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Insegnare la storia a teatro. Dialogo con l’attore, drammaturgo e regista Marco Gobetti

Insegnare la storia a teatro. Dialogo con l’attore, drammaturgo e regista Marco Gobetti

Marzo 2021, Marco Gobetti durante il Teatro di riciclo®.
Foto di Irene Bottino.

Abstract

L’articolo nasce come un dialogo a distanza con l’attore, autore, regista Marco Gobetti intorno ad alcune sue esperienze particolarmente importanti per chiunque si interessi di didattica della storia: le Lezioni recitate e il Teatro di riciclo. Ambedue queste esperienze hanno a che fare con il tentativo di porre in una nuova relazione il teatro e la storia rimettendo in movimento la memoria e dando voce a un teatro civile, capace di prendere posizione nella storia.

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This article began as a long-distance dialogue with the actor, author and director Marco Gobetti around some of his experiences that are particularly important for anyone interested in the teaching of history: the Lezioni recitate and the Teatro di riciclo. Both of these experiences have to do with the attempt to place theatre and history in a new relationship, putting memory back into motion and giving voice to a civil theatre, capable of taking a position in history.

Qualche anno fa alla Casa della Memoria di Milano abbiamo ospitato un tuo spettacolo Gaddus alla grande guerra. Monologo per attore e mimo che è stato presentato in occasione del centenario della Prima guerra mondiale. Lo spettacolo prende spunto dai diari di Carlo Emilio Gadda incentrati sulla sua esperienza nella Prima guerra mondiale, ma il monologo oscilla tra l’evento storico descritto dalle parole di Gadda e i dubbi, le paure e le speranze di un adolescente contemporaneo alle prese con l’esame di maturità. Come dobbiamo leggere il nesso tra il personaggio storico Gadda e il giovane immaginario?

Sia Gadda sia lo studente affrontano più guerre. Gadda ne vive una “vera” sulla propria pelle, passa il tempo in trincea, vede morire i propri commilitoni, viene fatto prigioniero: in una prosa asciutta e perentoria – quasi a volere cacciare la confusione e la disperazione dettate dall’assurdità di ciò che stava vivendo –, una pagina dopo l’altra, insieme al diario della guerra e della prigionia compone il diario del proprio percorso emotivo, che traluce persino dalle pagine più scarne. Lo studente immaginario, come Gadda, combatte su più fronti: anche lui è alle prese con la morte e con i morti, con la paura; e lotta per affermare il diritto di rimanere vivo nonostante tutto. Nonostante il fatto che quelle morti e quei morti (pur geograficamente lontani, o almeno così sembrerebbe all’inizio…) lo riguardano sempre più da vicino; finché si imbatte in una guerra vera, un esame di maturità che va oltre ogni immaginabile difficoltà e lo scaraventa in un altrove rivelatore di una spaventosa verità: anche il suo dolore fa parte della catastrofe che lo circonda. Tanto a due metri da sé, dove svetta il banco vuoto del suo amico Piero che si scopre essere morto sotto un treno, quanto a centinaia di chilometri di distanza, dove bombe lanciate dal suolo italiano facevano strage di civili proprio mentre Piero giocava con lo zaino a fare la corrida al treno in arrivo.  Perché lo studente è immaginario, ma l’anno in cui sostiene l’esame, il 1999, e persino i titoli dei temi proposti nella prova scritta di italiano sono reali… In quello spettacolo lo studente, drammaturgicamente, suggerisce il valore che può avere la memoria nell’affrontare il presente.  Suggerisce la possibilità, per la memoria, di assumere un ruolo attivo e creativo: quel che ha passato Gadda nelle trincee e nei campi di prigionia, ci riguarda. Ci aiuta a guardarci intorno con maggiore consapevolezza.

Nel tuo lavoro di regista, scrittore e attore c’è un’attività molto importante che è di grande interesse per la nostra rivista e per chiunque si occupi di storia e di didattica della storia: le Lezioni recitate. Il sottotitolo di queste lezioni è: Il teatro come dimensione dell’insegnamento. Si tratta di lezioni di circa un’ora basate su un testo scritto da uno storico. Queste lezioni sono state pensate soprattutto per gli studenti delle scuole superiori e dell’università. Le lezioni in repertorio spaziano tra questioni differenti anche se mi sembra di riconoscere alcuni fili conduttori molto chiari: le guerre, la Resistenza, le migrazioni. Anzi forse il titolo di Conflitti, lavoro migrazioni che raccoglie quattro lezioni recitabili esplicita anche i temi privilegiati nelle tue lezioni. Tra queste lezioni ricordo: Armare il confine. Chiudere frontiere per aprirsi al conflitto: retorica e propaganda delle trincee ai tempi di Frontex; Conflict Archeology. Quel che resta della Grande guerra; e poi ci sono molti «ritratti» tra cui quelli di Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Emilio Lussu, Giaime e Luigi Pintor, Camilla Ravera, Umberto Terracini. Anche questi «ritratti» sono stati raccolti e pubblicati da SEB 27 nel volume Lezioni recitabili.  In che modo scegli i temi delle tue lezioni recitabili? Quale è la relazione tra il testo dello storico e la recitazione dell’attore? In altri termini: che cosa succede quando un testo storico viene recitato da un attore?

Anche in questo caso, credo conti il ruolo che può assumere la memoria. Una memoria non museale aiuta a riflettere sul presente, magari con lo scopo di costruire un futuro… Ma questo viene dopo, nel migliore dei casi. A volte l’obiettivo si trova in corsa: valgono le consapevolezze conquistate. Bisogna trovare i mezzi. Parto da un esempio pratico, per rispondere in modo preciso. Ormai più di dieci anni or sono a Torino, mi capitò di ascoltare uno storico che parlava pubblicamente di Leone Ginzburg, ne tracciava il percorso della vita e del pensiero. A sentirlo, mi venne da pensare a precise vicende di cui ero a conoscenza, che erano accadute da poco tempo o che parevano in procinto di accadere (era il 2009)… a mano a mano che quello storico parlava delle scelte, delle difficoltà, di pensieri e azioni di quell’uomo vissuto un secolo prima, affioravano nella mia mente pericoli, discontinuità, opportunità assolutamente riferibili al presente. Lo storico era Leonardo Casalino (Professeur des universités en études italiennes à l’Université Grenoble Alpes), che è autore di tutte le lezioni recitate di ambito storico e che insieme a me e a Gabriela Cavaglià (allora direttrice del Centro Studi Piero Gobetti) ideò il progetto Lezioni recitate. Alla fine di quella conferenza, avvicinai Leonardo e istintivamente gli dissi che mi sarebbe piaciuto recitare il suo intervento nelle scuole; dopo un attimo di smarrimento da parte di entrambi, accettò di parlarne e ne nacque una collaborazione preziosa che dura tuttora  e che ha prodotto – oltre a una decina di Lezioni recitate di ambito storico e all’allargamento recente del progetto ad altre discipline – spettacoli come Carlo Ettore, Maria e la Repubblica – Storia d’Italia dal 1945 a oggi e, appunto, Gaddus alla guerra Grande. Un’azione avventurosa, tesa a indagare e sperimentare nuovi metodi per la trasmissione orale della storia e delle scienze umane. I temi vengono scelti, appunto, in funzione dell’uso attivo che può avere la memoria, a volte proprio in base a suggestioni derivanti da vicende e dinamiche precise e a noi contemporanee; la lezione recitata Enea profugo, scritta da Franco Pezzini, così come Armare il confine di Anna Delfina Arcostanzo che citavi prima, sono emblematiche in questo senso, tanto quanto lo è l’ultima scritta da Casalino: Meridione, lavoro, migrazione, guerre ed esilio: Salvemini e i conflitti del ‘900.  Titoli dai quali – per tornare alle dinamiche progettuali – si evince che alla storia, nel tempo si sono aggiunte letteratura e antropologia. E persino l’archeologia. Con Conflict Archeology. Quel che resta della Grande guerra il criterio di scelta dei temi si allarga: è evidente che, spesso, anche una disciplina che ci sembra distante può riservarci soprese personalissime e soddisfare bisogni ben più complessi di quelli che pensiamo possa tangere.

Ma provo a rispondere alle altre tue domande. Hai perfettamente ragione: la relazione tra il testo dello storico e la recitazione dell’attore, implica proprio il fatto che accada qualcosa al testo dello storico quando viene recitato da un attore. Non è la scoperta dell’acqua calda: gli attori devono fare scelte precise e, nella relazione con il pubblico, devono scatenare meccanismi immaginifici. Quello delle Lezioni recitate è teatro di narrazione, che mescola le immagini di determinate vicende alle immagini di pensieri; pensieri che si possono rappresentare sia tramite l’interpretazione diretta (impersonando il protagonista, l’autore del pensiero) sia tramite sintesi nelle quali il pensiero stesso è oggettivato e mediato dal soggetto narrante. In ognuno di questi casi, perché accada qualcosa al testo deve accadere qualcosa all’attore; e, conseguentemente, al pubblico. In questo proficuo intruglio di accadimenti il testo è “fatto a pezzi”, ma non necessariamente in senso letterale: si carica di tridimensionalità e si fa mediatore dell’incontro fra attori e pubblico. Mi viene in mente la lezione recitata Vittorio Foa: pensare il mondo con curiosità, nella quale Casalino racconta a un certo punto di Foa che, anziano, davanti a centinaia di studenti, disse che gli pareva che le sue parole, il suo raccontare, scivolassero sopra le loro teste, non toccassero la mente; per poi arrivare a concludere che occorre conoscere le cose, sì, ma anche il modo per raccontarle; e, prima ancora, scegliere di raccontarle: trasformare la conoscenza in azione. Nelle Lezioni recitate il teatro è a servizio della trasmissione di una conoscenza e cos’altro fa l’attore o l’attrice, nell’interpretarle, se non evocare il momento in cui ha acquisito quelle conoscenze? Ovvero tenta di ricostruire i meccanismi con cui afferra e organizza il pensiero. Giovanni Moretti, attore oltre che storico e teorico del teatro, mi fece notare che «lì sta l’essenza del teatro: in quella fonte della recitazione. In questo senso il teatro è pedagogico: lo è per sua natura». Non è un caso che Vittorio Foa, ancora citato da Leonardo Casalino sul finire di quella lezione, affermasse, ormai novantatreenne: «invitare la gente a pensare è l’unica cosa che valga la pena di fare».

Credo che sia ancora diffuso il pregiudizio che percepisce la narrazione storica come una descrizione oggettiva che si muove su un piano conoscitivo differente rispetto alla narrazione letteraria o alla recitazione teatrale. In alcuni casi ancora si contrappone da un lato la storia come approssimazione progressiva alla realtà di passato e dall’altro le forme della narrazione letteraria come pura finzione.

Paul Ricœur a questo proposito scriveva che il rapporto tra storia e poesia non può essere liquidato semplicisticamente giustapponendo il puro «realismo» della storia alla pura «finzione» della poesia. Non è possibile affermare che la «finzione è priva di referenza», né che la «storia si riferisce al passato storico così come le descrizioni empiriche si riferiscono al reale presente». Ricœur ha messo in luce che «tutti i sistemi simbolici contribuiscono a configurare la realtà. (…) Finzione è fingere e fingere è fare. Il mondo della finzione (…) non è altro che il mondo del testo, una proiezione del testo come mondo. (…) Se il mondo del testo fosse senza alcun rapporto determinabile con il mondo reale, allora il linguaggio non sarebbe “pericoloso”, nel senso in cui lo diceva Hölderlin, prima ancora di Nietzsche e Walter Benjamin». Credo che nelle tue lezioni recitate come in tuoi altri lavori questa relazione sia stata affrontata e sia centrale.

Assolutamente sì: hai sviscerato perfettamente la questione. Aggiungo che la verità non è mai la prima cosa che appare. C’è bisogno di ricerca accurata; e anche in ambito storico, forse, la verità dovrebbe essere avvertita come un obiettivo mobile e mai esaustivo. La ricerca della verità, così come la trasmissione del risultato, della conoscenza, ha bisogno di meccanismi creativi, nei quali entrano pesantemente in campo gli autori della ricerca stessa. Il teatro può fare molto, in questo senso, perché – facendosi appunto medium per la trasmissione di una conoscenza acquisita – moltiplica gli autori, i manipolatori di quella conoscenza, tramite la condivisione di quella verità con un pubblico in uno stesso spazio. C’è bisogno di una tensione continua, che ha a che fare con la dimensione dell’utopia. Fondamentale, in tutto questo, è la curiosità. Laddove non c’è, occorre inventarla o suscitarla. Gian Renzo Morteo, nella sua Ipotesi sulla nozione di teatro cita a un certo punto Aristotele, che nella Poetica distingueva il poeta dallo storico perché «il primo rappresenta fatti effettivamente accaduti, il secondo fatti quali potrebbero accadere» e concludeva affermando che la poesia esprime l’universale, la storia il particolare. Ma, rilevava Morteo, questo non vuol dire che la poesia non possa affrontare fatti effettivamente accaduti, «in quanto in determinati casi anche questi possono coincidere con l’universale»; e richiamava, a mo’ di esempio, il concetto di “favola” di Brecht…

Mi arrischierei a dire che la Storia, come disciplina, si gioca il futuro proprio – e altrui – tramite l’oralità. Intendo quella pubblica e in presenza, anche fuori dalle tutele dei luoghi deputati; e non certo quella in streaming.

A Torino durante la pandemia hai proposto Il teatro di riciclo, un teatro che torna nelle piazze, nelle strade. Ci racconti questa esperienza? In che modo il teatro (e la scuola) possono ripensarsi dopo la pandemia? Quali lotte dovranno affrontare i lavoratori dello spettacolo?

Teatro di riciclo è l’azione di un attore che vuole evocare una replica precisa o un insieme di repliche trascorse di uno spettacolo cui abbia preso parte o di cui sia stato spettatore: in questo modo, la vicenda e le immagini dello spettacolo rivivono mescolate all’evocazione dei meccanismi teatrali e delle relazioni tra attori, spazi e pubblici incontrati. Il teatro di riciclo fa parte di una serie di azioni su strada e non solo, con le quali negli ultimi due decenni ho tentato di contaminare il sistema teatrale, tentando di recuperare possibilità di condivisione reale degli spazi con il pubblico e, conseguentemente, le possibilità magiche e sociali di un certo modo di fare teatro. Se con progetti quali Strad-rama e Teatro stabile di strada l’intero meccanismo produttivo si trasformava esso stesso in meccanismo spettacolare, con il teatro di riciclo è anche il meccanismo post-produttivo e post-realizzativo a farsi spettacolo: si fanno vivere teatri assenti; “pezzi di teatro” che avevano cessato di esistere, tornano a vivere per mezzo di un travaso di generi, trasformati. Ma ciò che conta è il pubblico: contano gli anziani che sono tornati ogni mercoledì alle 13 in piazza Carignano a Torino; la partecipazione di una classe del CPIA (Centro Provinciale di Istruzione per Adulti) e di altre Scuole Secondarie Superiori cittadine; l’attivazione di reti solidali di cittadini nei confronti di senzatetto e non solo; il patteggiamento fra attore e pubblico per stabilire le dinamiche di realizzazione.

Mi colpisce positivamente il tuo accomunare teatro e scuola nella necessità di un “auto-ripensamento post-epidemico”; effettivamente, sia la scuola sia il teatro si possono ripensare, dopo la pandemia. Ma dovrebbero farlo, a mio parere, al netto di una condizione minima di partenza, un utile denominatore comune, un pensiero che può ispirare entrambi: non basta cambiare abito o abitazione, perché quando si ha a che fare con altri corpi in uno stesso luogo, è una questione di carne. Assai prima che di involucri o, peggio ancora, di corazze. Bisogna cambiare la carne e il corpo che ne è composto, con tutto quello che contiene: dalle frattaglie alla materia grigia. Morire per rinascere, senza facili surrogati.

Al riguardo, mi viene voglia di raccontare una storia, che scrissi nel 2014 e che si intitolava La tragedia della libertà: un testo teatrale nel quale la dimensione scolastica e quella teatrale si contaminano in un bizzarro atto rivoluzionario.

Ci sono quattro studenti che provano di nascosto, davanti a un gruppo di amici fidati, le dichiarazioni che renderanno il giorno in cui verranno arrestati. Dalle loro parole si scopre perché stanno scappando, perché hanno mutato i loro nomi in Antigone, Ecuba, Edipo e Dioniso e quale segreto celano le loro maschere. Si apprende di come lo Stato impose la chiusura delle scuole; e, per fare eseguire l’ordinanza, ufficiali dell’esercito furono nominati presidi; e in una scuola, nel giorno del commiato, accadde un imprevisto: di come, quando e perché quattro studenti, avendo sbranato un preside, cambiarono vita e nome… La riunione clandestina inizia con l’ascolto di una registrazione che i quattro hanno portato con sé. È l’ultima lezione del loro insegnante di Greco e di Latino, in cui il professor Federico si scaglia contro la Monarchia Imprenditoriale, il mercato schiavistico del lavoro, la deformante statalizzazione della cultura e la futura formazione scolastica sul web, senza maestri; auspica un’era dionisiaca e inneggia alla clandestinità di vita e di studio. Sul finire della lezione, il preside irrompe in classe pistola in pugno e dichiara in arresto il professore… E loro si avventano su di lui, facendolo a pezzi e divorandolo.

Le prove segrete di quei quattro studenti sono le prove per imparare a “recitare”, a raccontare efficacemente la loro storia, lo sbranamento di quel preside graduato che imponeva ai professori di consegnare gli account con i quali dal giorno dopo gli studenti avrebbero “frequentato” la nuova scuola.

Nella prefazione che Anna Delfina Arcostanzo scrisse a quel testo, c’è un passo a mio giudizio illuminante: «quando l’atto fondante è stato compiuto, una volta che il padre sia stato divorato dal figlio, il vecchio potere abbattuto e il tiranno divorato, chi può mettere al mondo il nuovo mondo? E come? Chi pronuncerà, chi agirà l’atto fondante? Pare che la risposta sia inequivocabile: l’atto fondante non può che essere un atto narrativo e consiste esattamente in quella recitazione che i colpevoli fanno di sé e delle proprie azioni di fronte alla comunità e alle sue leggi. L’atto salvifico, dunque, consisterà esattamente in questo: nella violenza che disvela se stessa e che, nel farlo, smaschera per sempre i sistemi passati e futuri che su di essa si sono o si sarebbero fondati. Come se la violenza che sta alla base della coesione sociale, quelle “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo” – come ha suggerito René Girard – fossero smascherate per sempre. E come se a smascherarle, questa volta, non potesse essere la vittima ma il colpevole. Un colpevole che deve farsi attore e attore di rivelazione».

Servirebbero, dunque, pensieri non immobili: capaci di farsi azioni.

Per quanto riguarda i lavoratori dello spettacolo e le loro lotte possibili, credo dovranno innanzitutto rendersi conto pienamente della crisi del loro settore assai antecedente la pandemia; capirne a fondo le radici. Non l’abbiamo ancora fatto. Ci accaniamo a bearci delle scoperte fatte “grazie” alla pandemia, in primis quella di avere dei diritti. Non ci serve a niente la coscienza dei nostri diritti se non abbiamo approfondito la questione del rapporto fra arte e lavoro e se non ci rendiamo conto a fondo del fatto che il teatro, per esempio, è qualcosa che ha a che fare con l’«altrove rimanendo»; e ognuno si fa il suo, di teatro. E il teatro non è uno, non è Il Teatro, ma sono tanti teatri. E sia chiaro: tutti valgono e meritano attenzione, quando sono sinceri e non escludono il pubblico dai loro esperimenti.

Sitografia
Bibliografia:
  • L. Casalino, Lezioni recitabili, Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Emilio Lussu, Giaime e Luigi Pintor, Camilla Ravera, Umberto Terracini: ritratti da dirsi, A cura di Gabriela Cavaglià e Marco Gobetti, postfazione di Ugo Perolino, Laissez-passer – Edizioni SEB27, Torino 2012
  • L. Casalino, M, Gobetti, Raccontare la Repubblica, Storia italiana dal 1945 a oggi: sette testi da interpretare a voce, Laissez-passer – Edizioni SEB27, Torino 2014
  • A. D. Arcostanzo, V. Cabiale, L. Casalino, F. Pezzini, Conflitti, lavoro e migrazioni, Quattro “Lezioni recitate”, a cura di M. Brunazzi e M. Gobetti, Laissez-passer – Edizioni SEB27, Torino 2018
  • M. Gobetti, Un carnevale per Sole e Baleno, Postfazione di Valentina Cabiale, Tamburi di Carta – Edizioni SEB27, Torino 2015
  • M. Gobetti, La tragedia della libertà, Recitativo liberamente ispirato al saggio di Friedrich Nietzsche “Sull’avvenire delle nostre scuole”, con suggestioni da Omero, Eschilo, Sofocle ed Euripide, Prefazione di A. D. Arcostanzo, Tamburi di Carta – Edizioni SEB27, Torino 2014
Marco Gobetti
Marco Gobetti (Torino, 1967) è un attore, drammaturgo, regista fondatore della Compagnia Marco Gobetti. Ha recitato nei maggiori teatri italiani e da molti anni lavora sulla rappresentazione della storia a teatro in particolare con il progetto Lezioni recitate.  Il lavoro della Compagnia pone al centro un’idea di teatro civile che bada appunto ai cives, «offrendo loro possibilità molteplici di sogni, pensieri e azioni: quando è energia che incontra energie, relazione che innesca relazioni capaci di creare nuove memorie».
http://www.compagniamarcogobetti.com/