I luoghi di memoria alla prova del tempo
Stele al Cimitero della Futa
Crediti: Vignaccia76 – Own work, CC BY 3.0, Link
Abstract
L’articolo ripropone l’intervista che Claudio Silingardi ha fatto a Elena Pirazzoli durante la Summer school 2023 dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, intitolata “Didattica della storia e territorio: paesaggi, luoghi di memoria, musei diffusi” e organizzata presso Casa Cervi e Istoreco Reggio Emilia dal 29 al 31 agosto 2023. Il dialogo ha affrontato principalmente il concetto di “luogo di memoria” nelle varie declinazioni che ha assunto nel tempo in Italia e non solo.
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This article reproposes the interview that Claudio Silingardi gave to Elena Pirazzoli during the 2023 Summer school of the Ferruccio Parri National Institute, entitled “Didactics of history and territory: landscapes, places of memory, diffuse museums” and organised at Casa Cervi and Istoreco Reggio Emilia from 29 to 31 August 2023. The dialogue mainly addressed the concept of “place of memory” in the various declinations it has taken on over time in Italy and beyond.
La definizione di luogo di memoria in Italia ha avuto una declinazione quasi istituzional-nazionale con il lavoro di Mario Isnenghi, nato per censire i luoghi simbolici della nostra nazione. Vi sono però declinazioni anche molto diverse, ad esempio in Francia (dove il termine è nato) e in Germania. La definizione poi si è evoluta e ultimamente incontra il tema dell’ambiente, del patrimonio, con un allargamento ulteriore del campo. Naturalmente, nell’ambito delle nostre riflessioni, noi siamo molto centrati sul tema dei luoghi di memoria riguardanti in generale la Seconda guerra mondiale.
L’introduzione del concetto di lieu de mémoire si deve allo storico francese Pierre Nora che, a partire dai primi anni Ottanta e in équipe con altri studiosi, ha portato avanti una monumentale ricerca sui luoghi significativi della storia nazionale francese, intitolata proprio Les lieux de mémoire e suddivisa in tre sezioni, La Republique, la Nation, Les France. A testimoniare l’importanza assunta, nel 1993 lieu de mémoire diviene un lemma de Le Grand Robert de la langue française, con la definizione di “unità significativa, d’ordine materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha reso un elemento simbolico di una comunità (Pierre Nora, 1984)”. In quella ricerca, “luogo” non è necessariamente un punto del territorio o sulla mappa, quanto invece un punto significativo, un precipitato di senso. Riprendendo il latino lŏcus, il termine luogo indica una porzione di spazio delimitata, intesa in senso sia concreto che astratto: luogo può essere un punto del territorio o un punto concettuale. Per Nora, lieu de mémoire va quindi inteso in tutte le sfaccettature del termine: dall’oggetto più materiale e concreto fino all’oggetto più astratto e intellettualmente costruito. Musei, archivi, monumenti, sacrari ma anche personaggi, date, trattati, avvenimenti, simboli: lieu de mémoire è tutto quello che ha un peso per l’identità collettiva di una comunità, che in questo caso particolare è quella nazionale francese.
Questo concetto ha avuto molta fortuna in ambito storiografico, fino a diventare un nuovo paradigma concettuale per l’interpretazione storica. Studiosi di altri paesi europei l’hanno ripreso e declinato rispetto alle proprie realtà nazionali: per quello che riguarda l’Italia, Mario Isnenghi ha curato i tre volumi di I luoghi della memoria dell’Italia unita: Strutture ed eventi, Personaggi e date, Simboli e miti, pubblicati nel 1997-1998, in cui, per fare qualche esempio, luoghi della memoria sono “La Grande guerra”, “La ritirata di Russia”, “La Resistenza”, “Piazza Fontana”, “Mazzini”, “Matteotti”, “Mussolini” ma anche “Pinocchio”, “il ’68” e poi “la piazza”, “il caffè e l’osteria”, “il cinema”, “l’oratorio”, “il comizio, “lo sciopero generale”, ecc.
Se “la piazza” è intesa in senso concettuale, “Piazza Fontana” è sicuramente un luogo fisico (proprio quella piazza di Milano) ma ha assunto un valore simbolico di evento, ovvero la strage che dà corpo alla “strategia della tensione”, diventando luogo della memoria significativo nella storia nazionale. Nei tre volumi curati da Isnenghi vi sono anche delle grandi assenze: non c’è ad esempio la stazione di Bologna, che è un luogo con un carico analogo a Piazza Fontana. Ciò deriva non solo da scelte ma anche dal momento in cui è stato concluso il progetto: probabilmente la Stazione di Bologna non si era ancora caricata dei significati che oggi le riconosciamo. Per altro, può essere interessante anche ragionare sulla distanza tra gli eventi e il momento in cui divengono precipitati di senso: sicuramente la percezione dell’importanza di questo genere di luoghi muta nel tempo. Se si facesse lo stesso progetto adesso, la Stazione di Bologna sarebbe certamente inclusa e con lei altri luoghi feriti dalle bombe di quegli anni.
Il caso tedesco è molto interessante. I tre volumi sulla Germania, Deutsche Erinnerungsorte, sono usciti nel 2001 a cura di Étienne François e Hagen Schulze. Quando si è trattato di tradurre il paradigma concettuale Lieu de Mémoire dal francese all’italiano, si è scelta una trasposizione diretta: “luogo di memoria”. Anche in inglese l’approccio è analogo e si usa Site oppure Place of Memory. In tedesco invece si è fatta una scelta diversa. Nella lingua c’era già un termine analogo, che somiglia a Lieu de Mémoire, ovvero Gedenkstätte. In Germania ci sono molti luoghi denominati così, come ad esempio i musei-memoriali dei campi di concentramento. Il Dizionario della lingua tedesca del tempo presente (Wörterbuch der deutschen Gegenwartssprache) indica che il termine è stato coniato negli anni Settanta nella Germania Est, dove è stato portato avanti un certo tipo di politica della memoria (basti pensare ai memoriali dei campi di Buchenwald, Sachsenhausen, Ravensbrück). Il suo senso è “sito commemorativo”: gedenken significa “commemorare”, ovvero rimanda al senso della ritualità della memoria. Per il progetto analogo a quello di Pierre Nora in Germania viene quindi coniato un traducente appropriato: Erinnerungsort, in cui Ort significa “luogo” come Stätte è “sito”, mentre Erinnerung indica la facoltà, la capacità del ricordare.
In Germania ci sono quindi due termini per certi aspetti affini per restituire due accezioni differenti di “luogo di memoria”. Il caso tedesco esplicita così l’esistenza di una sovrapposizione di definizioni: in un caso la formula viene usata come paradigma concettuale e come nuovo strumento storiografico (soprattutto in ambito accademico), nel secondo la diffusione è più ampia, transitando dalla ricerca storica alla divulgazione, fino alla dimensione politico-amministrativa. Inoltre, se nella definizione di Nora è soprattutto l’aspetto simbolico, e quindi astratto, ad essere preso come riferimento, l’altra definizione lega necessariamente la memoria al luogo fisico.
In Italia, uno dei primi testi che fa ricorso al termine “luogo” per riferirsi precisamente ai punti geograficamente identificati dove la Seconda guerra mondiale ha lasciato tracce, caricandosi di un peso gravoso, non usa tuttavia questa formula: il titolo è Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, a cura di Tristano Matta (edito da Electa e dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia nel 1996). È un libro che per me è stato seminale. In questo titolo capiamo cosa, nella nostra definizione odierna di “luogo di memoria”, è stato eliso: il termine “violenza”. Si dà per assodato che parliamo di luoghi di memoria della violenza subita. Nel concetto di Pierre Nora non c’è necessariamente la violenza, invece la sensazione che tutti noi abbiamo percepito lavorando su questi luoghi è che essi siano diventati, con una contrazione, una elisione, “luoghi della memoria”, quando in realtà sono “luoghi della memoria di un trauma che è stato generato da una violenza”. E questo passaggio secondo me è molto interessante, perché sposta il discorso su qualcosa di molto più complicato, un peso che rimane sul luogo anche in assenza di costruzioni memoriali o percorsi museali. A volte un nodo traumatico che passa attraverso le generazioni senza sciogliersi.
In questi ultimi anni il tema dei luoghi di memoria ha assunto sempre maggiore centralità, soprattutto con la progressiva scomparsa dei protagonisti, perché in qualche modo per molti c’è l’idea che questi luoghi, che sono ritenuti autentici, possano sopperire alla testimonianza dei protagonisti. I luoghi diventano dunque sempre più deputati a rappresentare questa verità, unendo tra l’altro comprensione ed emozione nel loro attraversamento. Eppure questi luoghi presentano notevoli complessità e problematicità, che sono frutto anche del passare del tempo e delle trasformazioni intervenute per scelte politiche, per abbandoni, per trasformazioni, per riutilizzi, ecc. Non a caso questi luoghi possono oggi essere anche luoghi di conflitto tra diverse memorie che possono rivendicare un proprio riconoscimento rispetto allo stesso luogo. Sarebbe interessante prendere in esame alcuni casi emblematici di come sia problematico avvicinarsi ai luoghi di memoria.
Nel corso di questa Summer school dell’Istituto nazionale sono risuonate spesso diverse parole che mi piacerebbe mettere un po’ in correlazione: stratificazione e interpretazione, ad esempio.
Proviamo a ragionare soprattutto sui luoghi della memoria intesi in senso più fisico del termine, ma comunque tenendo presenti le due declinazioni dell’espressione. Oggi possiamo notare una stratificazione di interpretazioni sui luoghi stessi. L’individuazione, la mappatura, la costruzione di una “topografia” memoriale è un processo che si sviluppa nel tempo: alcuni vengono identificati e perimetrati immediatamente, altri progressivamente, per cui la nostra mappa si è arricchita con il passare dei decenni ed è diventata molto più capillare, molto più complessa, aggiungendo anche relazioni tra i vari luoghi. Pensiamo al caso del sistema concentrazionario sul territorio europeo. Su alcuni luoghi dove sorgevano campi sono state realizzate costruzioni improntate a un senso memoriale figlio del proprio tempo, con lo scopo di generare un certo tipo di monito. In questo quadro il 1989 è uno spartiacque di grande cambiamento.
Torniamo alla Germania. Qui, il post-89 ha generato una trasformazione e una stratificazione in cui sono stati aggiunti livelli di interpretazione senza cancellare quanto esisteva, come invece è avvenuto ad Auschwitz, dove progressivamente i memoriali nazionali sono stati sostituiti e aggiornati. Questo vuol dire instaurare un rapporto diverso con la propria storia e con diverse interpretazioni di essa. Per visitare Ravensbrück (uno dei tre campi, assieme a Sachsenhausen e a Buchenwald, che dopo il 1945 si sono trovati nella parte est del paese), ad esempio, ormai sono necessari diversi giorni perché ci sono un numero incredibile di mostre da vedere, che si aggiungono al luogo e che costituiscono quegli strati di cui parlavo prima, costruiti nel tempo, dagli anni Cinquanta a oggi. In questo modo il museo-memoriale si trasforma in un meta-museo-memoriale, in cui si riflette su quello che si era fatto durante la DDR e ci si interroga sul perché si era impostata una certa narrazione dello stesso luogo o perché ci si è concentrati su un aspetto al posto di un altro. A Sachsenhausen, oggi, si può conoscere anche il suo uso come Speziallager sovietico, ovvero come campo per detenzione per ex nazisti e collaborazionisti, nel dopoguerra: un aspetto che, durante il periodo della Germania dell’est, non si è mai raccontato. Così facendo, si aggiunge un nuovo memoriale al precedente e i luoghi diventano dei palinsesti, delle stratificazioni. Non si cancella nulla, ma si aggiunge e si interpreta quello che sta sotto o prima.
C’è poi anche un altro tipo di luogo, ovvero i luoghi dove apparentemente non c’è nulla. È il caso, ad esempio della cosiddetta Shoah par balles, la Shoah effettuata tramite fucilazioni (balles nel senso di proiettili). Si usa la definizione francese perché i primi a farne una mappatura sono stati alcuni ricercatori francesi. Stiamo parlando di tutto il territorio dell’Est Europa, dove le Einsatzgruppen fecero massacri direttamente nei boschi, uccidendo comunità di ebrei diffuse in quell’area. Come per i campi dell’Aktion Reinhardt, dopo queste azioni vengono cancellate le tracce e nel tempo sui luoghi si stratificano le fasi successive di un procedere della vita oppure, e in questi casi avviene molto spesso, si determina l’abbandono del luogo e l’affievolirsi del ricordo. Fino a che, verso la fine degli anni Novanta, Patrick Desbois, un sacerdote (il cui nonno era stato deportato nello stalag 325 a Rava-Ruska, in Ucraina) comincia a intraprendere questa ricerca sul campo, mappando i luoghi e raccogliendo interviste e fotografie. Nel 2004 ha creato l’associazione Yachad-in-Unum che porta avanti il progetto, di cui è possibile vedere parte dei risultati sul sito https://www.yahadmap.org/.
Per definire questi luoghi Martin Pollack, uno scrittore austriaco figlio di un SS che guidava un Einsatzkommando, qualche anno fa ha pubblicato un libro, che ha avuto grande successo, in cui egli definisce questi luoghi Paesaggi contaminati (Rovereto, Keller, 2016). E quindi si è arrivati a questo tema della contaminazione, che è entrato, sta entrando nella riflessione odierna. Come scrive Alberto Cavaglion in Decontaminare le memorie (Torino, Add, 2021), la contaminazione è qualcosa di complesso, può tenere lontani e ciò può determinare una forma di abbandono, ma allo stesso tempo può essere una forma di rispetto per cercare di riapprocciare questo passato con la giusta distanza, e in un certo senso cominciare a guardare meglio, mettendo a fuoco bene tutti gli elementi.
Quel che differenzia il luogo dal museo, è che il luogo tante volte è più confuso, ma permette al contempo di avvicinarsi agli eventi da un’altra prospettiva, includendo anche il paesaggio che c’è intorno, e quindi il contesto. Ad esempio, all’Haus der Wannsee Konferenz hanno recentemente deciso di riallestire il percorso museale permettendo di vedere fuori dalle finestre, rimuovendo i velari che avevano steso e che portavano a far sì che il museo fosse chiuso in se stesso. Adesso invece quel museo si relaziona con il proprio luogo: sapendo quali riunioni si sono tenute in quella villa, quali decisioni vi sono state prese, la vista sul paesaggio placido che la circonda stride e solleva ancora più domande.
Il luogo quindi, a differenza del museo, non dovrebbe offrire al visitatore un’interpretazione chiusa ma dovrebbe relazionarsi con quanto lo circonda e mostrare tutti gli elementi che lo compongono, guidando il visitatore a leggere che cosa c’è.
Ne deriva infine che la definizione di luogo della memoria è in sé molto sfuggente e dipende sempre verso quale polarità si sposta l’interpretazione, se in senso “noriano” o in senso commemorativo o ancora cercando di mostrare e vedere tutto quello che sul luogo si deposita.
In questi ultimi anni sono state sollevate diverse perplessità sull’efficacia delle politiche memoriali, sull’equazione semplicistica del “mai più”. Faccio riferimento a Valentina Pisanty e Alberto Cavaglion.
Negli ultimi vent’anni la Shoah è stata oggetto di intense e capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. Negli ultimi vent’anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentate a dismisura, proprio nei paesi in cui le politiche e la memoria sono stati implementate con maggior vigore.[1]
Se dipendesse da me, fermerei i treni della memoria fino a data da stabilirsi, sospenderei bandi di concorso per nuovi musei, indirizzerei le poche risorse disponibili e i bonus e i progetti europei, i fondi di incentivazione a finanziare le biblioteche scolastiche convogliando lì i docenti potenziatori. Nulla – [si è?] in grado di potenziare in assenza di buoni libri e di spazi accoglienti negli istituti scolastici e dove i ragazzi potranno leggerli.[2]
La domanda è quindi soprattutto posta a favore degli insegnanti che vogliono portare studenti e studentesse in un luogo di memoria; insomma, che accortezze devono avere? Quali sono gli aspetti più rilevanti di un approccio critico e attento ai luoghi di memoria?
Mi viene da citare Elena Monicelli, coordinatrice della Scuola di pace di Monte Sole, che all’affermazione «bisogna ricordare affinché non accada mai più» risponde che bisogna piuttosto chiedersi: «perché ancora?».[3] Non a caso alla Scuola di pace di Monte Sole si svolge un lavoro focalizzato sui meccanismi della violenza. Molto recentemente, nel quadro della collaborazione con il progetto dell’Università di Colonia “NS-Täter in Italien – Le stragi nell’Italia occupata 1943-45 nella memoria dei loro autori”,[4] insieme alla Scuola di pace e alla compagnia teatrale Archiviozeta abbiamo iniziato a progettare e sperimentare percorsi in un luogo “difficile” come il Cimitero militare germanico del passo della Futa. È inevitabile che per portare delle persone, anche dei ragazzi, in questo luogo è necessario trovare un paradigma diverso: è il “cimitero degli altri”, il “cimitero del nemico”, che si inserisce nel territorio dove c’è stata la maggiore strage di civili della Seconda guerra mondiale in Italia. Monte Sole e la Futa sono infatti molto vicini, sono due luoghi che si collocano nello stesso territorio. Il Cimitero della Futa è un luogo disorientante: non è in realtà un luogo della memoria, quanto un luogo dell’oblio; anche per i tedeschi è un “luogo difficile”. Ma la sua architettura – una spirale di pietra che avvolge la sommità del passo – permette un approccio differente. Negli anni del nazismo, i cimiteri per i soldati tedeschi erano stati disegnati in forma di fortezza: il modello era quello di una Totenburg, una “fortezza dei morti”. Negli anni Cinquanta, per il passo della Futa, l’architetto Dieter Oesterlen progetta una Totenberg, una “montagna dei morti”. Quando si percorre il luogo e si leggono le date di nascita sulle lapidi, ci si rende conto dell’età di questi soldati: perché è un cimitero di giovani, di soldati di truppa e dei loro diretti comandanti. E sono tantissimi, più di 30.000: nello stesso territorio appenninico, abbiamo il luogo della più grave strage di civili avvenuta sul fronte sudoccidentale e il principale cimitero tedesco di guerra in Italia.
Nel corso dell’estate 2023, in occasione di alcuni seminari internazionali con studenti, abbiamo iniziato a portare i partecipanti in entrambi i luoghi e a stimolare le loro riflessioni. Abbiamo voluto provare a ragionare sul meccanismo della violenza – che è molto più vicino a noi di quello che si pensa – a partire dai luoghi. In tante situazioni è molto più facile identificarsi con le vittime; in questo caso, invece, guardando le età dei caduti, si scopre che il più giovane è morto a 16 anni, alla stessa età degli studenti e delle studentesse. Si può quindi far riflettere sull’adesione al nazismo, sulla cultura della violenza in cui questi giovanissimi soldati sono cresciuti. In Germania è da molto tempo che si fa ricerca sui perpetratori proprio perché i perpetratori non sono percepiti come qualcosa di lontano, di alieno, di demoniaco, ma sono le persone vicine, parenti, che in molti casi avevano anche una buona formazione scolastica, come gli ufficiali. Guardando a queste persone, è necessario porsi alcune domande: perché hanno fatto una scelta di adesione? Perché si è creato un altro sistema morale che ha reso accettabile agire un certo tipo di violenza? Sono domande difficili che richiedono risposte complesse, e tuttavia che evocano meccanismi di violenza che non possiamo considerare lontani da noi stessi.
Non ho delle risposte certe per i docenti, però Io credo che la “contaminazione” vada in qualche modo affrontata in modo molto delicato, ma anche che questa contaminazione ci dica tanto di noi. È chiaro che quando si comincia a ragionare sul nazismo ci si addentra in un sistema ideologico che diventa anche un sistema valoriale: questo aspetto è molto difficile da maneggiare, da affrontare, però un tentativo di comprensione è necessario. Non per giustificare, ma per capire cosa può scattare in noi, e quando ci si deve fermare a pensare e a osservarsi, per trovare un’altra via di soluzione del conflitto. E questo è utile, direi fondamentale, dal punto di vista educativo.
Bibliografia
- I luoghi della memoria, a cura di Mario Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1996-1998. 3 voll. – Simboli e miti dell’Italia unita; – Personaggi e date dell’Italia unita; – Strutture ed eventi dell’Italia unita
- Les Lieux de Mémoire, sous la direction de Pierre Nora, Paris, Gallimard, 1984-1997 – La République; – La Nation; – Les France
- Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, a cura di Tristano Matta, Milano, Electa 1996
- A. Cavaglion, Decontaminare le memorie: luoghi, libri, sogni, Torino, Add, 2021
- C. Cornelissen, I luoghi del nazismo in Germania. Da luoghi della persecuzione a luoghi di memoria e apprendimento, in I luoghi del fascismo : memoria, politica, rimozione, a cura di Giulia Albanese e Lucia Ceci, Roma, Viella, 2022, pp. 271-291
- E. Pirazzoli, L’invenzione dei luoghi della memoria. Topografia e immaginario della Shoah, in Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, a cura di F. R. Recchia Luciani e C. Vercelli, Genova, Il melangolo, 2016, pp. 128-142.
- M. Pollack, Paesaggi contaminati. Per una nuova mappa della memoria in Europa, Rovereto, Keller, 2016 (ed. orig. 2014)
- K. Schlögel, Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica, Milano, Bruno Mondadori, 2009 (ed. orig. 2003)
Note:
[1] V. Pisanty, Che cosa è andato storto? Le politiche della memoria nell’epoca del post-testimone, in “Novecento.org, n. 13”, febbraio 2020. DOI: 10.12977/nov309
[2] A. Cavaglion, Paesaggi contaminati da decontaminare. Qualche riflessione sui luoghi della memoria, in “Novecento.org, n. 13”, febbraio 2020. DOI: 10.12977/nov310
[3] https://lafalla.cassero.it/il-lavoro-di-memoria-perche-ancora/