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Empatia. La storiografia tra scienza e fiction

Empatia. La storiografia tra scienza e fiction
Abstract

L’autrice riassume e riprende alcune considerazioni svolte in maniera più ampia nel libro Tra storia e fiction1, aggiungendo una serie di riflessioni legate ad alcune pubblicazioni più recenti e approfondendo dinamiche e problematicità del rapporto tra storiografia e finzione artistica, inserite nel quadro più ampio dell’uso pubblico che viene fatto della storia.

Riconquistare il pubblico alla storia?

Come riconquistare alla storia un pubblico attento e appassionato? Questa domanda scorre in filigrana dietro numerosi dibattiti, talvolta espliciti, talvolta meno, che gli storici conducono in questi tempi di crisi della disciplina e delle scienze umane e sociali in generale. E spinge a sperimentazioni che vanno dalla scelta di una scrittura meno ostica e più attenta allo stile, alla ricerca di modelli letterari più attraenti, così come a soluzioni editoriali destinate ad attrarre lettori che si considerano poco interessati a percorrere con lo sguardo i numerosi apparati critici che solitamente accompagnano la ricerca e la sua esposizione. Gli storici non operano in questo campo da soli, ma accompagnati e spesso diretti dagli editori e dalla loro analisi del mercato. Ci troviamo di fatto oggi di fronte a una produzione scientifica destinata ad un pubblico di specialisti sempre meno numerosi, corredata da note, riferimenti bibliografici, apparati critici, etc., poco aperta al dialogo con lettori più diffusi, e ad una letteratura destinata a un pubblico più ampio, ma che modifica nella forma la presentazione del lavoro storico. E la concorrenza con una letteratura sempre più attenta alla storia, che fa della fedeltà al reale un “plusvalore” – l’espressione è del romanziere Laurent Binet – si fa accanita. Questa rivoluzione formale, che si richiama a canoni più letterari, talvolta prendendo la forma del romanzo storico, altre del romanzo-verità sul modello proposto anni orsono da Truman Capote, altre volte ancora del saggio che enuncia conclusioni senza preoccuparsi troppo della prova, sta a mio avviso incidendo anche sulla sostanza della disciplina, modificando il senso dell’operazione storica, sia dal punto di vista della ricerca, sia da quello della comunicazione dei risultati.

Nelle pagine che seguono, vorrei riassumere brevemente il contesto culturale più ampio in cui questo processo mi sembra aver luogo oggi, soffermandomi su alcuni temi che mi stanno particolarmente a cuore e che riguardano l’indebolirsi della frontiera tra vero e finto, tra storia e fiction, nella percezione che ne abbiamo oggi attraverso i diversi media. Discutero’ in un secondo tempo di alcune soluzioni che si stanno diffondendo nel mondo degli storici specialmente in Francia, dove lavoro, per sottolinearne tanto le potenzialità, quanto i limiti.

Storia e sentimento: arte o storiografia?

Siamo circondati dalla storia: la produzione letteraria, cinematografica, televisiva, affronta con costanza e con successo temi del passato, più o meno recente, con una predilezione particolare o per i periodi mitici – l’antichità e il medioevo soprattutto, ma anche momenti o personaggi puntuali che si prestano a finzioni eroiche – oppure per quei periodi a noi più vicini che stanno perdendo i testimoni diretti, la cui memoria sparisce o si affievolisce progressivamente con il passare del tempo. Il racconto della storia fatto dagli artisti, siano essi romanzieri, cineasti o sceneggiatori televisivi, non è necessariamente tenuto a dire la verità sul passato, ma puo’ introdurre personaggi, situazioni, effetti, che si distanziano e ci distanziano dalla verità, per ragioni anche molto plausibili e valide. Lo ha sottolineato per esempio la storica Natalie Zemon Davis studiando il film di Spielberg Amistad. La Zemon Davis ha rilevato come per esempio il regista abbia volutamente omesso una situazione specifica all’origine dell’ammutinamento della nave da parte degli africani: ai suoi occhi contemporanei, la paura degli schiavi di essere mangiati dai bianchi, che era reale nel contesto del tempo, e capace di sollevare la rivolta, era sembrata eccessiva e rischiosa, perché avrebbe potuto alterare proprio quell’effetto di verità per gli spettatori che egli cercava con il suo film2. La scelta fu allora quella di togliere questo elemento dalla catena degli eventi che avevano condotto alla rivolta. Casi del genere sono numerosi, sia per ragioni dettate dalle necessità specifiche del mezzo che si sta usando, sia per esigenze legate alla semplificazione necessaria della trama, oppure per esigenze puramente narrative o di effetto. E di certo non si tratta di scelte deplorevoli in sé, dato che non c’è nulla che obblighi a una qualche fedeltà al passato chi si ispiri a questo per metterlo in scena e diffonderlo in prodotti che si consumano come divertissements. Ma se pensiamo di usare questi ultimi per insegnare o imparare, per conoscere la storia, ci troviamo di fronte a diversi problemi seri. Da un lato c’è naturalmente quello della fedeltà o meno alla verità attestata. Una delle polemiche che hanno seguito il film di Marco Tullio Giordana sulla strage di piazza Fontana ha toccato proprio l’introduzione nel film di una falsità storica, poiché vi era riproposta una tesi ormai largamente e documentatamente smentita, quella delle due bombe nella banca dell’agricoltura, di cui una di stampo anarchico. Occorre allora chiedersi che cosa sappiamo dei fatti narrati dopo la visione del film, se la nostra conoscenza viene arricchita in un modo compatibile o incompatibile al vero: in questo caso, se il film ha il merito di aver riportato sotto i riflettori fatti e periodi della storia italiana particolarmente critici e ormai sconosciuti ai giovani, lo ha fatto proponendo una versione parzialmente incompatibile con la verità storica.

Ma c’è anche altro, e forse è proprio questo altro ad essere più malizioso e a generare conseguenze a mio avviso più gravi. Il rapporto principale che ognuno di noi tesse con queste forme di rapporto con la realtà del presente o del passato, è quello empatico: soffriamo e gioiamo con i protagonisti, piangiamo e ridiamo con loro. Questo registro dei sentimenti e dell’identificazione è d’altronde usato anche in altri settori che riguardano la nostra conoscenza della storia. Penso per esempio ai musei, in particolare a quelli americani o costruiti a partire da quel modello. Un buon esempio è a questo proposito quello del museo dell’Olocausto di Washington, che introduce il visitatore alla storia attraverso l’identificazione con uno dei morti nella Shoah. All’ingresso viene infatti consegnato un biglietto che ha l’aspetto di una carta d’identità che contiene i riferimenti biografici di una persona vera. Il nostro viaggio attraverso l’orrore puo’ così cominciare, con un ascensore che sale all’ultimo piano e si apre su una fotografia che ci mette in situazione: stiamo scendendo dal treno che ci ha portato in un campo di sterminio3.

Ancora una volta, questo registro sentimentale, di certo utile alla conoscenza, non è criticabile quando viene usato dall’arte; è anzi fondamentale4. Più discutibile mi pare invece che ne facciano ricorso gli storici, rinunciando alla ragione critica, al dibattito, al confronto, o almeno subordinando questi aspetti altrimenti necessari alla comprensione del passato e del presente, ai sentimenti privati dei lettori/spettatori.

La predilezione per il sentire piuttosto che per il capire si accompagna al ricorso costante alla mediazione dell’esperienza o della vita degli autori come cauzione della veridicità e della validità dei fatti narrati. Tanto più questi sono autobiografici o legati a persone direttamente in contatto con gli autori, tanto più acquistano veridicità non per l’argomentazione o per il montaggio delle prove, o per il loro carattere storico garantito dalle procedure di critica delle fonti e di plausibilità, ma innanzitutto perché attestate dall’autore stesso che diviene garante della loro insindacabilità. Il passo verso l’abbandono della nota a piè di pagina, e più generalmente del bisogno di provare quanto detto, è breve: non occorre altro che l’assicurazione dell’autore/protagonista per credere alla verità di quanto letto. Un romanziere francese, in un saggio uscito qualche anno fa, critica in modo serrato questa tendenza che assedia anche la letteratura, impossibilitata a distanziarsi da un’inevitabile e ricercata relazione con la realtà5. Anche dal punto di vista del romanzo le conseguenze del contesto ambientale attuale sono cruciali, e spiegano almeno in parte la ricerca di una letteratura della realtà pronta a sacrificare la propria capacità di invenzione di mondi possibili.

Diventa in questo modo difficile fare una differenza chiara tra quanto è vero, quanto è un tentativo critico di ricerca del vero, e quanto è invece dell’ordine dell’invenzione artistica. Che cosa differenzia allora un romanzo da un libro di storia ? Come possiamo sapere con chiarezza in che universo ci troviamo quando ci confrontiamo con testi la cui natura formale non è significativamente diversa? Chi, che cosa, garantisce il patto stipulato con il lettore o con lo spettatore, che ci permette di collocarci con chiarezza nell’universo della finzione o in quello della non-fiction? Non ho le competenze e nemmeno il desiderio di discutere della letteratura e delle scelte dei romanzieri, o dei cineasti riguardo al loro mestiere; e sono del tutto disposta a riconoscere loro non solo la libertà di creare qualunque tipo di testo o di immagine, sia esso di fantasia o di verità, puro o ibrido, ma anche di rivendicare la necessità della creazione fictional per meglio interpretare e capire il mondo, anche e soprattutto quello reale. Mi interrogo però sugli effetti che alcuni tentativi prodotti dagli storici che intendono fare storia, e che tendono a annacquare la frontiera tra testo letterario e testo scientifico, provocano sulla nostra capacità di storici di far valere le ragioni del reale, e soprattutto di mantenere riconoscibile la frontiera tra quanto è vero e quanto è invece prodotto delle fantasia.

Crisi e ibridazioni storiche

In tempi recenti, molti storici si sono mossi per far fronte a una dichiarata e visibile “crisi della storia” e del mercato dei testi storiografici. Questa tendenza è forse più evidente in Francia, paese nel quale la storia, fino ad alcuni anni fa, ha goduto di un grande prestigio – e di grande pubblico, in alcuni casi – e di una centralità riconosciuta nell’ambito delle scienze umane e sociali. Partiro’ quindi da alcuni esempi francesi che mi sembrano particolarmente significativi, forse anche anticipatori rispetto a tendenze più generali.

Una prima corrente sperimentale fa capo in qualche modo allo storico Alain Corbin e a storici più giovani che si sono formati nella sua orbita. Ne Il mondo ritrovato di Louis-François Pinagot6, Corbin proponeva un esperimento: scegliere uno sconosciuto, una vita banale che non avesse lasciato molte tracce archivistiche, e tentare di tracciare la storia di un individuo “normale”, uno “Jean Valjean che non abbia mai rubato del pane” (p. 10). Il resoconto cui ha dato luogo questo esperimento, che partiva da una più che legittima interrogazione storica relativa alla possibilità di accedere alla conoscenza storica di individui banali e normali, visto che gli archivi ci permettono di sapere molto di quei relativamente pochi individui che sono rimasti incastrati nelle maglie di uno o più poteri produttori di documentazione scritta, ha dato luogo però a una sorta di appiattimento della storia individuale sulle mille altre storie conosciute che ci hanno permesso di tratteggiare i contorni di un gruppo, in cui nessuno deve né puo’ riconoscersi come individuo. Ma quello che più conta in questa sede, è il carattere sperimentale dell’approccio di ricerca e il modo in cui si deforma, a mio giudizio, e si appiattisce, l’operazione cognitiva compiuta dagli storici, e in qualche misura la si banalizza, attraverso il ricorso a un espediente in fin dei conti narrativo: raccontare la storia del paesaggio, quella dei mestieri, della società, etc. attraverso il fil rouge di un nome, di una persona reale, che però non possiamo incarnare perché viene scelta proprio in quanto pochissimo documentata. Il passo successivo compiuto da Corbin, in un libro pubblicato nel 2011, è stato verso l’invenzione: l’autore immagina i testi di conferenze popolari fatte da un maestro elementare per gli abitanti del villaggio in cui esercitava la sua professione. I testi delle conferenze, che probabilmente non erano completamente redatti, o per lo meno non letti dal maestro, non esistono più, se mai sono esistiti. Conosciamo soltanto i temi trattati, le date, il numero dei presenti. Lo storico si fa carico di determinare il contenuto delle conferenze. L’introduzione di discorsi immaginari in testi storiografici non è una novità introdotta da Corbin. Dai padri greci della storia a Michelet, una lunga tradizione introduce testi che non sono la semplice trascrizione di documenti d’archivio, ma frutto dell’immaginazione e dell’invenzione degli storici. Ma nel contesto attuale, di messa in discussione dell’idea che la pratica scientifica possa essere divulgata senza perdere tutte le sue caratteristiche, questo passo compiuto da uno storico di fama mi pare cedere all’idea che soltanto abbandonando le caratteristiche fondamentali di una storiografia scientifica – tra cui il limite dato dalla presenza o meno della documentazione alla ricostruzione del passato – si possa riacquistare un pubblico più ampio, sempre meno abituato a misurarsi con una scrittura critica. L’esercizio storiografico in alcuni allievi di Corbin si trasforma in una sorta di divertissement in cui si perde l’attenzione alla ricostruzione affidabile e provata di un passato (ri)conosciuto per mettere l’accento essenzialmente sul gioco degli storici che mettono a nudo anche i loro errori o le loro difficoltà ad arrivare a una ricostruzione certa7.

La rinuncia a far apparire nei testi, in modo leggibile e immediato, l’apparato critico, a rendere visibile il “laboratorio dello storico”, costituisce un altro tentativo, in parte diverso anche se parte forse da presupposti analoghi, di semplificare la scrittura della storia. Non che le note siano in sé indispensabili: i libri che le cancellano si preoccupano di dare in altro modo i riferimenti necessari al riconoscimento del percorso di costruzione del discorso storico8. Ma tale soppressione si lega anche alla rinuncia all’argomentazione a beneficio del racconto – di un racconto la cui cauzione di verità è ormai data da uno storico che non deve fornire le prove dirette della sua costruzione, a cui ci si affida in nome del suo statuto e prestigio personale.

La questione della forma del testo storiografico – note si, note no, racconto o argomentazione, etc. – diventa una cartina di tornasole di tendenze più profonde che investono la trasformazione non solo della scrittura storiografica, ma anche della ricerca e più in generale del mestiere dello storico e della sua posizione sociale. In un libro recentissimo di un altro storico francese, Ivan Jablonka, la questione è sollevata in termini di “manifesto” per le scienze sociali, come viene indicato nel sottotitolo del libro9. L’autore, forte anche del successo di un suo libro precedente che egli stesso definisce “ibrido”, dedicato alla ricostruzione della vita e della morte dei suoi nonni10, si interroga in quest’ultimo lavoro sul modo in cui si puo’ rinnovare la scrittura della storia e delle scienze sociali. Il cuore della sua argomentazione è costituito dalla ricerca dei termini di una littérature du réel, che integri pratiche e scritture tanto della letteratura di oggi definita non-fiction quanto della produzione di scienze umane rinnovate nei metodi e nei linguaggi. L’hybridation tra generi diversi – letterari e scientifici – potrebbe a suo avviso permettere non soltanto di “rappresentare le azioni degli uomini, ma anche di capirle per mezzo di un ragionamento che, svolto in un testo, produce un’emozione”11. Si tratta, dice, “di iscrivere le scienze sociali in una forma che sia al contempo inchiesta, testimonianza, autobiografia, racconto – storia, in quanto capace di mettere in atto un ragionamento, letteratura in quanto fa vivere un testo”12. La prospettiva è interessante, e permette effettivamente di pensare altrimenti il rapporto, sistematicamente concepito in modo concorrenziale, tra la letteratura e la storia, abbinando i generi in un raggruppamento nuovo, quello della “letteratura del reale”. Ma se ci induce ad accettare come storiografici a pieno titolo generi che fino ad ora sono stati marginali per gli storici e l’insegnamento della storia, perché non corrispondenti a un canone riconosciuto di scrittura accademica, questa prospettiva non risolve il problema della storiografia scientifica e della pratica universitaria della storia.

La storiografia come sapere democratico

Il richiamo ad una ricerca e a una sperimentazione anche stilistica e formale che permetta di allargare il pubblico degli storici mi pare oggi essenziale. Ma occorre davvero interrogarsi sulle conclusioni cui perveniamo. Fino ad ora, mi pare che le riflessioni e gli esperimenti di alcuni storici che ho cercato di sintetizzare in queste pagine, portino di fatto a rinunciare a una componente della scrittura storiografica che ha caratterizzato un certo numero di correnti degli ultimi decenni del Novecento, e che mi pare fondamentale: quella fondata sull’argomentazione e sullo svelamento degli attrezzi e delle ipotesi dello storico, nonché sul dialogo esplicito con le fonti e con gli altri storici, e soprattutto con il lettore, che fondava anche stilisticamente il testo storiografico. E mi pare che queste prospettive partano da un’analisi monca della “crisi della storia” e della perdita del suo pubblico. Da un lato, si ignora il fatto che il problema principale nasce nella scuola, e in particolare nell’università e nelle riforme degli ultimi anni che hanno radicalmente ridotto la centralità del pensiero critico nella formazione degli studenti; la semplificazione del discorso storiografico diventa allora una risposta sia alla semplificazione del pensiero che la nostra società contemporanea sembra rivendicare sempre di più, sia alle nuove condizioni della scuola e dell’università e dei loro tempi di apprendimento, troppo rapidi e basati su una frammentazione del sapere sempre più spinta. Dall’altro, credo che la vera concorrenza al discorso storico-critico venga oggi più che dalla letteratura, da altri media, il cinema e la televisione in particolare, che sono riusciti in molti casi a trovare soluzioni narrative capaci di rendere conto della storia in modi particolarmente efficaci e “giusti”. La nostra riflessione su questi temi, salvo alcune eccezioni, in particolare da parte di coloro che si occupano di immagini e dell’impatto delle immagini sulla conoscenza, sono ancora embrionali, come se non dovessimo o potessimo misurarci con mezzi altri che la scrittura. Forse la sperimentazione che dovremmo perseguire noi storici, è quella che riflette su altre forme di restituzione del discorso storico critico, alternative o complementari alla scrittura. Misurarci con le risorse e le possibilità del web, oltreché del cinema e della televisione; produrre “testi” a geometria variabile, a partire dal riconoscimento di alcune esigenze irrinunciabili della storia e della forma di sapere che è in grado di produrre; resistendo però alla tentazione di abbandonare quanto puo’ fare della storia non tanto un genere “freddo” contrapposto al calore empatico della letteratura, quanto un prodotto democratico per il modo in cui tesse un dialogo con il lettore e si affida alla sua intelligenza critica, non solo al suo sentire immediato.

Note:

1 Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneao, Et al. edizioni, Milano, 2013.

2 Natalie Zemon Davis, La storia al cinema. La schiavitù sullo schermo da Kubrick a Spielberg, Roma, Viella, 2007, p. 96.

3 Un interessante contributo all’analisi delle forme museali di questo tipo, dal punto di vista semiologico, è il recente libro di Patrizia Violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Bompiani, Milano 2014.

4 È fondamentale anche per lanciare o rilanciare la ricerca o il dibattito storiografico. Si vedano per esempio le considerazioni sul ruolo svolto dalla mini serie televisiva Holocaust (19XX) in David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino, 2009, e in Günther Anders, Dopo Holocaust, 1979, Bollati Boringhieri, Torino, 2014 (1a ed. 1997).

5 Luc Lang, Délit de fiction. La littérature, pourquoi ?, Gallimard, Parigi, 2011.

6 Alain Corbin, Il mondo ritrovato di Louis-François Pinagot. Sulle tracce di uno sconosciuto (1798-1876), Garzanti, Milano, 2001 (ed. or. 1998)

7 Mi riferisco qui in particolare all’opera collettiva di Philippe Artières et al., Le Dossier Bertrand. Jeux d’histoire, Manuella éditions, Parigi, 2008 e al libro di Sylvain Venayre, Disparu ! Enquête sur Sylvain Venayre, Les Belles Lettres, Parigi, 2012.

8 Si vedano per esempio i due libri di Patrick Boucheron, Léonard et Machiavel, Verdier, Lagrasse, 2008 e Faire profession d’historien, Publications de la Sorbonne, Parigi, 2010, quest’ultimo a carattere più teorico, nel quale si spiegano alcune scelte stilistiche e non fatte nel precedente.

9 Ivan Jablonka, L’Histoire est une littérature contemporaine Manifeste pour les sciences sociales, Le Seuil, Parigi, 2014.

10 Ivan Jablonka, Storia dei nonni che non ho avuto. Uno storico sulle tracce della propria famiglia scomparsa ad Auschwitz, Mondadori, Milano, 2013 (ed. or. 2012). Il libro successivo di cui si parla qui, è proposto da Jablonka come una sorta di doppio di questo, che lo ha ispirato, e di cui costituisce il fondamento teorico.

11 I. Jablonka, L’Histoire est une littérature…, cit., p. 283. La traduzione è mia.

12 Ibid., p. 283