I potenziali impatti del modello di economia lineare nell’Antropocene
Abstract
Secondo gli esperti, siamo entrati in una nuova epoca geologica, l’Antropocene, caratterizzata da una pressione umana sui sistemi naturali talmente forte da poter essere paragonata alle forze che hanno trasformato la Terra nel corso della sua lunga storia. Obiettivo di questo lavoro è di rilevare come in uno scenario di grandi trasformazioni antropiche dei sistemi naturali, il deterioramento del quadro climatico e ambientale possa assumere sempre più il ruolo di variabile esplicativa nel plasmare le vicende storiche più recenti e nel disegnare il panorama geopolitico globale. In particolare, partendo dal concetto di sicurezza, intesa sia nel suo significato più convenzionale e monodimensionale di hard security sia in quello più recente e multidimensionale di soft security, si analizzerà il ruolo del cambiamento climatico come “amplificatore di minacce”, ovvero di variabile esplicativa nell’esacerbare il grado di conflittualità e il livello di instabilità di aree già fragili dal punto di vista ambientale, socio-economico e politico.
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According to experts, we have entered a new geological epoch, the Anthropocene, characterised by human pressure on natural systems so strong that it can be compared to the forces that have transformed the Earth throughout its long history. The aim of this work is to highlight how, in a scenario of great anthropogenic transformations of natural systems, the deterioration of the climatic and environmental framework can increasingly take on the role of an explanatory variable in shaping the most recent historical events and in designing the global geopolitical landscape. In particular, starting from the concept of security, understood both in its more conventional and one-dimensional meaning of hard security and in the more recent and multidimensional one of soft security, the role of climate change as a ‘threat amplifier’ will be analysed, i.e. as an explanatory variable in exacerbating the degree of conflict and the level of instability of areas that are already fragile from an environmental, socio-economic and political point of view.
Introduzione: i confini planetari e lo ‘spazio operativo sicuro per l’umanità’
Il 30 agosto 2016 rappresenta una data fondamentale per la storia geologica della Terra: durante il 35° Congresso internazionale di geologia tenutosi a Città del Capo, gli esperti hanno chiesto che venisse formalmente riconosciuto il fatto che ci troviamo in una nuova epoca geologica, l’Antropocene.
Il termine Antropocene fu coniato dall’ecologo Eugene F. Stoermer negli anni Ottanta del secolo scorso e fu divulgato dallo stesso Stoermer e dal premio Nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen nel 2000, per definire una nuova epoca geologica, caratterizzata da una pressione umana sui sistemi naturali talmente forte da poter essere paragonata alle forze geologiche che hanno plasmato e modificato il Pianeta nel corso della sua lunga storia[1].
Gli storici dell’ambiente concordano nell’affermare che queste importanti trasformazioni hanno avuto inizio con la Rivoluzione industriale ma si sono intensificate a partire dalla seconda metà del secolo scorso, durante la cosiddetta «Grande accelerazione», quando l’azione congiunta tra crescita della popolazione, sviluppo economico e progresso tecnologico ha contribuito ad alterare a ritmi esponenziali e, spesso, in maniera irreversibile, tutti i sistemi naturali[2].
Questa consapevolezza ha spinto gli scienziati a introdurre un concetto nuovo, quello di «confine planetario». Nel 2009 viene pubblicato un articolo sulla prestigiosa rivista scientifica Nature nel quale Rockström e il suo team di ricerca hanno identificato nove processi naturali tra loro interconnessi, essenziali nel mantenere quello stato di relativa stabilità che ha caratterizzato l’Olocene[3]. Per ciascun sistema biofisico è stata, inoltre, tracciata una soglia che individua uno spazio operativo sicuro per l’umanità che non deve essere oltrepassata per non innescare cambiamenti irreversibili che potrebbero compromettere la stessa sopravvivenza umana[4]. Secondo le prime stime, almeno quattro dei nove confini individuati sono già stati superati: cambiamento climatico, cicli biogeochimici del fosforo e dell’azoto e perdita di biodiversità (Fig. 1).
Il riconoscimento dei confini planetari ha comportato importanti ricadute in termini di dibattito scientifico, mettendo in discussione l’approccio tradizionale sulla relazione tra economia e ambiente. Mentre la teoria economica convenzionale considera il degrado ambientale come una «esternalità» negativa che può essere corretta internalizzandola attraverso opportuni interventi nel mercato, gli scienziati hanno letteralmente ribaltato tale approccio individuando un insieme di limiti nell’uso delle risorse, quantificati con parametri naturali, entro cui l’economia globale dovrebbe operare per scongiurare possibili tipping point.
Se la stabilità planetaria è strettamente correlata ad un uso delle risorse naturali che si mantenga al di sotto delle soglie critiche naturali, il benessere umano da un lato dipende dall’uso di queste risorse ma, dall’altro lato, anche dalla possibilità di immettere sostanze di scarto, per soddisfare i bisogni di base necessari per condurre una vita dignitosa. Di conseguenza, due anni dopo la pubblicazione sui confini planetari da parte degli scienziati della Terra, è arrivata la risposta degli studiosi di scienze economiche e sociali, i quali hanno sostenuto che così come esiste un confine esterno all’uso delle risorse oltre il quale il degrado ambientale diventa insostenibile da un punto di vista ecologico, debba considerarsi anche un confine interno, un livello sociale di base al di sotto del quale la mancata disponibilità̀ di risorse diventa inaccettabile dal punto di vista umano. In particolare, Kate Raworth, economista all’Università di Oxford, ha introdotto il concetto di «economia della ciambella», chiamata così per via della forma grafica con cui viene rappresentata: ovvero una ciambella individuata dall’intersezione tra confini planetari e confini sociali. Questa sorta di compromesso tra vincoli ambientali e vincoli sociali traccia uno spazio operativo equo e sicuro per l’umanità entro il quale deve muoversi una nuova traiettoria di sviluppo sostenibile in grado di coniugare crescita economica ed equità sociale sotto il vincolo della tutela ambientale (Fig. 2)[5].
Gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile e le emissioni di CO2
I concetti di confini sociali e planetari hanno fortemente influenzato l’agenda politica internazionale del nuovo millennio. Il 25 settembre 2015, le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile e i relativi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) che dovranno essere raggiunti entro il 2030 e che rappresentano obiettivi comuni su un insieme di questioni fondamentali per lo sviluppo sostenibile, come la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame, il diritto al benessere e alla salute, la riduzione delle diseguaglianze, il diritto a un lavoro dignitoso e alla crescita economica, ma anche la tutela degli ecosistemi marini e terrestri, la tutela della biodiversità, la lotta al cambiamento climatico (Fig. 3).
Si tratta, quindi, di un documento caratterizzato da una visione sistemica in cui gli obiettivi di tutela ambientale e obiettivi socioeconomici sono strettamente interrelati[6].
Al centro delle strategie per garantire un uso sostenibile delle risorse e ridurre i livelli di scarti ed emissioni, vi è il concetto di transizione ecologica che costituisce, insieme alla transizione digitale, una delle due priorità previste dalla Commissione europea per il periodo 2019-2024 e che trova il suo punto di riferimento programmatico nel Green Deal europeo. Le principali sfide individuate dall’Ue per innescare un percorso virtuoso di transizione ecologica sono: la neutralità climatica, volta a ridurre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera e raggiungere emissioni zero entro la metà di questo secolo; e l’economia circolare, attraverso la quale l’Europa si propone di superare il convenzionale modello di economia lineare materia prima-produzione-rifiuto e di instaurare un modello di crescita economica rigenerativo, basato sul riutilizzo delle materie prime secondarie, allo scopo di ridurre da un lato la produzione di rifiuti e dall’altro lo sfruttamento di materie prime primarie.
In questo lavoro verrà considerata ed analizzata, attraverso un approccio interdisciplinare, una particolare tipologia di scarto antropico: le emissioni di CO2. L’obiettivo è di cercare di capire perché questa semplice molecola, nota anche come biossido di carbonio o, più correttamente, come diossido di carbonio, così diffusa e così utile per la vita sulla Terra, è accusata di essere responsabile di quella che può essere considerata la più grande sfida del XXI secolo: il cambiamento climatico. In particolare, si osserverà come in uno scenario di grandi trasformazioni antropiche dei sistemi naturali, il deterioramento del quadro climatico e ambientale possa assumere sempre più il ruolo di variabile esplicativa nel plasmare le vicende storiche più recenti e nel disegnare il panorama geopolitico globale. Vedremo, quindi, come in un contesto di scarsità di risorse naturali fondamentali per la sopravvivenza umana e in uno scenario in cui gli impatti del cambiamento climatico diventano sempre più intensi e frequenti, il nexus tra sicurezza e ambiente possa diventare sempre più stringente al punto tale che diversi studi attribuiscono al cambiamento climatico il ruolo di “amplificatore di minacce”, capace in qualche modo di esacerbare il grado di conflittualità e il livello di instabilità di aree già fragili dal punto di vista ambientale, socio-economico e politico.
Cambiamento climatico e sicurezza
Con la fine della Guerra Fredda si è assistito a un’evoluzione del concetto tradizionale di sicurezza, che non si identifica più con un’accezione strettamente geo-strategica e militare (hard security) ma ha assunto una valenza multidimensionale, incorporando al suo interno componenti di natura economica, sociale e ambientale (soft security). La dimensione umana della sicurezza e quella più convenzionale di hard security non si escludono a vicenda ma appaiono come due concetti complementari[7]. Di conseguenza, quando si analizza il nexus tra cambiamento climatico e sicurezza, si devono considerare entrambe queste prospettive, rilevando come gli impatti del surriscaldamento globale di origine antropica possono influenzare la dimensione umana della sicurezza e quella più convenzionale di hard security, includendo i conflitti sia intra-statali sia inter-statali.
Per rilevare i collegamenti tra il cambiamento climatico, sicurezza umana e instabilità si cercherà di rilevare le cause del cambiamento climatico, i suoi effetti sui sistemi naturali e come questi impatti possono influenzare i sistemi umani e, di conseguenza, la sicurezza in tutte le sue componenti[8].
Le nuove evidenze scientifiche descritte nel Sesto Rapporto di Valutazione realizzato tra il 2021 e il 2022 dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) hanno rafforzato e confermato i dati relativi al cambiamento climatico attraverso una vasta serie di osservazioni e l’elaborazione di modelli di nuova generazione. Come emerge dal Rapporto, la comunità scientifica internazionale ha confermato l’origine antropica dell’attuale variazione climatica, attribuibile soprattutto a un’alterazione della composizione chimica dell’atmosfera globale direttamente o indirettamente legata all’attività umana. Inoltre, secondo gli esperti, il cambiamento climatico non può più essere considerato un possibile fenomeno caratterizzato da ampi margini di aleatorietà, ma un processo in atto. Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, anno in cui sono iniziate le misure termometriche a livello globale; a partire dal 1950 sono stati osservati cambiamenti nell’intensità e nella frequenza degli eventi meteorologici estremi; la fusione dei ghiacciai risulta accelerata in tutte le aree del Pianeta, così come l’aumento del livello del mare. Gli scenari futuri prevedono che le modifiche al clima dureranno per secoli e, entro il 2100, si potrebbe registrare un incremento della temperatura media globale compreso tra i 2 e i 4 °C, un aumento del livello del mare fino agli 80 centimetri, una riduzione dell’estensione e del volume dei ghiacciai, un cambiamento nel regime delle precipitazioni. Le variazioni in tutti i comparti del sistema climatico potranno determinare forti impatti non solo sugli ecosistemi e sulla disponibilità di risorse naturali, ma anche sulle popolazioni e sui settori economici maggiormente esposti all’aleatorietà climatica[9].
Il surriscaldamento globale acuirà i fenomeni di scarsità e di degrado qualitativo delle risorse idriche: l’incremento della temperatura media globale, le variazioni nei regimi pluviometrici e gli eventi climatici estremi sono tutti fattori che potrebbero provocare una diminuzione delle acque superficiali e sotterranee compresa tra il 10 e il 30%. Dal punto di vista qualitativo, si prevede che le modificazioni nella portata dei fiumi altereranno la concentrazione di carichi inquinanti legato al mancato trattamento delle acque reflue, mentre l’innalzamento del livello del mare contribuirà ad aumentare l’intrusione di acqua marina nelle falde acquifere costiere rendendo l’acqua inutilizzabile per scopi agricoli e potabili.
Il surriscaldamento globale e l’impatto sulla biodiversità e l’agricoltura
Le variazioni indotte dal surriscaldamento globale influiranno in maniera significativa anche sulla diversità biologica[10]. Gli impatti del cambiamento climatico sulla biodiversità sono stati oggetto di numerosi studi dai quali emerge che il surriscaldamento globale rappresenta una grave minaccia, poiché variazioni anche minime di temperatura possono innescare trasformazioni irreversibili in numerosi ecosistemi. È stato stimato, infatti, che se un aumento della temperatura terrestre di circa 2 °C può provocare l’estinzione di alcune specie ma generalmente consente ancora agli elementi biotici di attuare strategie di adattamento, un incremento superiore ai 4 °C può portare al collasso irreversibile[11]. Sebbene la temperatura sia il parametro più significativo, il cambiamento nel regime pluviometrico, l’umidità relativa, la radiazione solare, l’intensità del vento, l’evapotraspirazione e la concentrazione di CO2 nell’atmosfera sono tutti fattori che influiscono negativamente sulla biodiversità. Se non si riuscirà a ridurre le emissioni di gas serra, la resilienza di molti ecosistemi, ovvero la loro capacità di adattarsi ad uno stress, risulterà fortemente compromessa dai fenomeni associati al cambiamento climatico e molte specie animali e vegetali già a rischio di estinzione potrebbero scomparire.
Le variazioni nei regimi termici e pluviometrici e gli eventi climatici estremi avranno un impatto negativo anche sui raccolti, che potrà essere solo in parte compensato dalle maggiori rese legate alle maggiori concentrazioni di CO2 attraverso il cosiddetto «effetto di fertilizzazione da carbonio». Molte aree del pianeta potrebbero registrare, entro la fine del secolo, una diminuzione della produzione agricola fino al 60% qualora non si dovessero adottare strategie di adattamento efficaci nell’arginarne gli effetti[12]. La bassa produttività agricola deteriorerà il livello di autosufficienza alimentare in diversi paesi, esponendo le fasce della popolazione più vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi internazionali delle derrate agricole.
Emerge, quindi, un complicato sistema di interconnessioni tra cambiamento climatico, deterioramento del quadro ambientale e sistemi umani. Quindi, se consideriamo le diverse dimensioni che caratterizzano la soft security, è facile intuire che il cambiamento climatico, incidendo sui mezzi di sussistenza e sul benessere umano, può avere impatti negativi significativi in termini di sicurezza umana.
La domanda ora è: gli impatti del cambiamento climatico possono estendersi anche al concetto convenzionale di hard security e all’insorgere di conflitti violenti? Come vedremo nel prossimo paragrafo, questa questione ha alimentato un forte dibattito all’interno della comunità scientifica ed accademica e ha interessato l’agenda politica sia a livello nazionale che internazionale, nonché la comunità di intelligence in due diverse fasi temporali.
La variabile nascosta: il cambiamento climatico come ‘amplificatore di minacce’ nel XXI secolo
Negli anni Novanta del secolo scorso la questione del nesso tra cambiamento climatico e sicurezza all’interno dell’agenda politica internazionale e nazionale non era rilevante. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc) non conteneva alcun riferimento alla sicurezza ed il cambiamento climatico era considerato una questione ambientale da affrontare all’interno dei relativi forum e dai ministri responsabili delle questioni concernenti l’ambiente. Inoltre, la questione non era ancora oggetto di interesse da parte dalla comunità militare e dell’intelligence e, come emerge dagli studi di Homer-Dixon, il dibattito scientifico e accademico in quel periodo si incentrava sul processo causale relativo al più ampio rapporto tra ambiente e sicurezza legato alla scarsità delle risorse naturali in uno scenario di crescita demografica e sviluppo economico[13].
Lo scenario è cambiato in maniera significativa già a partire dalla prima decade del nuovo millennio a causa dell’accelerazione dei cambiamenti climatici e dei progressi nella conoscenza delle cause e degli impatti del surriscaldamento globale. Il primo segnale di questo cambiamento è apparso nell’ottobre 2003 con la pubblicazione di uno studio commissionato dal Dipartimento della Difesa statunitense che ha etichettato il cambiamento climatico come «una minaccia alla sicurezza nazionale per gli Stati Uniti»[14]. Le implicazioni del cambiamento climatico in termini di sicurezza sono state affrontate anche dall’Unione Europea che, sempre nel 2003, ha incluso per la prima volta il cambiamento climatico come una questione di sicurezza nella Strategia europea per la sicurezza[15].
Questi documenti hanno aperto la strada a tutta una serie di pubblicazioni e dibattiti sulla sicurezza climatica. I rapporti più influenti sono quelli del Cna Corporation (Continental National American group), un think tank statunitense sulla sicurezza, dai quali emerge che gli effetti del cambiamento climatico non solo rappresentano un maggior fattore di rischio, ma un moltiplicatore di minacce in grado di acuire tensioni e instabilità in quei paesi che presentano maggiori livelli di vulnerabilità e scarsa capacità di adattamento sul piano geografico, socioeconomico e politico[16]. A rafforzare l’idea che il cambiamento climatico possa avere ripercussioni in termini di sicurezza è stata l’assegnazione, nello stesso anno, del Premio Nobel per la Pace all’Ipcc e ad Al Gore.
Dal 2007, il nesso tra cambiamento climatico e sicurezza è entrato nell’agenda politica di molte istituzioni a livello internazionale e regionale, come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc), l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’Unep (United Nations Environment Programme), l’Undp (United Nations Development Programme), l’Unione Europea e il Forum delle Isole del Pacifico, nonché nell’ambito di molte strategie di sicurezza nazionale in tutto il mondo.
Nell’aprile 2015 i ministri degli Esteri del G7 hanno affermato che il cambiamento climatico rappresenta una delle sfide più gravi del nostro tempo e che, senza efficaci strategie di mitigazione e adattamento, gli impatti del surriscaldamento globale aumenteranno i rischi di instabilità e lo scoppio di conflitti violenti in diverse aree del pianeta.
Affermazioni come queste sono chiare ed inequivocabili, ma sono supportate da prove scientifiche? Cosa emerge dall’analisi della letteratura sul nesso tra cambiamento climatico, instabilità e conflitti?
I risultati dell’analisi scientifica internazionale
I numerosi studi sul cambiamento climatico e i conflitti concordano sul fatto che è improbabile che le questioni ambientali e il surriscaldamento globale in particolare, possano innescare conflitti tra stati. Se si osservano i trend relativi ai conflitti tra stati su larga scala e alla temperatura media a partire dalla Seconda guerra mondiale non emerge alcuna correlazione tra queste due variabili: come mostrano i dati, il numero dei conflitti interstatali è diminuito con la fine della Guerra Fredda mentre la temperatura globale è aumentata. Secondo gli studiosi, una possibile spiegazione potrebbe essere legata al concetto economico di costo-opportunità. Poiché il costo-opportunità dei conflitti tra stati su larga scala è superiore al costo-opportunità relativo all’attuazione delle strategie di adattamento necessarie per far fronte ai cambiamenti climatici, gli stati potrebbero preferire investire le elevate risorse finanziarie necessarie per affrontare un conflitto armato in tecnologie di adattamento (come la dissalazione, il controllo delle inondazioni, la selezione di colture più resistenti alla siccità e ai suoli salini) per cercare di mitigare gli effetti del surriscaldamento globale[17].
Tuttavia, non è stato ancora raggiunto un consenso a livello scientifico sulla questione se il cambiamento climatico possa aumentare il rischio di conflitti violenti all’interno degli stati, come guerre civili e rivolte. Molti sforzi teorici hanno cercato di rilevare la relazione causale che collega il surriscaldamento globale ed i conflitti intra-statali. Si possono distinguere due posizioni principali nel dibattito: la prospettiva che potremmo definire ‘pro conflitto climatico’, basata sul presupposto che gli impatti del cambiamento climatico, aumentando il rischio di stress ambientale, possono esercitare un’ulteriore pressione sulle risorse già scarse, rafforzare sfide preesistenti come povertà, disoccupazione e instabilità politica ed esacerbare la competizione per lo sfruttamento delle risorse tra usi alternativi, contribuendo all’intensificarsi dei flussi migratori, all’indebolimento di stati già fragili e, di conseguenza, all’incremento del rischio di conflitti violenti; e la prospettiva che potremmo definire ‘pro conflitto sociale’, secondo la quale il cambiamento climatico non ha alcun ruolo, o per lo più un’influenza marginale, nell’insorgere di conflitti violenti le cui variabili esplicative sono rappresentate principalmente da fattori politici o socio-economici[18].
Entrambe le posizioni sono state verificate anche da studi empirici attraverso due diversi approcci metodologici: analisi qualitative di casi studio e analisi statistiche quantitative. I risultati di entrambi i metodi non forniscono, comunque, un quadro chiaro.
Nel primo caso, gli esperti hanno esplorato il nesso in diverse aree di conflitto come le guerre civili in Darfur e in Siria, la Rivoluzione in Egitto o i conflitti intercomunitari in Kenya, Etiopia o Nigeria. Mentre l’evidenza empirica di alcuni studi supporta la tesi secondo la quale la condizione di stress ambientale innescata dal cambiamento climatico possa contribuire all’insorgere di conflitti violenti, altre analisi contestano questa affermazione[19].
Nel secondo caso, l’evidenza empirica fornita dalle analisi statistiche ha indagato il nesso attraverso dati panel riguardanti lunghe serie storiche di differenti variabili in diversi paesi. Ma anche in questo caso i risultati sono ugualmente inconcludenti. Mentre in alcuni studi si rileva un legame stringente tra temperature più elevate o variazioni delle precipitazioni e conflitti violenti intra-statali, in altri non emergono correlazioni significative[20].
Da un’analisi più attenta emerge che l’errore principale di questi studi sia quello di tenere separate le diverse categorie di variabili senza rilevarne le interazioni dinamiche. Le due posizioni principali che caratterizzano il dibattito scientifico sul nesso tra cambiamento climatico e sicurezza non sono neutrali, nel senso che entrambe possono avere importanti ripercussioni in termini di scelte politiche. Il determinismo climatico, semplificando eccessivamente il legame tra cambiamento climatico e conflitti e tenendo in scarsa considerazione rilevanti fattori sociali, può legittimare gli stati ad attribuire la perdita di benessere e di mezzi di sussistenza alle variabili esogene legate agli impatti del cambiamento climatico, minimizzando il ruolo delle politiche e di inefficaci scelte socio-economiche nell’amplificare la vulnerabilità dei paesi al rischio climatico e le relative ricadute in termini di conflittualità; allo stesso modo, sminuire il peso del cambiamento climatico come variabile esplicativa del livello di instabilità a favore di altri fattori di natura socioeconomica e politica può rallentare l’attuazione di efficaci strategie di mitigazione e adattamento e la necessità di prevenire e prepararsi agli impatti dei cambiamenti climatici.
Quindi, tornando alla nostra domanda iniziale, questa apparente mancanza di consenso nella letteratura sul vero ruolo del cambiamento climatico come motore di conflitti dovrebbe essere interpretata come un ‘in medio stat veritas’, nel senso che non esiste una relazione diretta di causa ed effetto tra cambiamento climatico e aumento dei conflitti. Piuttosto, la relazione è multidimensionale e strettamente dipendente dal contesto di riferimento, verificandosi quando il cambiamento climatico interagisce con una più ampia serie di variabili sociopolitiche ed economiche che possono esacerbare i fattori di conflittualità, minacciando ulteriormente la stabilità degli stati e delle società e minacciare la pace e la sicurezza. Fenomeni come le Primavere arabe o il più recente conflitto siriano mostrano, infatti, come il cambiamento climatico possa agire da ‘variabile nascosta’ nell’esacerbare il livello di instabilità, soprattutto in quelle aree caratterizzate da ecosistemi fragili, scarsa disponibilità di risorse naturali, eccessiva dipendenza dalle importazioni agricole, bassa capacità di adattamento al rischio ambientale, instabilità politica, istituzioni deboli e la presenza di fonti idriche condivise tra più paesi.
Considerazioni conclusive
In uno scenario in cui gli effetti del cambiamento climatico diventano sempre più intensi e frequenti, diversi studi hanno cercato di rilevare se il surriscaldamento globale, a causa delle ricadute in termini di peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni coinvolte, possa rappresentare un fattore in grado di alterare l’equilibrio geopolitico globale e la stabilità di quei paesi caratterizzati da una limitata disponibilità di risorse naturali fondamentali per la sopravvivenza umana.
Sebbene il nesso clima-sicurezza sia al centro di un vivace dibattito all’interno della comunità scientifica, i risultati della ricerca sulla rilevanza e la significatività della sua relazione causale resta inconcludente e priva di un sufficiente fondamento teorico. Gli studi empirici supportano la tesi che non esiste una causalità deterministica che colleghi il cambiamento climatico all’aumento dei conflitti. Piuttosto, la relazione è indiretta e multidimensionale, strettamente legata al contesto di riferimento e all’interrelazione di diverse variabili socioeconomiche, politiche e ambientali.
Pertanto, i rischi che il cambiamento climatico presenta per la stabilità e la sicurezza devono essere studiati in funzione sia delle trasformazioni ambientali, sia dei fattori economici e sociali. Inoltre, anche se l’evidenza scientifica sulla correlazione tra cambiamento climatico e conflitti continua a essere dibattuta, la domanda più importante per i decisori politici non è se il cambiamento climatico possa essere considerata una variabile esplicativa dei conflitti, ma come gli impatti del cambiamento climatico possano interagire con altre variabili che influenzano tutte le fasi del ciclo del conflitto.
Di conseguenza, la vulnerabilità ai cambiamenti climatici, e per estensione, ai potenziali conflitti indotti dal clima, deve essere valutata lungo l’intera catena di impatto e affrontata attraverso efficaci strategie di mitigazione e adattamento, una gestione efficiente delle risorse scarse e condivise e un maggior coordinamento politico e settoriale.
Note:
[1] P.J. Crutzen, E.F. Stoermer, The Anthropocene, in “Igpb Newsletter”, 41, 2000.
[2] J.R. McNeil, P. Engelke, The Great Acceleration: An Environmental History of the Anthropocene since 1945, Harvard University Press, Cambridge 2016.
[3] I processi naturali individuati includono: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, variazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, acidificazione degli oceani, consumo di suolo e di acqua, riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, diffusione di aerosol in atmosfera e inquinamento chimico. Per ognuno di questi processi è stata individuata una variabile di controllo che non dovrebbe superare un certo valore, pena la destabilizzazione del sistema.
[4] Rockström, J., Steffen, W., Noone, K. et al., A Safe Operating Space for Humanity, in “Nature”, 461, 2009, pp. 472-475.
[5] K. Raworth, A Safe and Just Space for Humanity. Can We Live Within the Doughnut?, in “Oxfam Discussion Paper”, Oxfam, Oxford 2012; Id., A Doughnut for the Anthropocene: Humanity’s Compass in the 21st Century, in “The Lancet Planetary Health”, 1, 2, 2017, pp. 48-49.
[6] ONU, Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development, 2015.
[7] L’idea che il cambiamento climatico possa avere importanti implicazioni in termini di sicurezza è emersa anche nella seconda parte del V Rapporto dell’Ipcc intitolato Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability, dove la questione è analizzata considerando tre ambiti differenti della sicurezza umana: sicurezza alimentare, qualità della vita e povertà. Secondo il Rapporto, anche se la sicurezza umana difficilmente risulta minacciata da una singola causa, il cambiamento climatico rappresenta un fattore rilevante in quanto incide sui mezzi di sussistenza, compromette culture e identità locali, aumenta i flussi migratori e indebolisce la capacità degli Stati di garantire la sicurezza nazionale.
[8] E. Ferragina, D.A.L. Quagliarotti, Stabilità e sicurezza nel Mediterraneo tra vincoli ambientali e divari socio-economici, in E. Ferragina (a cura di), Rapporto sulle economie del Mediterraneo. Edizione 2018, il Mulino, Bologna 2018.
[9] V. Masson-Delmotte et al. (a cura di), Global warming of 1.5°C, IPCC Special Report, Ipcc, 2018.
[10] P.R. Shukla et al. (a cura di), Climate Change and Land: An IPCC special report on climate change, desertification, land degradation, sustainable land management, food security, and greenhouse gas fluxes in terrestrial ecosystems, Ipcc, 2019.
[11] V. Masson-Delmotte et al. (a cura di), Global warming of 1.5°C cit.
[12] C. Müller, J. Elliott, The Global Gridded Crop Model intercomparison: approaches, insights and caveats for modelling climate change impacts on agriculture at the global scale in A. Elbehri (a cura di)., Climate change and food systems: global assessments and implications for food security and trade, Fao, Rome 2015.
[13] T.F. Homer-Dixon, Environment, Scarcity, and Violence, Princeton University Press, Princeton 2001.
[14] P. Schwartz, D. Randall, An Abrupt Climate Change Scenario and Its Implications for United States National Security October 2003. A Pentagon study on climate change and US national security, DoD Office of Net Assessment, Washington DC. 2003, p. 14.
[15] Council of the EU, European Security Strategy. A secure Europe in a better world, General Secretariat of the Council, Brussels 2003.
[16] Cna Corporation, National Security and the Threat of Climate Change, The Cna Corporation, Alexandria, Virginia 2007; Cna Corporation, National Security and the Accelerating Risks of Climate Change, The Cna Corporation, Alexandria, Virginia 2014.
[17] N.P. Gleditsch, Whither the weather? Climate change and conflict, in “Journal of Peace Research”, 49, 1, 2012, pp. 3-9; C.P. Kelley et al., Climate Change in the Fertile Crescent and Implications of the Recent Syrian Drought, in “Proceeding of the National Academy of Sciences”, 112, 11, 2015, pp. 3241-3246; T. Sternberg, T., Chinese Drought, Wheat, and the Egyptian Uprising: How a Localized Hazard Became Globalized, in C.E. Werrell and F. Femia (a cura di), The Arab Spring and Climate Change, The Center for Climate and Security, Washington Dc 2013.
[18] T. Ide, P.M. Link, J. Scheffran, J. Schilling, The Climate-Conflict Nexus: Pathways, Regional Links, and Case Studies. Handbook on Sustainability Transition and Sustainable Peace, Springer, Cham 2016, pp. 285-304.
[19] J. Selby, C. Hoffmann (a cura di), Rethinking Climate Change, Conflict and Security, Taylor & Francis Ltd, UK 2017.
[20] S.M. Hsiang, M. Burke, M., and E. Miguel, Quantifying the Influence of Climate on Human Conflict, in “Science”, 341, 6151, 2013, pp. 1235367-1-1235367-14; S.M. Hsiang, K.G. Meng, Reconciling Disagreement over Climate-Conflict Results in Africa, in “Proceeding of the National Academy of Sciences”, 111, 6, 2014, pp. 2100–2103; M.B. Burke, E. Miguel, S. Satyanath, J.A. Dykema, J.A. Lobell, Warming Increases the Risk of Civil War in Africa, in “Proceeding of the National Academy of Sciences”, 106, 49, 2009, pp. 20670-20674.