Giorno del Ricordo 2016. Intervista a Raoul Pupo
Raoul Pupo è professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Trieste, dove insegna Storia contemporanea dal 2002; è uno dei massimi conoscitori dell’esodo giuliano-dalmata e del fenomeno delle foibe. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo:
Foibe, con Roberto Spazzali, Bruno Mondadori, Milano 2003; G. Crainz, R. Pupo, S. Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2008; Il nuovo confine fra Italia e Jugoslavia; Foibe; L’esodo dei giuliano-dalmati, in a cura di A. Algostino, Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009; R. Pupo, F. Todero (a cura di), Fiume, D’Annunzio e la crisi dello Stato liberale in Italia, IRSML, Trieste 2010; Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari 2010. Ha dato un contributo fondamentale all’importante convegno internazionale di studi L’irredentismo armato. Gli irredentismi europei davanti alla guerra, Gorizia, 25 maggio, Trieste, 26-27 maggio 2014, i cui atti sono stati pubblicati a cura di F. Todero per i Quaderni dell’IRSMLFVG, 2015.
L’intervista si è svolta a Trieste il 19 novembre 2015 presso il caffè Tommaseo. Ringraziamo ancora il professor Pupo per la sua generosa disponibilità.
D. Perché è così complicato celebrare il Giorno del Ricordo, mentre questa complessità, a volte anche conflittuale, non la ritroviamo nelle celebrazioni del Giorno della Memoria?
R. Rispetto al terribile fenomeno della Shoah esiste un vasto consenso, fra gli storici e nella pubblica opinione, come pure una generale condanna delle responsabilità dei nazisti e dei loro collaboratori. Il negazionismo è un fenomeno di ridotte dimensioni, almeno in Italia, anche se certamente al riguardo non bisogna mai abbassare la guardia. Il Giorno del Ricordo si riferisce invece ad un complesso di vicende – quelle del confine orientale – rispetto alle quali esistono memorie divise, interpretazioni a lungo antagoniste ed una cospicua tradizione di politicizzazione. La legge istitutiva infatti, se per un verso fa menzione della complessità di quella storia, per l’altro pone in primo piano alcune vicende specifiche, quelle delle foibe e dell’esodo dei giuliano-dalmati, che hanno visto gli italiani nella parte delle vittime. Ciò è assolutamente vero, ma è solo una parte della storia. Il periodo che va dalla fine dell’800 alla metà del ‘900 è stato segnato da un forte conflitto fra movimenti nazionali, robustamente sostenuti dai rispettivi stati di riferimento. In fasi diverse, sia il movimento nazionale italiano che quello sloveno e croato hanno vissuto momenti di crisi e di successo: e quando hanno ottenuto il potere, lo hanno usato con grande disinvoltura ed efficacia per opprimere la parte avversa. Inoltre, fra il 1941 e il 1943 l’Italia fascista ha occupato ed annesso parte dell’ex regno di Jugoslavia, conducendo una dura politica di repressione del movimento di liberazione. In tal modo, attorno alla storia del confine orientale ‒ ma meglio sarebbe dire dei rapporti italo-jugoslavi – si sono sedimentate memorie assai dense ed antagoniste: e quelle memorie in alcuni periodi, sia da parte italiana che jugoslava, sono state oggetto di massicci investimenti politici, diretti ad utilizzarle per rafforzare le identità nazionali e per creare consenso alle forze di governo dei due Paesi, che si proponevano quali difensori e baluardo dei valori nazionali. Infine, la diversificazione dei giudizi sul passato e la costruzione di narrazioni parallele ed antagoniste non hanno riguardato solo le memorie e l’uso pubblico della storia, ma anche la storiografia, contribuendo a conferire spessore alle interpretazioni divergenti.
D. Nel senso che c’è stato uno schierarsi degli storici?
Certamente: quella del confine orientale è stata una storia fortemente politicizzata. Non dimentichiamo che quella jugoslava era una storiografia di regime, con ottimi livelli di competenza, ma legata a quelli che considerava i “capisaldi interpretativi” della ricostruzione storica, come ad esempio: la colpa originaria e principale del fascismo nell’innesco delle violenze interetniche e quindi il carattere meramente reattivo delle violenze di parte jugoslava; la distinzione fra un nazionalismo perverso ed aggressivo (quello italiano) ed un nazionalismo positivo (quello sloveno e croato), in quanto funzionale alla liberazione dei popoli; la prevalenza delle motivazioni economiche e propagandistiche alla base dell’esodo dei giuliano-dalmati; il ruolo marginale e politicamente dubbio della resistenza italiana nei territori di confine, ecc., ecc. In Italia la storiografia di sinistra per lungo tempo ha riproposto in maniera assai acritica il medesimo paradigma interpretativo di quella jugoslava ed è stata per molti aspetti storiografia militante. Anche la storiografia antifascista italiana non comunista è stata storiografia militante, spesso impegnata su di un duplice fronte polemico: contro un approccio al passato di taglio nazionalista, marginale fra gli studiosi ma ancora diffuso nella pubblicistica, e contro gli schematismi della storiografia marxista. Gli storici quindi hanno faticato non poco a mantener sempre vigile l’attenzione critica, anche perché spesso ben convinti dell’oggettiva valenza civile del fare storia di frontiera sulla frontiera. In molti casi l’onestà intellettuale ha prevalso, anche in maniera dolorosa, in altri ha facilitato le autocensure, le distrazioni, quando non il cedimento alla semplificazione ideologica.
E poi, naturalmente, c’è la memoria; o meglio, le memorie di frontiera: dolenti, sanguinanti, divise e antagoniste. Le memorie, più ancora che la storia, hanno costituito in diverse fasi e modi il materiale di elezione dell’uso pubblico e quindi anche della strumentalizzazione politica. Le memorie hanno avuto cittadinanza controversa. In Italia, quella resistenziale ha incontrato ovviamente pubblico riconoscimento, ma in termini selettivi. Così, ad esempio, la memoria dei partigiani sloveni e croati, o anche comunisti italiani contrari al mantenimento della sovranità italiana sulla Venezia Giulia, è rimasta largamente una memoria antagonista rispetto alle narrazioni ufficiali. D’altro canto, la memoria degli esuli giuliano-dalmati e dei parenti degli infoibati è stata per decenni oscurata a livello nazionale e considerata ingombrante anche a livello locale, dove a partire dalla metà degli ’60 si era sviluppato un forte impegno di superamento delle tensioni fra gruppi nazionali, che si fondava anche sulla sordina posta alle memorie più laceranti. Dopo l’89 queste memorie vittimiste di parte italiana sono riemerse con forza e – per la prima volta dagli anni ’50 – hanno ottenuto una grane visibilità pubblica. Com’era abbastanza inevitabile, l’attenzione sia dei media che della politica si è appuntata in particolare sulla questione delle foibe, nonostante quella vicenda non abbia in realtà costituito un momento di svolta per la storia dell’area di frontiera.
D. Però ha avuto un grande peso sul dibattito pubblico.
R. Verissimo, perché si è trattato sicuramente di una grande tragedia, che per le sue modalità, per l’impatto immediato nell’opinione pubblica italiana del tempo nonché per il ruolo centrale assunto nella memoria offesa, si prestava meglio di ogni altro episodio della storia di frontiera a venir rappresentata ed anche a costituire materia di investimento politico. Inoltre, era una questione che fin dalle origini aveva dato origine a due spiegazioni speculari ed entrambe fortemente ideologizzate: da parte jugoslava e comunista italiana, la negazione dell’evento considerato solo come frutto di campagne propagandistiche, o la sua riconduzione ad episodio marginale di “eccesso di reazione” contro le violenze fasciste; dal versante nazionalista italiano come frutto di un disegno preordinato di stampo genocida nei confronti della popolazione italiana. Entrambe le letture si sono accompagnate ad ipotesi di quantificazione anch’esse prive di fondamento scientifico, sia al ribasso (magari con riferimento esclusivo al numero delle vittime recuperate rispetto a quello, ben maggiore, degli scomparsi), che al rialzo, con esagerazioni talvolta clamorose: in quest’ultimo senso, ho visto qualche volta non solo riprendere le stime di circa 10.000 vittime proposte in senso consapevolmente (e a posteriori, dichiaratamente) propagandistico dagli ambienti filo italiani di Trieste nella seconda metà degli anni ’40, ma addirittura avanzare ipotesi superiori, che vanno considerate pure invenzione.
D. Quindi se si volesse dare una definizione del fenomeno foibe lei come lo spiegherebbe?
R. Credo che la cosa migliore sia quella di rifarsi al testo del Rapporto finale della Commissione mista storico-culturale italo-slovena, pubblicato nell’anno, 2000 che sintetizza bene gli esiti di una stagione di studi condotta da storici sia italiani che sloveni:
“L’estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all’Italia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel goriziano e nel capodistriano ad un’ondata di violenza che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata – in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo – in centinaia di esecuzioni sommarie immediate – le cui vittime vennero in genere gettate nelle “foibe” – e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica), creati in diverse zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani”.1
Il brano si riferisce in particolare alle stragi della primavera – estate del 1945, in quanto perpetrate in un’area di competenza della storiografia slovena, cioè Trieste, Gorizia e i loro dintorni. Non si fa menzione invece delle violenze di massa dell’autunno 1943, perché esse avvennero principalmente nell’Istria interna, ove era attivo il movimento di liberazione croato. Il quadro interpretativo però non muta, anche se la scala fu inferiore (le vittime furono nell’ordine delle centinaia invece che delle migliaia) e maggiore invece la confusione, perché i “poteri popolari” vennero costituiti in maniera assai frettolosa e funzionarono solo per poche settimane. Dei tre passaggi previsti dai piani repressivi – arresti di sospetti “nemici del popolo”, loro invio nei campi di prigionia ed eliminazione di quelli considerati più pericolosi – mancò quindi il tempo per realizzare i campi e i prigionieri vennero quasi tutti uccisi, dopodiché i corpi vennero fatti sparire nelle cavità naturali del terreno carsico (foibe) ovvero in pozzi minerari.
Rimane da aggiungere, che quelle ondate di violenza ed in particolare quella della primavera 1945, si differenziano in maniera abbastanza evidente da altri fenomeni apparentemente simili avvenuti nell’Italia settentrionale ma anche in diverse regioni dell’Europa occidentale al momento del tracollo del potere nazifascista. Nella Venezia Giulia infatti le stragi non sono soltanto espressione di una “resa dei conti” (ovviamente, esiste anche questo aspetto, ma è secondario) o di una radicalizzazione politica proveniente dal basso, ma costituiscono parte integrante di una programma repressivo concepito e deciso dai vertici del partito comunista, organizzato e condotto da organi del nuovo potere, come la polizia politica, e assolutamente strategico per la costruzione del nuovo ordine. Insomma, accade nella Venezia Giulia quel che negli stessi giorni succede in Slovenia e Croazia, non in Emilia.
D. Generalmente si parla di infoibamenti di italiani, trascurando che il fenomeno si estese anche in area slovena e croata.
R. Questo accade perché in genere noi italiani quando parliamo delle stragi nella Venezia Giulia pensiamo sempre a quel che è successo ai nostri connazionali all’interno di territori facenti parte dello stato italiano; ma sia nel 1943 che nel 1945 da parte del movimento di liberazione jugoslavo i medesimi territori erano considerati quali facenti parte a tutti gli effetti della Slovenia e della Croazia. Quel che accadde quindi, fu l’estensione prima all’Istria e poi anche a Trieste e Gorizia delle pratiche di lotta e repressione maturate durante la guerra di liberazione / guerra civile jugoslava. In quel contesto, ovunque il movimento partigiano liberava – anche solo temporaneamente – un’area più meno grande territorio, procedeva immediatamente a “ripulirla” dai “nemici del popolo”. Ciò significava frequentemente la loro eliminazione in maniera abbastanza spiccia. Ovviamente, la categoria di “nemici del popolo” abbracciava soggetti assai diversi, a seconda dei luoghi e dei momenti. Se – per esempio – nel cuore della Croazia “nemici del popolo” erano i membri delle élite locali che avevano esitato a schierarsi dalla parte “giusta” durante i frequenti passaggi di mano di territori e villaggi, in Istria “nemici del popolo” erano automaticamente considerati i componenti della classe dirigente italiana. Nella primavera del 1945 poi, la liberazione/presa del potere in Slovenia e Croazia fu accompagnata da una massa di arresti ed esecuzioni a danno dei collaborazionisti cetnizi (serbi), ustascia (croati) e domobranzi (sloveni) in fuga verso l’Austria. Le vittime furono molte decine di migliaia e le tecniche di eliminazione sempre le medesime: fucilazioni collettive ed occultamento dei cadaveri nelle cavità naturali o artificiali. Le stragi che gli italiani chiamano foibe del ’45 fanno parte a tutti gli effetti di questo fenomeno. Così, nella Venezia Giulia troviamo fra le vittime alcuni sloveni “bianchi” (sacerdoti ed esponenti anticomunisti), ma soprattutto molti italiani, in virtù spesso dell’equazione italiano uguale fascista.
D. Un’equazione semplificatrice per una situazione complessa.
R. Semplificazione terribile, non c’è dubbio, ma non invenzione. Il “fascismo di frontiera” altroché se non è esistito! Ed è stato decisamente brutale. Inoltre, l’equazione fra italianità è fascismo è stata perseguita esplicitamente dal regime con ogni mezzo. Infine, fra gli italiani della Venezia Giulia l’antislavismo era ben diffuso anche fra molti che fascisti non erano affatto, o addirittura antifascisti. Tutto questo ha facilitato molto la diffusione tra i quadri partigiani jugoslavi, come pure fra la popolazione slovena e croata, di un significato estremamente estensivo del termine “fascista”, sostanzialmente intercambiabile con quello di “nemico del popolo”, che voleva dire semplicemente “chi non sta con noi”. Anche nel dopoguerra, nel linguaggio ufficiale del regime jugoslavo appare la distinzione fra gli “italiani onesti e buoni” – cioè i sostenitori dell’annessione alla Jugoslavia e del regime di Tito – e i “residui del fascismo” o “nemici del popolo”, cioè tutti gli altri italiani. Applicando questi schemi semplicistici, poteva quindi accadere – ad esempio – che nel 1945 fossero considerati “residui del fascismo” i componenti dei CLN di Trieste e Gorizia che si erano rifiutati di mettersi agli ordini dei comandi jugoslavi e di sostenerne la politica annessionista. Ma poteva anche succedere che i comunisti italiani, inizialmente tutti “onesti e buoni”, nel 1948 divenissero quasi in blocco “nemici del popolo”, per aver scelto Stalin invece che Tito al momento della crisi del Cominform.
D. E la città di Trieste come si colloca all’interno di questa memoria?
R. C’è stata una evoluzione: la città è stata la sede di condensazione delle memorie divise, quelle della comunità slovena legate alle persecuzioni fasciste e quelle della comunità italiana colpita dalle stragi del 1945. Inoltre, a Trieste hanno trovato rifugio decine di migliaia di esuli dall’Istria, portatori anch’essi di memorie fortemente divisive.
Ma Trieste è stata anche città di rimozioni. Fino a tutti gli anni ’50 quella slovena era una memoria negata in quanto memoria del nemico ed anche successivamente è rimasta una memoria di nicchia. Si è dovuto aspettare il 2014 affinché una storica di lingua slovena venisse (non senza qualche patema) al teatro Verdi, tempio dell’italianità, a raccontare la storia del movimento nazionale sloveno a Trieste, senza che accadesse nulla!
Successivamente, anche l’altra memoria dolente, quella delle foibe e dell’esodo, è passata in seconda fila. Non per estinzione – al contrario, era vivissima – ma per scelta politica. Negli anni ’60 e ’70 la città ha cercato di voltare pagina rispetto alle lacerazioni del passato, guidata da una classe dirigente di matrice cattolico-democratica e socialista che al conflitto nazionale voleva sostituire l’integrazione ed al confine-barriera con la Jugoslavia un confine-ponte. Rispetto a questa prospettiva, la memoria delle foibe e dell’esodo diventava terribilmente ingombrante, anche perché nella stagione politica precedente era stata massicciamente usata come arma di lotta politica e fino a tutti gli anni ’70 continuava a venir strumentalizzata da parte di chi si opponeva al nuovo corso. Anche gli storici – che erano tutti variamente antifascisti – non ne potevano più e studiavano altro: il fascismo di confine, le occupazioni italiane in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, la “questione di Trieste” in una prospettiva globale di storia delle relazioni internazionali: tutto ma non le foibe, per carità! Un po’ di più è stato studiato invece l’esodo, con una grande ricerca promossa dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione, che ha condotto alla pubblicazione del volume Storia di un esodo, ancor oggi di utile lettura. La ripresa di interesse per quelle vicenda è avvenuta appena negli anni ’90 e dal punto di vista scientifico è andata molto bene, nel senso che i principali nodi interpretativi sono stati risolti senza grandi difficoltà e con una buona collaborazione fra storici italiani e sloveni.
D. La commissione italo-slovena?
R. Quello è stato un passaggio decisivo. Significativamente, l’iniziativa non ha avuto origine in campo accademico, ma politico. Infatti, alla fine degli anni ’80, dopo il terremoto dell’89, vi era la preoccupazioni che il riaccendersi – peraltro opportuno – dell’attenzione su alcune zone oscure dei rapporti italo-jugoslavi, potesse scatenare in Italia un’ondata di revisionismo storiografico di destra. Ce n’era qualche avvisaglia con la proposta, avanzata da alcuni deputati di noto orientamento nazionalista, di costituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle foibe. Questo avrebbe comportato un approccio giudiziario, unilaterale e decontestualizzato alla questione, che avrebbe favorito speculazioni politiche e danneggiato le relazioni fra l’Italia ed una Jugoslavia avviata sulla via del postcomunismo, ovvero con le eventuali repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia, qualora l’evoluzione della crisi jugoslava avesse determinato la scomparsa della repubblica federativa. Di conseguenza, nel settembre del 1990 il consiglio comunale di Trieste – città simbolo della contesa italo-jugoslava – guidato da una coalizione di centro-sinistra, ha approvato – sorprendentemente all’unanimità e quindi anche con il consenso dell’estrema destra – una mozione in cui si chiedeva la costituzione di una Commissione bilaterale italo-jugoslava formata da storici dei due Paesi ed incaricata di far chiarezza sul problema delle foibe. L’idea ovviamente era concordata con il governo italiano, che ne ha tratto lo spunto per avviare i negoziati con quello di Belgrado. In corso d’opera il quadro di riferimento è cambiato, perché la Jugoslavia è andata a gambe all’aria, ma il progetto è andato ugualmente in porto con la costituzione nell’ottobre del 1993 di due commissioni miste storico culturali, una italo-slovena ed una italo-croata. Anche l’obiettivo è cambiato, e in meglio: non più solo le foibe, ma “una globale ricerca e disamina di tutti gli aspetti rilevanti delle questioni politiche e culturali bilaterali nel corso di questo secolo”.
D. Chi faceva parte di questa commissione?
R. I componenti originali della delegazione italiana della Commissione erano i proff. Sergio Bartole (che fungeva da Copresidente), Elio Apih, Angelo Ara, Paola Pagnini, Fulvio Salimbeni, lo scrittore Fulvio Tomizza ed il senatore Lucio Toth. In momenti successivi, per sopraggiunti impegni internazionali, Bartole è stato sostituto (anche nella Copresidenza) dal prof. Giorgio Conetti, Fulvio Tomizza – ammalato – da me ed Elio Apih (anche lui per problemi di salute) dalla prof. Marina Cattaruzza. I componenti originali della delegazione slovena erano la dott. Milica Kacin-Wohinz (che fungeva da Copresidente), i dott. France Dolinar, Boris Gombac, Branko Marusic, Boris Mlakar, Nevenka Troha e Andrei Vovco. Ad un certo punto Mlakar si è dimesso ed al suo posto è subentrato il dott. Aleksander Vuga. Più tardi però Mlakar è rientrato al posto di Gombac, che è uscito dalla Commissione in polemica con la linea della delegazione slovena ed ha pubblicato per suo conto un volumetto che riproponeva le tesi tradizionali della storiografia comunista jugoslava.
D. Quanti anni sono durati i lavori?
R. Siamo andati avanti fino al 2000. Credo che nessuno si aspettasse che saremmo arrivati in fondo: erano tutti convinti che avremo finito per litigare, soprattutto sul problema delle foibe e invece è proprio quello è stato uno dei nodi più facili da risolvere, perché chi lo curava direttamente – cioè la collega Troha ed io – stavamo già per conto nostro lavorando sulle medesime fonti ed arrivando alle medesime conclusioni. Quindi, si trattava più che altro di scrivere assieme un testo che rispettasse le varie sensibilità, partendo da giudizi storici largamente comuni.
Più difficili sono state altre questioni. Ad esempio, fare i conti con i cosiddetti “capisaldi interpretativi” cui la delegazione slovena è rimasta per un certo tempo abbarbicata, in piena continuità con la precedente tradizione jugoslava. La materia principale del contendere era una visione lineare del processo storico, stretta da rigidi nessi causa-effetto che avevano lo scopo di individuare la “colpa primigenia” di tutte le disgrazie novecentesche, cioè il fascismo. Con il tempo e la discussione, il determinismo iniziale è stato abbandonato: ovviamente senza trascurare le responsabilità del fascismo, si è pervenuti a una visione più articolata della dinamica storica, attenta alle continuità come alle novità e capace d’individuare l’intreccio dei fili che si sono intersecati nel comporre i diversi fenomeni storici, che si parlasse di logiche della violenza oppure di sistemi di governo del territorio o di politiche delle minoranze.
D. E’ stato un lavoro importante, anche dal punto di vista della crescita personale.
R. Assolutamente sì, è stata un’esperienza bellissima, che ha consentito di moltiplicare i rapporti fra gli storici dei due Paesi.
D. C’era solo questa commissione o ce ne sono state altre?
R. L’altra metà era quella italo-croata che però si è fermata subito, si è bloccata dopo poche riunioni senza motivo apparente, una motivazione ufficiale non è mai stata comunicata.
D. Si è dato una spiegazione?
R. Mah, solo a livello di ipotesi. Tenga presente che all’epoca la Croazia si era appena costituita come Stato e si trovava ancora in una fase di ridefinizione identitaria, soprattutto a livello storico. A esempio, che giudizio davano gli storici croati sull’esperienza dello stato ustascia? Una pagina oscura ovvero un precedente cui ricollegarsi? E quando si fosse giunti a parlare della seconda guerra mondiale, l’Italia come doveva venir considerata? Una potenza liberatrice o occupatrice? E che dire dei rapporti triangolari fra italiani, ustascia e cetnici? Probabilmente, per la delegazione croata sarebbe stato un po’ imbarazzante arrivare alla discussione su argomenti del genere. Ma queste sono solo illazioni. Comunque, peccato, perché, senza l’esperienza comune del lavoro in Commissione, i rapporti fra storici italiani e croati sono rimasti a lungo più labili di quelli con gli storici sloveni.
D. Quali potrebbero essere le tappe, i luoghi significativi di un viaggio nel confine orientale per coglierne appieno la complessità?
R. Come sempre, dipende da quello che si cerca. Se l’interesse prevalente è per i luoghi della Grande guerra sulla fronte orientale, allora il centro è Gorizia e le tappe fondamentali sono tre. Gorizia appunto, con il museo della guerra e poi, nei dintorni, il Sabotino e la zona Vodice – Monte Santo. Poi la parte meridionale del fronte: Sei Busi, San Michele, Redipuglia. Per il settore dell’alto Isonzo: Caporetto (con il museo e l’ossario) e il Kolovrat.
Per le questioni nazionali conviene invece partire da Trieste. Per cominciare, basta girare per la città e leggere quello che gli edifici raccontano delle diverse stagioni di una società plurale.
Prima la fase cosmopolita, fra ‘700 e metà ‘800, quando le parole d’ordine sono arricchimento e tolleranza. Ecco allora la casa che dichiara – con l’architettura e i fregi – di essere appartenuta ad un ricco mercante greco di idee liberali; più oltre, le residenze di un commerciante serbo e di un dirigente ebreo della Assicurazioni Generali, nonché la sede imponente della Borsa, vigilata da un occhio massonico. E poi, le più visibili di tutte, la chiese delle comunità ortodosse greca e serba, luterana, evangelica, anglicana, per non parlare della sinagoga monumentale.
Segue la fase in cui il meccanismo d’integrazione che aveva funzionato benissimo con le religioni tradizionali (per chi ha tempo, c’è anche il cimitero islamico) entra in crisi di fronte alla nuova religione tardo-ottocentesca, quella della patria, che tollerante non lo è davvero. E allora, gli edifici diventano simboli identitari fra loro non più in dialogo, ma in conflitto. Il governo austriaco e le componenti filo-governative della società triestina promuovono la costruzione di grandi palazzi che facciano di Trieste una “Vienna sul mare”. Il comune a maggioranza liberal-nazionale contrappone edifici pubblici che rinviano alla tradizione italica. Ad un angolo della strada si scopre la sede della prima banca ceca (i cechi erano alla testa e finanziavano i movimenti nazionali slavi nell’Impero asburgico) in stile modernista, ma quasi di fronte si erge, costruito nei medesimi anni, un palazzo rinascimentale veneziano (curiosa, la ripresa del mito di Venezia in chiave nazionale italiana da parte della classe dirigente di una città come Trieste che – dopo essere stata schiantata da Venezia nel medioevo – nella modernità era cresciuta a danno della Serenissima, godendo della sua rovina). E poi, la contrapposizione frontale, urlata nella pietra. Dove si apriva la piazza della caserma grande, in pieno centro cittadino, sorge agli inizi del ‘900 il Narodni Dom, edificio per quell’epoca ultramoderno, di estrema linearità razionalista, sede delle organizzazioni slave e simbolo delle ambizioni della nuova borghesia slovena. E’ un affronto all’esclusivismo italiano e di fronte ecco s’impone un altro palazzo, coevo, ma irto di colonne e fregi, che accatasta tutte le forme rinascimentali e manieriste. Ma non basta. Sul tetto del palazzo “italiano” viene collocato un leone; non può avere il Vangelo fra le zampe, perché il riferimento a quello di san Marco sarebbe troppo scoperto, ma in ogni caso la belva è rampante e ruggisce, ovviamente in direzione del Narodni Dom! Ma non basta ancora. Non molti anni dopo, in epoca fascista, l’intera area viene ristrutturata. Il Narodni Dom è già stato bruciato dagli squadristi nel 1920, ma l’edificio (prima in rovina, poi riconvertito in albergo) infastidisce ancora gli animi fascisti e quindi davanti a lui, in modo da impedirne la visione dalla piazza, viene costruito un altro palazzo in stile italico, irto di colonne e fregi come il precedente: soltanto, non serve più il leone.
D. Se non ricordo male, l’istituto regionale di Trieste ha proposto un percorso sui luoghi della storia e della memoria del confine orientale.
R. Per guidare il visitatore alla scoperta della storia attraverso il paesaggio della provincia di Trieste, l’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia ha predisposto una serie di prodotti multimediali, sotto il titolo “Vie della memoria”2. Al momento sul sito dell’Istituto sono disponibili e scaricabili liberamente tre percorsi: uno fra i luoghi della tolleranza e dell’inclusione, uno fra quelli dell’irredentismo e della grande guerra ed uno fra i luoghi delle violenza del ‘900. Fra questi ultimi, le tappe principali sono costituite dal Narodni Dom, dalla risiera di san Sabba, dalla foiba di Basovizza, dal centro raccolta profughi di Padriciano.
Infine, Trieste è la porta dell’Istria. Da pochi mesi è stato aperto il nuovo museo della civiltà istriana, fiumana e dalmata, che è strutturato in modo da offrire dapprima un’introduzione generale alla storia dell’Adriatico orientale sotto il profilo del rapporto ambiente/insediamenti e poi un percorso attraverso il filone culturale latino, romanzo, veneto, italiano, per concludersi attualmente con l’esodo e la sua memoria, mentre è previsto un ampliamento all’Istria di oggi.
Un viaggio nelle complessità del confine orientale credo quindi debba concludersi in Istria, mentre la Dalmazia – peraltro bellissima – è un po’ più difficile da contenere all’interno di un’escursione scolastica, vale un viaggio a parte.
Anche in Istria, vi sono molte possibilità. Io suggerirei un percorso che attraversi le “tre Istrie”: quella bianca (carsica, aspra, con rado popolamento storico slavo); quella verde, boscosa, con le cittadine italiche chiuse nelle loro mura in cima ai colli (il paesaggio sembra toscano) e le campagne tradizionalmente slave; quella rossa, dal colore della terra, regno delle colture e delle genti mediterranee. Si può così passare dai tabor (chiese fortificate contro le invasioni turche) a centri urbani già fiorenti e – a tutt’oggi! – completamente abbandonati dopo l’esodo degli italiani negli anni ’50 (ad esempio Piemonte d’Istria), ovvero riconvertiti da poco in cittadine turistiche (Grisignana, Montona), fino ad arrivare alle città costiere, con il classico impianto su promontori (Pirano) o su isole (Capodistria, Rovigno) e l’onnipresente retaggio della koinè dapprima romana (Parenzo, Pola, Brioni), poi bizantina (Parenzo con i mosaici della basilica eufrasiana) e poi, ovunque, veneziana. Fuori stagione turistica, se si ha un po’ di fortuna, può anche capitare di imbattersi in qualche abitante del luogo che comunica ancora nel dialetto veneto. Se invece il caso lo si vuole aiutare un po’, conviene programmare qualche incontro con le scuole della minoranza italiana oppure una visita al Centro di ricerche storiche di Rovigno, il principale punto di riferimento culturale dei residui italiani d’Istria.
D. Come mai un Museo della civiltà istriana, fiumana e dalmata a Trieste?
R. Perché Trieste viene considerata la “capitale dell’esodo”, non solo per il numero di profughi giuliano-dalmati che vi hanno trovato rifugio, ma anche perché molti di loro hanno costituito il nerbo della dirigenza politica triestina a partire dalla fine degli anni ’50, perché a Trieste la memoria dell’esodo e della precedente realtà istriana è più viva che altrove e poi perché Trieste è stata la città di riferimento per l’Istria a partire dall’800. La costituzione del museo è stata promossa dalle associazioni dei profughi ed in particolare dall’Istituto regionale per la cultura istriana, fiumana e dalmata (Irci), che è un istituto costituito una ventina di anni fa dalle medesime associazioni dei profughi, assieme al Comune e la Provincia di Trieste, il Comune di Muggia (unica cittadina istriana rimasta in Italia) l’Università di Trieste e la società di Storia Patria per la Venezia Giulia. La realizzazione è stata particolarmente impegnativa, non solo per le ovvie difficoltà finanziarie. Già il nome pone un problema: esiste una “civiltà istriana, fiumana e dalmata”? E in cosa consiste? Su questo si è discusso moltissimo e la risposta dei curatori è stata che la specificità dell’area istro-dalmata consiste nella sua forte pluralità, frutto della sovrapposizione e qualche volta dell’incrocio di genti, lingue e culture diverse, provenienti sia dal Mediterraneo che dal centro Europa. Oggi però questo quadro ampio non è compiutamente rappresentabile in un’unica esposizione, perché quella dell’ultimo settantennio è stata una storia di frammentazione, che ha disperso comunità e memorie. Attualmente, sul territorio dell’Istria divisa fra Slovenia e Croazia (per non parlar della Dalmazia) prevale una rappresentazione della storia che nega o trascura l’apporto del filone latino-romanzo-veneto-italiano, considerandolo antiquariato o frutto di colonialismo. Viceversa, in Italia era fortissima la richiesta di un percorso espositivo che recuperasse proprio quel filone, in cui si riconoscono gli esuli e le loro organizzazioni.
La ricomposizione di una realtà così dissociata è possibile solo a livello di rete. Pertanto, il Museo di Trieste non si propone come conclusione di un’operazione culturale tutta interna ad una logica divisiva (diversamente da quanto desiderato da chi lo concepiva in termini meramente vittimistici e polemici), ma come punto di partenza di un percorso comune. Dichiaratamente, l’esposizione è parziale, nel senso che privilegia la tradizione, diciamo sinteticamente, italica, anche se per la verità a livello di cultura materiale (largamente rappresentata nella parte dedicata all’agricoltura tradizionale) le distinzioni nazionali sono semplicemente prive di senso. Contemporaneamente, sono stati avviati contatti con i principali musei istriani, in Slovenia e Croazia, per avviare forme le più strette possibili di collaborazione, a livello di scambi di materiali, cataloghi comuni, predisposizione di percorsi turistici, ecc. Abbiamo riscontrato un vero entusiasmo da parte dei colleghi sloveni e croati, quindi la via è segnata.
Naturalmente, non le nasconderò che non tutti in Italia condividono tale impostazione e la realizzazione del Museo è stata in forse praticamente fino all’ultimo istante. Comunque, il Museo oggi è aperto e dovrebbe diventare di proprietà del comune di Trieste. Rimanendo fedeli alla prospettiva di cui le ho detto, il Museo può diventare una vera porta alla conoscenza dell’Istria e della Dalmazia per i moltissimi italiani che vi recano ogni anno in vacanza, in genere senza riuscire a cogliere lo spessore storico e culturale di quel che vedono. Speriamo in bene…
D. E il rapporto con le comunità italiane d’Istria?
R. I rapporti sono intensi. Al riguardo, un ruolo decisivo è svolto dall’Università popolare di Trieste, in quanto ente erogatore dei fondi stanziati dal governo italiano per sostenere le comunità italiane in Slovenia e Croazia. Il punto è, che si tratta di comunità assai poco numerose e quindi fortemente esposte ai fenomeni di assimilazione. Inoltre, sono prive di autonomia finanziaria e quindi dipendono largamente dall’esterno. Ad animarle sono piccoli nuclei di giornalisti ed insegnanti, che devono affrontare sfide molto difficili. Anche il sistema scolastico in lingua italiana è buono, ma soffre del fatto che nella maggior parte dei casi la lingua d’uso dei frequentanti è il croato (o lo sloveno) piuttosto che l’italiano. Un discorso a parte merita il Centro di ricerche storiche di Rovigno, una splendida istituzione che costituisce il principale punto di riferimento per la tutela e valorizzazione dell’identità italiana in Istria.
D. Come è stata vissuta a Trieste la dissoluzione della Jugoslavia?
R. Beh, eravamo in prima linea… Sul confine, dove di solito si andava a fare la spesa perché in “Yugo” carne e benzina costavano meno, c’erano i carri armati e poliziotti sloveni e soldati dell’armata jugoslava si sparavano addosso… Per farle capire le reazioni emotive, quell’anno la mia famiglia aveva programmato la prima vacanza “grande” perché il figlio ormai aveva raggiunto l’età per un bel viaggio. Mia moglie è esule da Isola d’Istria, a pochi chilometri da Trieste, e così sua sorella. Immediatamente in loro è scattato il meccanismo: “Oddio, arrivano….” Quindi le due sorelle hanno caricato sulle auto mariti e figli e hanno detto: “Andiamo in Francia, che sta tutto dall’altra parte!”
D. Vorrei chiederle dei consigli di lettura.
R. Come prima sintesi storica per le scuole partirei dal Il confine orientale. Una storia rimossa, in «I viaggi di Erodoto», XII (1998), n. 34, un dossier che a quel tempo avevamo curato Franco Cecotti ed io e che poi è stato aggiornato nella Newsletter “Per la storia mail”, 2010, n. 28. A livello storiografico i due testi di riferimento sono Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino 2007 e Egidio Ivetic, Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia
(1300-1900), Viella 2014. Combinandoli fra loro, si riesce ad avere un’ottima panoramica dei processi storici e dei nodi interpretativi. Consiglio inoltre di consultare una buona cartografia, altrimenti orientarsi è davvero difficile. La cosa più semplice è consultare quella offerta on line dal sito dell’IRSMLFVG.
D. E fonti letterarie?
R. Ce ne sono infinite e, anche qui, dipende da che cosa si cerca, perché la Venezia Giulia è una realtà estremamente articolata. La Trieste modernissima, mercantile, laica ed ancora largamente cosmopolita che si rivela nelle pagine di Svevo e di Saba, non ha molto da spartire con la periferia veneta dell’Istria. Le riflessioni – non sempre agevoli da proporre agli studenti – di Slataper o di Stuparich sulle questioni nazionali e sugli itinerari dell’irredentismo fanno anch’esse riferimento al contesto centro-europeo. Esiste quindi una letteratura triestina fra ‘800 e ‘900, mentre invece una letteratura istriana dotata di proprie specificità compare dopo il trauma del secondo dopoguerra, come letteratura dell’esodo o dei rimasti: e qui i nomi di riferimento sono Fulvio Tomizza, Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, Licio Zannini. Ancora diversa è la realtà della Dalmazia, non solo per la presenza di un autore del calibro di Tommaseo, ma per il suo profondo pluralismo linguistico e culturale. Direi che le opere di Enzo Bettizza ne offrono una buona rappresentazione.
Note
1 Per leggere la relazione della commissione storica italo-slovena consultare il sito http://www.kozina.com/premik/indexita_porocilo.htm
2 Cfr. http://www.irsml.eu/didattica-presentazione/materiali-mulimediali/213-le-vie-della-memoria-video-pdf