Il razzismo di Stato nel Reich tedesco e nel Regno d’Italia: gli apporti delle ideologie del colonialismo europeo e delle scienze biologiche
Abstract
Il razzismo di stato nel Reich tedesco e nell’Italia fascista, giustificato dal falso mito della purezza della razza, si è avvalso del supporto scientifico e della complicità delle scienze biologiche, mediche, psichiatriche che in vari paesi europei e negli Stati Uniti hanno protratto la loro capacità di condizionamento ben oltre il termine del secondo conflitto mondiale. Non solo Ebrei, Rom, Sinti, omosessuali, Testimoni di Geova furono accomunati dall’atroce destino dello sterminio pianificato con logica industriale, ma anche portatori di handicap, etilisti cronici, malati mentali e individui affetti da patologie trasmissibili furono i destinatari di raccapriccianti programmi eugenetici che prevedevano la soppressione diretta del paziente o, in alternativa, l’inibizione della sua capacità riproduttiva. Le riflessioni proposte da Luigi Benevelli non si limitano infatti alla Shoah – motivo per il quale hanno formato la prolusione del Consiglio Comunale e del Consiglio Provinciale di Mantova riuniti in seduta congiunta per la celebrazione della Giornata della Memoria 2015 – ma coinvolgono il tema più ampio del colonialismo militare, economico, culturale e delle scelte eugenetiche che molti civilissimi stati europei e americani hanno applicato fino agli anni Sessanta del Novecento.
Il dibattito storico-scientifico è costantemente aggiornato sul gruppo di discussione Pol.it http://www.psychiatryonline.it/search/node/benevelli.
Premessa
La ricerca sulla genetica delle popolazioni ha dimostrato che la famiglia Hominidae, alla quale appartiene Homo sapiens, comprende l’orangutan e le scimmie antropomorfe africane (gorilla, scimpanzé) e che il DNA umano ha molte affinità con quello dei gorilla e degli scimpanzé (98% delle sequenze nucleotidiche)[1]. Secondo i razzisti, invece, esisterebbe una gerarchia di razze umane e ogni individuo apparterrebbe a una razza diversa dal punto di vista biologico; tale appartenenza lo vincolerebbe alla sua biologia condizionandone comportamenti e destini. Questo legittimerebbe le ragioni per il mantenimento dell’esercizio del potere di gruppi «superiori» su altri «inferiori» tollerando la schiavitù, giustificando il colonialismo e il neocolonialismo e imponendo politiche di disuguaglianza, di esclusione, di dominazione sociale, economica e culturale.
Il razzismo praticato dallo Stato, per legge, ha un significato molto diverso da quello praticato da singoli individui o da gruppi: un pogrom, l’assalto a un campo nomadi o l’incendio di una sinagoga, sono eventi diversi dalla Shoah. In epoca contemporanea, le teorie razziste ebbero il massimo sviluppo nel secolo scorso, fra le due guerre, quando la violenza raggiunse l’apice con l’organizzazione dello sterminio delle categorie delle persone discriminate, legittimata dalle leggi di alcuni stati europei e amministrata con l’impegno di burocrazie, tribunali, apparati di polizia, istituzioni scolastiche, categorie professionali e con il concorso della popolazione.
Al riguardo, propongo qui il caso del Regno d’Italia e del Terzo Reich, nei quali allo Stato fu affidato il compito di difendere l’identità, l’integrità e la salute genetiche dei propri popoli discriminando i non-ariani. I precedenti nel pensiero europeo erano del resto di lunga data, e su linee simili si mossero molti altri paesi, oltre a vari stati Usa.
Colonialismo e pregiudizio contro le popolazioni di colore
Simone Weil nel 1943 scriveva:
la natura dell’hitlerismo consiste proprio nell’applicazione da parte della Germania al continente europeo, e più in generale ai paesi di razza bianca, dei metodi della conquista e della dominazione coloniali. Questo male che la Germania ha tentato invano da infliggerci, noi l’abbiamo inflitto ad altri.[2]
La conquista del mondo intero da parte degli stati europei fu accompagnata dalla elaborazione di una parte importante del pensiero europeo contrassegnato dalla prepotenza: sensatezza e ragionevolezza furono negate ai primitivi, ai neri e alle donne oltre che agli animali. Ne fu esempio la disputa di Valladolid a metà del XVI secolo, in cui i teologi convocati da Carlo V discussero per dirimere la controversia circa la presenza o meno dell’anima negli indios [3]. Ne fu esempio il botanico Carl Linnaeus (1707-1778) che raggruppò le specie naturali in base alle caratteristiche morfologiche, ponendo il genere Homo in cima al regno animale e suddividendolo in due specie: l’uomo «diurno», o homo sapiens, e l’uomo «notturno» o homo troglodytes. A sua volta l’ Homo sapiens era suddiviso in 6 varietà, in ordine decrescente per valore[4].
Nei secoli XIX e XX furono le scienze mediche, in specie la psichiatria, a impegnarsi a studiare le correlazioni fra patologie psichiatriche, appartenenza etnica, costituzione fisica.
In Italia i predicatori e i precursori del razzismo del ‘900 furono molti, illustri e autorevoli, come i medici Cesare Lombroso, Marco Levi Bianchini, Giovanni Marro, lo zoologo Edoardo Zavattari, il demografo Corrado Gini, il biologo Mario Canella, oltre, ovviamente, ai sottoscrittori del Manifesto della razza, come Nicola Pende, ai redattori e ai collaboratori delle riviste sorte dopo l’adozione delle leggi razziali come «La difesa della razza», «Razza e civiltà».
Cesare Lombroso, maestro del pensiero medico e psichiatrico del secondo Ottocento, nelle letture sulle «razze umane»[5] tenute nel 1865 a Pavia affermò:
Se noi vogliamo proprio attenerci solo alle grandi differenze anatomiche, dobbiamo almeno distinguere tre grandi gruppi delle razze umane: il bianco, il nero, il boscimano. Del bianco sarà inutile parlare , come che i suoi modelli, più o meno eleganti, abbiano modo di studiarlo ad ogni passo nelle nostre città. […]; (quanto ai negri e alle negre ) ambedue vanno, sotto quella nera cute, fin troppo ricchi di ghiandole sudorifere, le quali emanano quell’odore particolare che troppo san distinguere i cani negrieri.
Ancora:
Lo sviluppo del bambino africano è tutto affatto differente dal nostro: […] le suture del capo, che da noi si saldano solo in tarda età, gli si ossificano prestamente, come nell’idiota e nelle scimmie […]. Lo stesso dicasi dello sviluppo morale: che il negro appunto come la scimmia, si mostra intelligentissimo fino alla pubertà; ma a quell’epoca in cui il nostro intelletto stende le ali ai voli più gagliardi, egli s’arresta si ravvoltola in una scimmiesca e stupida mobilità, quasi che il suo povero cervello stesse a disagio in quel cranio allungato e pesante e si perdesse in quel difforme inviluppo di ghiandole e di ossa.
Gli Ottentotti erano posti al livello più basso delle gerarchie umane.
L’ottentotto […] è, si può dire, l’ornitorinco dell’umanità perché riunisce insieme le forme più disparate delle razze negre e gialle ad alcune sue proprie, le quali egli ha comuni con pochi animali che brulicano vicino a lui.
Le considerazioni di Lombroso le ritroviamo rimasticate e ripetute da generazioni di antropologi, etnografi e uomini politici italiani che hanno avuto i loro momenti di gloria negli anni dell’Impero mussoliniano e le ritroviamo ancora oggi (fra i più recenti è il signor Carlo Tavecchio, presidente della FIGC[6] ).
Molti altri studi italiani di tema coloniale pubblicati in età liberale sostengono tesi razziste:
Marco Levi Bianchini (1875-1961) medico psichiatra, ebreo, “fascistissimo” della prima ora, traduttore di Freud, tra i fondatori nel 1925 della Società italiana di psicoanalisi [7], nel 1906 scriveva sulla sua esperienza di ufficiale medico in Africa Centrale:
Ogni bianco, nel Centro Africa è, di fronte ai neri, un gran capo; essere immensamente superiore, arbitro delle forze umane e divine, cui sono comuni i miracoli, la scienza di guarire ogni male, la potenza di uccidere a grande distanza invisibilmente, di far parlare le cose inanimate […].Il nero non ragiona se non con la forza.
Giorgio Ruata, medico psichiatra, pubblicò nel 1907 un resoconto sulla sua esperienza di lavoro all’Ospicio Nacional de Alienados di Rio de Janeiro. Vi affermava che il cervello di un negro adulto è uguale a quello di un bambino europeo, quindi poco raziocinio e sentimento etico, forte sensualità, passionalità, volubilità, atto a imitare più che a creare. Ma Ruata non si limitò alla razza negra, perché, aggiungeva, che anche in Italia i nostri rozzi contadini, presentano una ridotta e monotona organizzazione dei loro deliri, consentanea appunto, con la inferiorità della loro razza. Quanto alle dotazioni anatomiche e al patrimonio mentale di genere, non vi era differenza fra il peso del cervello delle donne bianche e di quelle nere[8].
L’antropologo fiorentino Lidio Cipriani (1892-1962), tra gli studiosi italiani che più si impegnarono per sostenere la “innata inferiorità mentale” degli africani, scriveva nel 1932:
Generalmente il Negro impressiona per il suo contegno da fanciullone incorreggibile, per la sua disposizione ad una allegria infantile e ai passatempi ingenui a cui nessun Bianco normale si darebbe. […]Dominati dagli impulsi naturali e dalla ricerca dell’ozio e dei piaceri individuali, i «negri» sono privi di qualsiasi capacità logico-critica e non concepiscono l’idea del lavoro: piuttosto che costruire una strada o scavare un pozzo, il «negro» preferisce abbandonarsi ogni giorno[…] ai suoi piaceri prediletti, quali il cicaleggiare per ore e ore su argomenti insulsi ripetuti all’infinito, il saltare, il far rumore e talora il litigare o il sollazzarsi con le sue donne[9].
Renato Biasutti (1878- 1965), il più importante geografo italiano della prima metà del XX secolo, intervenendo nell’ottobre 1938 al Convegno di scienze morali e storiche della Reale Accademia d’Italia dedicato all’Africa[10], affermava:
[…]I biotipi negri, nonostante la loro innegabile potenza animale, rappresentano elementi psichicamente e mentalmente inferiori che in una società moderna possono avere soltanto un posto subordinato.
L’ elenco delle citazioni potrebbe allungarsi ancora molto.
Chi non è buono per il re non è buono per la regina
Il debole genera il debole: norme e pratiche eugenetiche in Occidente
Nel XX secolo la castrazione dei pazienti a scopo eugenetico, per impedire la procreazione di creature «tarate», fu una pratica largamente diffusa, tanto che al processo di Norinberga contro i medici nazisti, la sterilizzazione dei pazienti ritenuti portatori di malattie trasmissibili per via ereditaria non fu inclusa fra i crimini contro l’umanità: si sarebbero dovuti condannare infatti gli stessi accusatori e gli amministratori degli stati nordamericani alla cui legislazione si ispirarono i nazisti a partire dal 1933[11].
Gli USA avevano il problema di come gestire la presenza dei neri discendenti degli schiavi e soprattutto le migrazioni dall’Europa orientale e meridionale. Nel 1907 lo Stato dell’Indiana attivò la prima legislazione statale per la sterilizzazione dei malati mentali, dei minorati, dei criminali e dei deviati sessuali; tra il 1907 al 1935, legislazioni analoghe furono adottate da 27 Stati dell’Unione.
Negli anni ’30 in Europa, oltre alla Germania, adottarono leggi analoghe il Cantone di Vaud, la Danimarca, la Norvegia, la Finlandia, la Svezia, dove le sterilizzazioni sia volontarie che obbligatorie sono durate fino al 1960 e hanno riguardato 62.888 persone, per il 95% donne.
Perché le politiche eugenetiche fra le due guerre?
Alla fine della Grande Guerra, gli Stati europei si trovarono ad affrontare una situazione drammatica e inedita: mancavano all’appello intere generazioni di giovani maschi adulti e sani morti nelle trincee. I loro nomi sono ancora incisi sui monumenti ai caduti che svettano nelle piazze di tutti i villaggi d’Europa. Era necessario gestire questa angoscia, questo lutto che accomunava la maggior parte delle famiglie europee. Erano morti i migliori, mentre i maschi scartati alla visita di leva, quindi ritenuti geneticamente meno dotati, erano scampati alla carneficina ed erano lì, spesso inadeguati al lavoro e a costituire un peso economico per la società.
Leonardo Bianchi, clinico universitario e neuropsichiatra, parlamentare e uomo politico napoletano, non fascista, relatore alla Camera dei Deputati nel 1904 della legge manicomiale, scriveva nel 1925 sul suo libro Eugenica Igiene Mentale e profilassi delle malattie nervose e mentali, le ragioni a sostegno di provvedimenti eugenici:
«Dovere dunque, per i biologi ed i sociologi, […] assicurare una vita più forte e lieta alle generazioni future. […] Più fortunato è il paese il quale produce minor numero di deboli, di incapaci e di perturbatori della vita ordinata e laboriosa della nazione. […]
La guerra […] ha spazzato dalla faccia del nostro paese più che 600 mila giovani forti, ed altrettanti ne ha ridotti in salute e attitudine lavorativa […]. Noveriamo […] nella nostra struttura sociale 28 mila ciechi, 27 mila sordomuti, 500 mila cronici, 500.000 indigenti; […] (dei folli) ne erano ricoverati intorno a 15 mila nel 1875; la cifra dei ricoverati oggi è più che triplicata. A questi bisogna aggiungere i folli non ricoverati, un esercito di imbecilli, gli epilettici che valuterei a 100 mila, i deboli di spirito e gli uomini frivoli ed insignificanti,… i morfinisti, i cocainisti, i suicidi. […]
Non mi permetto di tradurre in cifra le spese che la umanità che lavora e che ascende sulla linea della evoluzione sostiene per l’altra umanità che discende sulla linea della dissoluzione o degenerazione. […]
Prima di ogni altra cosa bisogna nascere bene. Nascere bene dipende in gran parte dal ben generare […]. La degenerazione può essere ridotta a proporzioni più tollerabili; gli uomini deboli e malati possono diminuire e gravare meno sul bilancio dei lavoratori»[12].
Dieci anni dopo, il 1° settembre 1935, il professor Ploetz, nella Conferenza internazionale di eugenetica di Berlino, confermava l’importanza della questione e proponeva il rimedio: «Dobbiamo sforzarci di far fronte alla selezione negativa prodotta dalla guerra intervenendo direttamente sul piano dell’ eugenetica, ovverosia aumentando la percentuale delle sterilizzazioni».
In Germania era in applicazione da due anni la Legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie adottata da Hitler a pochi mesi dalla sua elezione a cancelliere. Era stata avviata una campagna per denunciare l’insostenibilità dei costi del mantenimento delle persone gravemente malate ed erano stati istituiti i Tribunali di Salute Genetica che autorizzavano la sterilizzazione coatta delle persone portatrici di malattie ritenute ereditarie. Fra queste rientravano gli schizofrenici, gli affetti da psicosi maniaco depressive, ma anche gli epilettici, e poi i ciechi, i sordi, le persone con deformità fisiche, gli alcolisti recidivi. È stato calcolato che fra il 1934 e il 1945 siano state sottoposte a sterilizzazione coatta circa 400.000 persone.
Insieme all’eugenetica negativa, impegnata nella sterilizzazione di massa, in Germania si sviluppò una eugenetica positiva, impegnata nello studio degli ormoni femminili, delle caratteristiche dei gemelli e delle gravidanze multiple e nel programma Lebensborn (fonte di vita) per l’assistenza alle ragazze madri con caratteristiche razziali e genetiche positive, incinte di uomini dalle stesse caratteristiche.
Nazismo e pratiche eugenetiche
Fu Wilhelm Frick , il Ministro degli Interni, a predisporre con grande efficienza la macchina e le procedure che resero possibile le pratiche eugenetiche del nazismo, istituendo una Direzione Sanitaria del Reich presso il suo ministero. Fu approntato materiale didattico e di propaganda per le scuole, gli uffici del partito e gli uffici pubblici.
Frick istituì l’Accademia di Stato per la Medicina, a Charlottenburg (Berlino), dove si svolse la formazione dei nuovi ufficiali sanitari, dei medici scolastici e in generale di tutto il personale medico statale. L’eugenetica divenne una disciplina medica fondamentale che trasmetteva la convinzione ottimistica che la sterilizzazione avrebbe potuto addirittura eliminare le malattie mentali.
Seguirono nel settembre 1935 le leggi razziali di Norimberga Per la protezione del sangue e dell’onore tedesco che proibirono il matrimonio e qualsiasi contatto sessuale fra ebrei e non ebrei; esse definirono anche i criteri per stabilire chi, discendente da matrimoni misti, dovesse essere considerato ebreo e in quale percentuale, e privarono dei diritti politici e della possibilità di ricoprire incarichi pubblici 566.000 ebrei tedeschi che divennero da quel momento la razza nemica. La legge della salute nel matrimonio (Ehegesundheitsgesetz), promulgata un mese dopo, proibiva l’unione quando uno dei futuri coniugi soffriva di malattie contemplate nella legge per la sterilizzazione. Da quel momento tutte le coppie dovettero presentare un certificato di idoneità per ottenere la licenza necessaria al matrimonio. Lo sforzo della Stato nel coinvolgere in modo capillare l’intera popolazione nelle politiche eugenetiche è evidente.
Fascismo e difesa della razza
Anche nell’Italia fascista la discussione e le scelte sulle misure da prendere a tutela della sanità della stirpe si svolse alla luce del sole, in modo pubblico. Da noi il «miglioramento della razza» prese la strada dell’eugenetica cosiddetta positiva, non qualitativa ma quantitativa, pronatalista, popolazionista con l’esaltazione del numero come potenza, della virilità prolifica e della maternità feconda, del ruralismo: l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, istituita nel 1925 ne fu la struttura portante.
La medicina si prestò e fu usata a sostegno di una demografia espansiva a partire dalla tutela della salute e dall’educazione delle giovani generazioni: all’ONMI seguirà l’Opera Nazionale Balilla (1926), che confluirà nel 1937 nella Gioventù Italiana del Littorio. Furono varate norme quali la tassa sul celibato, le esenzioni fiscali e gli assegni per le famiglie numerose, le misure di polizia per combattere lo «sterile urbanesimo», le misure restrittive dell’emigrazione, la messa fuori legge e la repressione dell’aborto e della contraccezione.
Il contributo della medicina italiana alle tesi razziste si ispirò al costituzionalismo fra i cui padri va annoverato Achille De Giovanni (1838-1916), nativo di Sabbioneta, gloria mantovana, fautore dell’importanza della predisposizione individuale, del come un individuo è fatto, e sostenitore dell’importanza della componente ereditaria nella causa e nella clinica delle malattie. L’impostazione materialistica e lamarckiana (trasmissione per via ereditaria dei caratteri acquisiti) di questa scuola fu alla base del biologismo che pervadeva le concezioni di Nicola Pende (1880-1970), uno dei più convinti firmatari del Manifesto della Razza.
La svolta razzista per l’Italia coincise con l’aggressione e la conquista dell’Abissinia nel 1935-36 e la proclamazione dell’Impero. La preoccupazione dominante era che la vicinanza e il contatto degli italiani con individui appartenenti a «razze inferiori» avrebbe esposto la razza italiana alla corruzione del proprio patrimonio genetico e culturale: di qui l’ossessione della lotta al meticciato, l’introduzione del reato di «lesione del prestigio di razza», la discriminazione degli ebrei.
Nella seconda metà degli anni trenta si susseguirono numerosi provvedimenti legislativi tesi a combattere i pericoli di inquinamento derivanti dalla promiscuità con soggetti segnati dalla inferiorità biologica, dunque innata e trasmissibile per via ereditaria:
– Il Regio decreto-legge 19 aprile 1937 n. 880 che introduceva i reati di concubinato e interveniva contro il «triste fenomeno del meticciato e dell’indigenismo»
– il Regio decreto-legge 5 settembre 1938 n. 1390, contenente provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista
– il Regio decreto-legge 17 novembre 1938 n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana, che recepiva il Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938 che al punto 6 dichiarava «Esiste ormai una pura razza italiana» e al punto 7 «E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti»
– il Regio decreto-legge 15 novembre 1938 n. 1779 relativo all’integrazione e al coordinamento in un unico testo delle norme emanate per la difesa della razza nella scuola italiana
– il Regio decreto-legge 5 settembre 1938 n. 1539 concernente l’istituzione presso il Ministero dell’Interno del Consiglio superiore per la demografia e la razza
– il Regio decreto-legge 23 settembre 1938 n. 1630 per l’istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica
– la Legge n. 1004 del 29 giugno 1939, per la «difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa Italiana». In Etiopia gli italiani progettarono di instaurare un regime di separazione razziale, prototipo dell’apartheid.
I decreti-legge che ne seguirono ispirarono una grande quantità di circolari e disposizioni amministrative per la loro piena applicazione.
L’eutanasia come prosecuzione delle eugenetiche negative
Dopo l’entrata in guerra e per tutta la durata del conflitto dal 1939 al 1945, in Germania fu operato un salto di qualità nelle politiche eugenetiche. Il governo organizzò in tutti i territori amministrati una campagna per l’uccisione dei pazienti psichiatrici e dei disabili psichici ritenuti incurabili. Aktion T4, questo era il nome dato alla campagna, fu avviata da un ordine segreto, con una lettera del führer del 1 settembre 1939, il giorno di inizio della guerra.
Per la Cancelleria del Reich, per le SS e per i medici che collaborarono, eutanasia significava il trattamento adottato per la soppressione di vite definite indegne di essere vissute e giudicate troppo onerose per lo Stato. 72.083 pazienti vi trovarono la morte. Le tecniche di uccisione sperimentate e messe a punto nei manicomi speciali, appositamente attrezzati, furono adottate nei programmi della soluzione finale.
Hitler, a seguito delle proteste provenienti in particolare dagli ambienti religiosi, pose ufficialmente fine ad Aktion T4 il 24 agosto 1941, ma l’uccisione dei pazienti psichiatrici e dei disabili proseguì fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel processo di Norimberga contro i medici nazisti (1946), fu documentato che le persone uccise nel corso di questo programma furono 275.000.
Nel marzo 1939 si tenne a Vienna il 2° incontro dei giuristi italiani e tedeschi sul tema Razza e Diritto. Nella relazione italiana, il professor Costamagna dell’Università di Roma affermava:
«È chiaro, ad esempio, che gli Stati Uniti di America hanno vive preoccupazioni di “invasione gialla”, mentre tali preoccupazioni non esistono né per l’Italia né per la Germania. Viceversa l’Italia ha necessità di provvidenze particolari contro l’indigenismo africano».
Per il relatore tedesco invece, il dottor Ruttke, direttore Ufficio Razza del Reich, le uniche incompatibilità razziali erano rappresentate dagli zingari e dai meticci della Renania, nati dai soldati di colore dell’esercito francese che erano stati di guarnigione in quelle terre. Il pericolo ebraico era ritenuto assai più grave anche dal punto di vista culturale e sociale.
La difesa dai popoli di colore o dai nomadi era facilitato dall’evidenza delle differenze del colore della pelle o dall’irrequietezza abitativa. Più difficile era difendersi dagli ebrei, non facilmente riconoscibili a prima vista da quando erano usciti dai ghetti, e per questo più subdoli e pericolosi.
Continuava poi a essere radicata l’opinione che, mentre le razze inferiori non cospiravano contro l’umanità, per gli ebrei questo atteggiamento fosse una costante. Non era sufficiente discriminarli, bisognava sterminarli, così come era avvenuto e avveniva per gli oppositori politici o gli omosessuali.
Il disegno del Nuovo ordine europeo che doveva portare all’occupazione dei territori orientali dopo l’annientamento dei popoli slavi e alla trasformazione dell’intero continente in un dominio organizzato su criteri razziali si avvalse di un antisemitismo con forti radici ottocentesche che aveva familiarità con la pratica della discriminazione e con i razzismi coloniali che avevano giustificato lo sterminio delle «razze inferiori» fino al genocidio (Tasmania, Herero, repressione della rivolta senussita in Libia). I nemici, de-umanizzati, diventavano untermenschen, inferiori. Molti di loro meritavano l’eliminazione perché pericolosi e corruttori della purezza degli ariani.
E quale rappresentazione più efficace degli untermenschen delle immagini degli internati nei manicomi come dal filmato Eugenetica e malattia mentale. L’antropologia degli orrori[13] ?
Per concludere
Il filmato ci aiuta a capire perché la riflessione bioetica, oggi tanto appassionante, abbia cominciato a dispiegarsi solo dopo la celebrazione dei processi di Norimberga e l’accertamento dei crimini perpetrati nei campi di sterminio.
Concludo ritornando agli ottentotti che gli antropologi europei, fra i quali Lombroso, collocavano in posizione infima nella gerarchia delle razze umane. Una loro donna, Saartjie Baartman (1789-1815) fu portata in Europa ed esibita come fenomeno da baraccone, visitata da eminenti naturalisti francesi. Il suo scheletro, i suoi genitali e il suo cervello rimasero in mostra al Musée de l’Homme di Parigi fino al 1974, quando furono rimossi e conservati in un luogo fuori dalla vista del pubblico. Nelson Mandela, dopo la vittoria alle elezioni del Sudafrica nel 1994, chiese alla Francia la restituzione dei suoi resti. Saartjie Baartman è divenuta un’icona del nuovo Sudafrica.
La sua vicenda è stata proposta nel film «Venere nera» del regista Kechiche, presentato al Festival di Venezia del 2010.
Note:
[1] Luigi Luca Cavalli Sforza, Daniela Padoan, Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, Einaudi, Torino, 2013, pp. 10-11; 21-22.
[2] S. Weil, La questione coloniale e il destino del popolo francese, in S. Weil, Sul colonialismo, a cura di Domenico Canciani, Edizioni Medusa, Milano, 2003.
[3] Convocata da Carlo V d’Asburgo in due sessioni tra il 1550 e il 1551, la Disputa di Valladolid si tenne fra personalità esperte di diritto e di teologia con lo scopo di discutere la natura giuridica e spirituale delle popolazioni native dell’America centrale e meridionale e per creare una base teologica e giuridica che legittimasse la conquista del Nuovo Mondo da parte degli spagnoli. La Giunta di Valladolid vide contrapposti il frate domenicano Bartolomé de Las Casas, sostenitore dell’incolumità degli indios, e l’umanista Juan Gines de Sepulveda, difensore del diritto degli spagnoli a sottomettere i nativi. Uguale posizione aveva Tommaso Ortiz, portoghese, che sosteneva che “gli uomini di terra ferma delle Indie mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra gente“.
[4] Homo sapiens europaeus bianco ordinato, ingegnoso, inventivo, retto da leggi; Homo sapiens americanus, rosso, amante della libertà, soddisfatto del proprio destino, irascibile; Homo sapiens asiaticus, giallastro, orgoglioso, avaro, melanconico; Homo sapiens afer, nero, indolente, infido, scarsamente intelligente e incapace di autogoverno; (Homo sapiens ferus o uomo selvaggio, muto, quadrupede, villoso che comprende anche gli enfants sauvages, bambini abbandonati a se stessi e incapaci di parlare e apprendere, molto numerosi nella letteratura settecentesca; Homo sapiens monstruosus o uomo teratologico, portatore di “forme devianti” congenite e deficit cognitivi.
[5] Pubblicate nel 1871 col titolo L’uomo bianco e l’uomo di colore.
[6] Il 25 luglio 2013, parlando del reclutamento di giovani calciatori africani nei club europei così argomentava: Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Optì Pobà (nome di fantasia) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree…
[7] Medico psichiatra, ebreo, fascistissimo della prima ora e insieme traduttore di Freud, ufficiale medico al servizio dell’amministrazione coloniale belga nei primi anni del XX secolo, in Italia lavorò nei manicomi di Ferrara, Nocera Inferiore dove fu direttore fino al 1938 e poi, dopo la caduta del fascismo.
[8] Ruata concludeva le sue considerazioni proponendo il seguente singolare rimedio:
Se noi vogliamo tentare di elevare il negro a più alto livello civile, potremmo farlo in modo sicuro soltanto quando ne rinforzassimo il cervello con opportuni incroci con la razza bianca e col dargli la educazione morale e sana della civiltà moderna.
[9] Citato da Francesco Cassata, «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008, pp. 230-231.
[10] R. Biasutti, Le razze africane e la civiltà, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1939, p. 85 e segg.
[11] Il Tribunale militare n. 1 di Norimberga avviò il processo nell’ottobre 1946. La sentenza fu pronunciata il 20 agosto 1947.
[12] Pp. 3-22, passim.
[13] www.raiscuola.rai.it, Eugenetica e malattia mentale. L’antropologia degli orrori.