Intervista a Mario Isnenghi sul Centenario della Prima guerra mondiale
L’intervista che segue è il risultato di due incontri veneziani nel luglio del 2015, a pochi giorni di distanza una dall’altro. Mario Isnenghi ha rivisto il testo, lo ringraziamo ancora per la sua disponibilità.
Da attento osservatore della contemporaneità, in che modo l’Italia sta celebrando il centenario della Grande guerra?
Vuole il caso che negli ultimi anni ci sia stata una concentrazione che permette uno sguardo comparativo di questi tre anniversari: del 2011, del 2014-18 o 2015-18 e del 2013-15, relativamente al 1943-45. Due dei tre sono anniversari diffusi con le complicazioni del caso: in una ideale classifica la Grande guerra è senza dubbio al primo posto, il centocinquantenario si colloca come un buon secondo, staccato e ultimo è il 70° della Resistenza. C’è una straordinaria tenuta della Grande guerra come memoria, come occasione per le politiche della memoria ma, contemporaneamente, niente affatto come oggetto di storia. Invito ad avere ben chiaro le distinzioni tra storia, memoria e politiche della memoria. Ovviamente gli istituti per la storia della Resistenza sono interessati anche alle politiche della memoria, e se pensiamo al contesto di questa intervista, cioè una rivista rivolta alla scuola dove si raccordano le generazioni dei docenti e dei discenti, ancora di più non è ignorabile il peso e il rilievo didattico della/delle politica/che della memoria. Detto questo lo studioso di storia non può che reclamare i giusti spazi della storia intesa come i fatti realmente avvenuti in una determinata circostanza, in questo caso nella prima guerra mondiale. E lo dico non in astratto ma in concreto; girando molto nell’ambito delle politiche della memoria, cioè dell’anniversario, mi accorgo che c’è bisogno di questa sottolineatura praticamente ogni volta. La confusione tra storia e memoria è universale e anche quella particolare ricaduta della malattia che ci affligge oggi, il presentismo che si manifesta con i nobili vestiti dell’educazione civica, una particolare variante delle politiche della memoria. Un docente ha naturalmente la preoccupazione di avere un corretto, anche se corretto non sarà mai, atteggiamento rispetto al modo di trattare un grande avvenimento storico come la guerra. Il rischio che l’educazione civica si mangi la storia è altissimo e lo è in modo particolare a scuola. Il rischio che non si voglia parlare della guerra e si finisca a parlare solo della pace è comprovato. Come riusciamo a trovare un giusto equilibrio tra le esigenze della storia, cui presiedono gli storici, con i molto più numerosi addetti al racconto socialmente utile quali sono la pedagogia, la didattica, in quel luogo canonico del passaggio intergenerazionale che è la scuola? Non vorrei che tacitamente la scuola riservasse all’università e alla ricerca scientifica il rispetto dell’avvenimento storico, lasciando a se stessa tutto ciò che può trarsi di socialmente utile, e quindi anche l’avviamento alla pace, cioè l’educazione civica. Non per niente l’educazione civica, quando si è tentato di introdurla a scuola, si è legata alla storia. Al di là di un po’ di lettura della Costituzione non siamo mai riusciti a capire bene cosa fosse l’educazione civica. Con un grande anniversario della storia nazionale, europea e mondiale c’è il rischio indubbiamente che si faccia scuola di valori, e quale valore più alto della rivendicazione della pace? Questa è la situazione. C’è uno sfondo storiografico a questa degradazione dei fatti storici, che è la storiografia dello scorso fine secolo. E’ la storiografia dell’assurdo, del non senso, e di quella che a furor di popoli è diventata l’educazione civica, la politica della memoria, persino la storiografia dell’inutile strage. Papa Benedetto XV non avrebbe mai immaginato che avrebbe goduto, cento anni dopo, di una straordinaria fama postuma, del tutto esterna rispetto al contesto specifico in cui lui aveva pensato, scritto e messo in circolazione un documento di carattere diplomatico riservatissimo, dentro al quale stava questa frase, che è slogan efficacissimo. Naturalmente questo accade anche alle opere di letteratura che sono rilette nel corso dei secoli in maniera diversa, accade a tutto ciò che ha una lunga tenuta potersi ripresentare in maniere imprevedibili, persino per chi ne è stato l’autore. Il papa, dunque un’autorità universale esterna e superiore agli Stati aveva sede in uno Stato, che era l’Italia. L’Italia, nata dal Risorgimento laico, riesce effettivamente in quella prova straordinaria di assicurare la libertà al leader di una grande religione ecumenica all’interno di una guerra tra le nazioni. Non va confuso, come invece oggi è assolutamente pacifico che si possa confondere, il papa con i vescovi, il Vaticano con i vescovi, con i parroci, con i cappellani militari e con i cattolici. Può sembrare che i cattolici allora avessero capito tutto, mentre i laici avevano motivazioni e scopi di guerra che oggi ci appaiono insensati per giudizio condiviso, se non unanime. Questa invece è una politica della memoria, che non coincide con la storia. Mi chiedo però se un addetto alle politiche della memoria e ai valori odierni, un addetto alle cure del presente sia chiamato a interessarsi granché delle malinconiche considerazioni dello storico, che vorrebbe invece il rispetto dell’oggetto e dei soggetti rispetto a dinamiche storiche specifiche. Ancora siamo di fronte agli stadi del distinguere, se alla fin fine quello che conta è la pedagogia, l’educazione ai valori, e questa frase – l’inutile strage – è così efficace rispetto al massacro di milioni e milioni di persone che ci appare oggi così remoto e insensato, perché non la possiamo impugnare? Perché no, sono costretto dalla mia professione a rispondere, perché le cose sono andate diversamente. L’educazione civica che oggi si serve della frase famosa è una variante nobile del presentismo, una malattia che ci affligge e non ha bisogno del passato, o ne ha bisogno solo per strumentalizzarlo e volgerlo ai fini del presente. Lo sappiamo bene come istituti per la storia della Resistenza che ciò è altrettanto vero per il ‘43-’45, e questo silenzio relativo al ‘43-’45 nasce anche dal fatto che la Resistenza non serve più a nessuno, non serve più neanche a sinistra, all’attuale sinistra, anzi ne rappresenta un impaccio. Allora gli istituti potrebbero dire che la loro ragione sociale è difendere la Resistenza e io difendo il passato storico dello scontro tra fascismo e antifascismo. E allora, cosa facciamo, due pesi e due misure? Storia sì relativamente alla seconda guerra mondiale, storia no ma educazione civica relativamente alla prima guerra mondiale? Si può fare certamente ma non mi sembra molto corretto. Se vogliamo preservare la legittimità di un rapporto corretto di ogni tipo, non solo storiografico, con il 1943-45 nel contesto più vasto del fascismo in Italia, se ci occupiamo di prima guerra mondiale, dobbiamo occuparci delle sue cause e dei suoi scopi, di quelli che furono gli uomini e le donne di allora e non del nostro presente. Naturalmente non è che il presente possa essere totalmente espulso e non incida nel rapporto con il passato.
Torniamo all’inutile strage del primo agosto del 1917: quanti usi ha avuto quella frase, che invece avrebbe dovuto essere usata solo da pochissimi, cioè dai notabili della diplomazia all’interno di una società di notabili più in generale, che proprio con la guerra mondiale si stava sfaldando e sostituendo con la società di massa. Nel mio ultimo libro1 dedico un capitolo all’uso immediato a cui viene sottoposta l’inutile strage. Udine è la capitale della guerra, vi risiedono il Comando supremo e il re, siamo nell’agosto 1917, non c’è ancora stata la ritirata di Caporetto, in diocesi c’è un vescovo. Tra le mie fonti ci sono le lettere che i vescovi scrivevano segretamente al Vaticano, al papa che le leggeva, ma il più delle volte rispondevano il segretario di stato Gasparri o il vice Todeschini. Appena si è saputo della frase un sacerdote di Udine ha subito scritto un editoriale sul giornale diocesano, il cui direttore naturalmente è un altro prete. Titolo scioccante: La parola alle trincee. Ecco l’uso immediato, socialmente utile alla rivoluzione cristiana contro la guerra, ma era forse questo il senso del documento del Vaticano? Mai no! Sul filo delle ore c’è una gara tra chi chiude prima il giornale diocesano e chi mette sotto processo i due sacerdoti, è una gara tra la Chiesa, lo Stato e l’esercito, è una triangolazione tra alleati che stavano facendo la guerra. All’inizio lo Stato laico liberale aveva tolti i cappellani militari. Cadorna, che non si fida degli intellettuali, degli interventisti e dei volontari, li rimette perché pensa che gli unici intellettuali validi sono i preti, o i rabbini o i pastori, non in chiave di inutile strage naturalmente, ma in chiave di obbedienza e di rassegnazione cristiana. A Udine c’era il più patriottico di tutti i vescovi del Triveneto ma era un milanese e non aveva un buon rapporto coi preti friulani, infatti è l’unico che se ne va a Caporetto, mentre invece la linea è che i vescovi e i parroci restino. Lui si comporta come i prefetti, i sindaci, perché si sente classe dirigente della patria invasa e non membro autorevole di quello che ha agito come un antistato per tre generazioni, la Chiesa rispetto allo Stato italiano. I due preti finiscono immediatamente sotto processo ma sono comunque trattati tutto sommato con i guanti, gli danno 4 o 5 anni per uno. Questo per dire che anche l’inutile strage nell’immediato è stata parte di un contenzioso tra Stato e Chiesa irrisolto in parte, perché il Concordato è di là da venire, ma che trova una via di soluzione proprio attraverso la guerra e non con il disaccordo sulla guerra, tutto il contrario dell’inutile strage. Quello che si vuole sapere nel clima odierno dell’antistato non è l’accordo tra Chiesa e Stato ma, al contrario, la valorizzazione del soggetto extrastatuale, la Chiesa. Tutto ciò che è antistato – il Comune, il Veneto, la Regione ecc. – va bene oggi.
In Veneto, dove da tempo c’è una amministrazione regionale dominata dalla Lega, assistiamo a un fenomeno singolare e apparentemente contraddittorio, una sostanziale concordia politica nel celebrare la vittoria dell’Italia, quindi una vittoria dello Stato nazionale.
Il paradosso che ci troviamo di fronte, come posso vedere anche dal mio osservatorio del Comitato Nazionale Grandi Anniversari, è che proprio la Regione leghista e le due Regioni autonome sono quelle in cui con maggiore attivismo ci si occupa di questo anniversario. Naturalmente il regime di autonomia del Trentino e della Venezia Giulia garantisce più soldi e ci sono maggiori finanziamenti, più cose fatte o in via di organizzazione. In realtà l’anniversario nazionale tra le tante letture e utilizzazioni messe a frutto, cioè politiche della memoria, può anche avere questa: andare verso lo “sbocconcellamento” dello Stato, in nome del “che brutto lo stato, che belle le autonomie”, all’interno, se va bene, dell’Europa e, se va male, dei piccoli popoli alpini, del “trentinismo”. Si va nel senso della parcellizzazione, frammentarismo, a cui in Veneto siamo ben abituati per motivazioni in parte diverse e in parte collimanti, complessi rapporti tra Veneto e Trentino: da una parte invidia, gelosia, rabbia, dall’altra il tentativo di fingersi trentini dopo aver gridato “semo veneti” fino alla notte prima.
Lei ha tenuto delle conferenze a Trieste due anni fa sulla Grande guerra e c’era stata una risposta di pubblico straordinaria
Sono andato al teatro Verdi per un ciclo di lezioni organizzata dalla casa editrice Laterza e dal quotidiano triestino “Il Piccolo”, il quotidiano nazional-liberale per eccellenza che intorno al 24 maggio del ’15 fu costretto alla chiusura, quindi un soggetto istituzionale che sembrava il più appropriato per una memoria patriottica e nazionale. La città di Trieste ha potuto ripensare, magari anche criticamente, il suo rapporto non tanto con l’impero, che penso è una questione di vecchie zie, quanto l’essere stata industrioso porto di un grande territorio. Non c’è bisogno di essere nostalgici austriacanti per immaginarsi una geografia più vasta rispetto all’attività di un grande porto com’era allora. Può darsi che in quella fase, in una mistica della liberazione di Trento e Trieste, non solo i triestini ma anche i veneziani si siano dimenticati che forse non c’era bisogno di due porti così vicini che insistevano sullo stesso mare e che comunque, tra le due, Trieste aveva come retroterra tutta l’Europa centrale, mentre Venezia aveva un retroterra diverso e più ristretto. Quello di cui oggi nel presente “presentista” non ci si vuole mai rendere conto, è che si vive anche di illusioni, cioè di cose che successivamente si rivelano illusioni, ma che in realtà hanno nutrito il modo di essere, di pensare, di vivere delle generazioni. Se uno vuol vedere soltanto gli ideali, anche se è una parola desueta, del proprio tempo e non è disposto a riconoscere gli ideali dei tempi altrui, non può fare storia. Oggi esiste l’ideale pacifista o ambientalista, posso riconoscerli come obiettivi politici, condividerli anche, ma riguardo alla cittadinanza, se la cittadinanza di 50, di 100, di 150 anni prima aveva altri contenuti ne devo prendere atto, e non ho il minimo dubbio di doverne prendere atto quando scrivo libri di storia. Ma cosa vogliamo fare a scuola, distinguere tra elementari, medie, medie superiori, immaginando che via via le dosi di favola si diluiscano a favore delle dosi di conoscenza storica effettiva? Esito ad affermare apertamente una verità multipla come questa. Vorrei semplicemente porla problematicamente ai colleghi che ci leggeranno. Io ho insegnato per anni italiano e storia nelle scuole medie superiori, ma non immaginavo certo di dover scrivere al pomeriggio I vinti di Caporetto2 o Il mito della Grande Guerra3, mentre al mattino insegnavo cose diverse e molto più edificanti, quando c’erano le lezioni sulla prima guerra mondiale.
Parliamo del Comitato Nazionale Grandi Anniversari.
Ci siamo trovati davanti a molte centinaia di domande per la Grande guerra e, contemporaneamente, per la Resistenza. A monte è stato deciso che una parte dei finanziamenti andrà per il restauro, la manutenzione di alcuni monumenti, una decina di sacrari, e non metto in discussione questa scelta; una volta che questi grandi monumenti funebri sono stati pensati, diventano oggetti storici anch’essi, si tratta di rendersi conto quali furono all’origine e perché nacquero. E’ chiaro che corrispondono alla visione statalista dello Stato fascista che si rapporta alla morte di massa in guerra, non soltanto onora i morti ma consacra e sacralizza se stesso. Allora il grosso dei finanziamenti va lì, questo non ha impedito a diverse centinaia di comuni, biblioteche civiche, istituti culturali i più vari di presentare domanda di finanziamento a progetti grandi, medio piccoli, piccoli e piccolissimi. Riassumendo, e per farne in certi limiti una parodia, “il mio ombelico e la memoria della Grande guerra”, fondamentalmente molti progetti girano intorno a questo. Ad esempio un comune di cinquemila persone presenta la sua domanda, fa il suo cappello introduttivo e si inventa che ha avuto sette caduti, per cui bisogna sapere chi sono; oppure c’è un monumento ai caduti che sta andando giù, o il restauro del viale della Rimembranza ecc. ecc.. Ma un comune di qualche migliaio di persone potrebbe chiedere il finanziamento alla Provincia, alla Regione, è proprio necessario chiederlo allo Stato? E questo comunque ingolfa il motore, perché sono centinaia e centinaia di richieste che devono essere esaminate.
Le richieste riguardano prevalentemente i caduti della Grande guerra?
Non tutte, molte. E’ la grande invenzione del Milite ignoto, il Milite ignoto siamo noi, se poi non è anonimo e sono i cognomi del nostro paese la ricerca funziona con i ragazzi delle scuole, infatti tra i soggetti coinvolti ci sono molte scuole, nobile iniziativa se non ricadiamo nell’equivoco tra storia e memoria. Allora moltissimi di queste centinaia di progetti non sentono il bisogno di pensare in grande, perché la loro ragion d’essere è pensare in piccolo. Nessuno ha dato alle tre Regioni in zona di guerra la delega a pensare in grande, però di fatto in qualche misura se la stanno prendendo. Prima ragione: perché hanno i finanziamenti più degli altri, buona ragione ma non valida di per sé; seconda ragione, ed è una eccellente ragione: la guerra si è combattuta lì, anche se per altri versi la guerra si è poi estesa enormemente. Il paradosso e la contraddizione è che nelle due Regioni autonomiste – Trentino e Friuli – e il Veneto, quindi nelle tre Regioni del frammento autocentrato, per una delega che nessuno ha concesso, ma che sembra essere in qualche modo nell’ordine delle cose, ci si rapporta di più, forse anche con maggiore immedesimazione, alla Grande guerra di Stati e nazionale. Come può avvenire? Vediamolo dal punto di vista del Veneto: oggi ci si interessa poco o nulla della storia militare, questo è vero sempre ed è vero anche qui; peggio ancora va alla storia della politica, interessano poco o nulla i moventi e gli scopi di guerra, e questo è vero qui a maggior ragione che altrove. Quello che interessa è la gente e la guerra nostra che è la guerra dei civili e, siccome siamo tutti acculturati, è la guerra delle civili, delle donne: le crocerossine, le donne di casa, le operaie, le contadine. Le donne che subentrano perché gli uomini di casa non ci sono. La gente, i nostri paesi, i paesi occupati, che splendida occasione! Per fortuna siamo le vittime, e che ci interessa dello Stato, delle guerre di Stati. Siamo o non siamo stati invasi? E cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto fronte, ci siamo dati da fare, siamo stati capiti ma anche non capiti nel profugato, e qui attenzione sennò si rischiano analogie con l’oggi. Per chi ha studiato il profugato, come Daniele Ceschin, non è stato un momento di grande solidarietà, dall’una e dall’altra parte, in giro per la penisola si sono manifestati un mucchio di problemi, dialettali, economici, sociali ecc. ecc. Ma non è il nostro caso, qui stiamo parlando dello spiantamento, dello sradicamento. Per esempio dall’altipiano dei sette comuni per venire in pianura, possiamo fermarci nel vicentino, possiamo parlare di metà delle città del Veneto, tutte le città del Friuli che si svuotano dopo Caporetto, possiamo parlare di chi viene via e di chi resta, grosso modo metà e metà. A lungo non ce ne siamo occupati, la storia sociale non prevaleva come oggi prevale, ecco che si può fare anche qualcosa di fresco e di originale. La storia sociale della gente, dei paesi, delle nostre strade e contrade può permettere in chiave di storia locale, che è quella che piace, qualcosa di buono. In uno mio scritto recente ho usato una frase che ha avuto molta fortuna, ho parlato di “storiografia a chilometro zero”, il senso è irridente, è polemico, è la storiografia di chi non vuole guardare al di là del proprio naso, ma può esserci anche la storia locale bene intesa che induttivamente a partire dal natio loco, senza chiudersi, riesce a vedere il movimento, lo sradicamento, il cambiamento. Mentre la visione tradizionale comunitaria e microcomunitaria sarebbe all’insegna dello stare e delle tradizioni ambientali, la guerra pone in essere, e viceversa, l’andare, lo spiantamento, lo sradicamento e il cambiamento. Tutti, uomini, donne, bambini e vecchi vanno di qua e di là, e quindi è grande la possibilità di mettere in campo la nostra commiserazione, la nostra solidarietà postuma ma anche quanta possibilità di approfondimento. Dove va il tale paese dei sette o otto comuni dell’altipiano di Asiago? E come vengono accettati ecc. ecc. Ecco che il grande momento del profugato che fu rottura, interruzione del fluire naturale, e riguarda anche le famiglie, non solo l’uomo che va alla guerra o che va a fare l’emigrato, come aveva sempre fatto, basta pensare alla provincia di Belluno, dove è tutto un andare e venire per l’emigrazione stagionale. C’è la possibilità di fare storia sociale che prescinde dalla politica e, se non è tutta la storia della prima guerra mondiale, ne è parte eminente. Allora questo tipo di storia sociale la può fare anche la Lega e le maggioranze leghiste. La Grande guerra mondiale, la guerra europea riesce a essere memorizzata e, persino in taluni casi, storicizzata attraverso la via della storia locale, o più in grande della storia sociale, comunque vuol dire che si è in un rapporto dimezzato, incompleto rispetto a tantissime cose di carattere politico. D’altra parte oggi c’è il disinteresse per la politica, figurarsi per la politica di allora. Un’altra grande via per rapportarsi all’anniversario è la fotografia: dai bauli, dai cassetti di casa vengono fuori delle fotografie, perché le macchine fotografiche personali c’erano già allora, non è che tutti i soldati semplici la avessero, ma molti ufficiali sì. L’attuale “individualismo ombelicale”, cioè tutto quello che vedo e sento a partire dal mio ombelico, sembra fatta apposta per trovare la corrispondenza con l’ufficiale che va in giro con la macchina fotografica allora e fotografa. Fotografare battaglie è più complicato e dal punto di vista militare non si può neanche farlo legittimamente, tant’è che i fotografi ufficiali erano tenuti d’occhio. Le fotografie che vengono fuori dalle soffitte di casa sono molto ripetitive e riguardano molto più spesso le retrovie che non le trincee. La normativa specifica dell’epoca evitava di visualizzare i morti, nel cinema, nelle fotografie che poi erano destinate ad apparire sui giornali. C’erano le squadre fotografiche del Comando supremo che andavano in giro a fotografare quello che potevano e dovevano, così come i giornalisti raccontavano quello che potevano e dovevano e non tutto quello che vedevano, e vedevano una piccola parte di quello che avrebbero potuto vedere. Se questo è vero per i giornalisti, figurarsi per i fotografi non di professione. Si deve sempre andare a vedere queste fotografie, perché si possono avere delle sorprese; va da sé che è più facile trovare delle fotografie del paese com’era e com’è diventato, piuttosto che scatti di guerra in senso stretto, ma di nuovo questo va bene per la storia sociale. Le cose vengono fuori quando interessa che vengano fuori, così come si sono trovati i diari, le lettere quando si è avuto voglia di cercarli fin qui.
Il Milite Ignoto è stata una straordinaria invenzione.
Sì e un’invenzione non solo italiana. Da Aquileia il Milite Ignoto doveva arrivare a Roma e il treno deve attraversare l’Emilia e la Romagna e c’è il timore che accada qualcosa. In realtà non succede niente, anche perché la Romagna rossa è la Romagna nera e la Romagna repubblicana, che era per la guerra, eccome. E al passaggio della salma tutti in ginocchio a cantare Il Piave. Allora c’è al governo un socialdemocratico, Presidente del Consiglio è Bonomi con Gasparotto ministro della guerra. Gasparotto è un deputato radicale di Sacile, è un volontario di guerra di mezza età che ha scritto un diario di guerra notevole. Il figlio, Poldo Gasparotto, sarà un eroe della Resistenza; è una famiglia patriottica ma di un patriottismo democratico, anticlericale; probabilmente lui è massone. Gasparotto, che fa parte della territoriale perché è un volontario anziano, è a Velo d’Astico – siamo in piena zona fogazzariana – e sta per salire in altopiano di Asiago con il suo reparto, che racconta come molto patriottico. Cercano una bandiera, ma a Velo d’Astico non c’è una bandiera tricolore, ai contadini non interessa proprio. E quindi si verifica uno scontro straordinario di linguaggi e di attese e questo ci spiega bene perché nei mesi tra il 1914 e il 1915 don Grandotto a Cesuna sia messo sotto processo. Lui, anche a nome di un altro cappellano altopianese e per ordine del suo vescovo, il vescovo di Padova Pellizzo, ha poi scritto una relazione che si è salvata. Era sospettato di spionaggio, come tanti altri preti, non solo del posto. Siamo in una zona a quindici chilometri dal confine di Stato e i segnali di fumo non erano totalmente implausibili. Non era del tutto incredibile che i preti fossero sospetti di amare l’Austria, in realtà quello che si perpetua in nuove vesti è lo scontro tra clericali e liberali. Cesuna è il paese di Brunialti, il deputato liberale di Vicenza, che ha la sua villa lì e tra il parroco Grandotto e il deputato ad ogni elezione c’è scontro. Con la guerra lo scontro si colora di motivazioni politiche generali.
Parliamo di Vittorio Veneto.
Il 4 novembre e Vittorio Veneto sono le grandi dimenticate del rapporto degli italiani con la prima guerra mondiale: assurdo, come se gli italiani avessero vinto tante altre guerre. Solo l’apocalittico religioso, sedicente contrario a ogni violenza e a ogni guerra, può disprezzare la vittoria, e qui non c’è niente da dire; chiunque altro non vedo in base a quali argomentazioni serie lo faccia, anche se sappiamo quali sono le argomentazioni. Di mezzo c’è la cultura nazionalfascista che ha fatto terra bruciata, anche se l’Italia ha vinto e ha vinto contro il grande impero asburgico. Il 4 novembre è una festa nazionale ma nessuno capisce bene che razza di festa sia, lo so perché di solito in vista di ogni 4 novembre mi telefona questo o quel giornalista, ma si capisce benissimo che l’ultima cosa che gli viene in mente è la vittoria, tutt’al più gli viene in mente la fine della guerra e dunque la pace, e ci risiamo. La guerra serve solamente ad esaltare la pace, va bene in chiave di valore per l’oggi, però in questo caso non hai bisogno dello storico. Andiamo ai fatti: Vittorio Veneto è una grande particolarissima battaglia intrisa di elementi politici oltreché militari, ma non dobbiamo sorprenderci di questo perché quella fu la prima guerra totale. E la guerra è totale perché c’entrano anche i civili, oltre ai militari, e le donne e gli uomini, e tutti sono in una maniera o nell’altra coinvolti per portarla a buon fine. Ma la vittoria è un buon fine o siamo talmente ideologizzati nel nome e nel valore della pace che non si può portare a buon fine una guerra e preferire vincerla invece di perderla? Se torniamo al 1914-15, gli eredi del no alla guerra possono dolersi che i neutralisti, che erano maggioranza, abbiano perduto lo scontro con gli interventisti, che erano di meno. Se ne diano una ragione, studino perché e per come, ma è andata così, una volta che sei entrato in una guerra penso che il singolo possa sentirsi, dichiararsi e comportarsi come un obiettore totale e dunque opporre il suo no alla guerra in modo assoluto. Ma il singolo impegna se stesso, non può impegnare una collettività. Se la collettività si è impegnata in una grande guerra totale basata sulla coscrizione obbligatoria, o riesci a fermarla prima che cominci o, se comincia, non vedo forme, nella storia, di obiezione di coscienza a carattere collettivo plebiscitario. O meglio, se stiamo parlando di rivoluzione, è un no alla guerra talmente sicuro di sé, talmente forte da concretizzarsi nel rovesciamento tra le classi, tra le forze politiche e tra i paesi. Allora parliamo della Russia e del fare come in Russia ed è un’immagine che serpeggia nell’Europa in guerra nel corso del 1917-18, e anche in Italia. Quindi fare la rivoluzione al posto della guerra, ma la rivoluzione è un’operazione politica in positivo, è avere tanta forza da poter rovesciare la direzione in cui sparano le mitragliatrici e i fucili. Avere la forza, la volontà politica di farlo e non individualmente ma socialmente. Non ci sono in Italia nel 1917-18 le forze politiche che abbiano la forza di pensare e di fare la rivoluzione. Il partito socialista era neutralista, mentre chi era più a sinistra aveva già scelto l’intervento in guerra, come i sindacalisti rivoluzionari, metà degli anarchici, una parte dei massimalisti e il direttore da ”l’Avanti!”. Dentro al gruppo socialista c’è il gruppo parlamentare egemonizzato da Turati, Treves e i riformisti, che non hanno mai pensato alla rivoluzione, meno che meno ci pensano dopo l’ottobre – novembre del 1917. I massimalisti prevalgono nella direzione del partito socialista, ma la parola d’ordine per tenere insieme il partito socialista l’aveva escogitata il segretario del partito Costantino Lazzari ed è “né aderire né sabotare”. Cosa c’entra la rivoluzione con “né aderire né sabotare”? A Torino c’è stato lo sciopero generale nel 1915 e nell’agosto del ’17 quando, a partire dalle code delle donne davanti ai fornai, si è ampliata la parola d’ordine da, più o meno, “viva il pane” a “viva la pace”, ma neanche Milano si è accodata a Torino, come il fronte non si è accodato ai civili. Torino rappresenta un grave sintomo di malcontento, di malessere ma non un sintomo di volontà politica e di capacità e forza di fare qualcosa di simile alla rivoluzione. Al contrario nell’ultimo anno di guerra, dopo Caporetto, i deputati leaders del riformismo socialista, Turati e Treves, si riscoprono anche loro patrioti, come avevano fatto capire fin da principio nel caso di una guerra difensiva, e nel ’17 lo diventa. Ebbene, centinaia e migliaia di soldati che avevano votato per i socialisti o erano d’area, devono averlo pensato, a giudicare da come si sono comportati, altrimenti non ci si spiega la resistenza al Piave, al Grappa, al Montello. Una guerra difensiva è più comprensibile di una guerra offensiva e si muore meno. Dopo Caporetto ci sono oltre 200 chilometri in meno da presidiare, per cui anche se il milione di uomini della II armata non c’è più, ci sono anche meno chilometri da presidiare. E’ meno difficile spiegarla al contadino – soldato una guerra di difesa. Salandra, il primo Presidente del Consiglio dei tre governi di guerra ha parlato di “sacro egoismo” della nazione, al contadino – soldato si può ora vendere meglio il “sacro egoismo” a livello di campi o di orto, di micro proprietà privata. Nell’esercito di Diaz si capisce sul morale più di quanto non si fosse capito o voluto capire con Cadorna, quindi un po’ Diaz capisce e un po’ lascia fare a quelli che capiscono, uomini di scuola, pedagogisti, storici, giornalisti, i quali non solo organizzano la propaganda ma parlano anche di licenze, di pensioni, di assicurazioni sociali. E ancora più efficace: “la terra ai contadini”, non sarà vero ma si vive di promesse e di speranze. La speranza può essere la rivoluzione, oppure può essere lo Stato che ti darà la terra. Questo è, in senso lato, il quadro psicologico e politico del dopo Caporetto e dell’ultimo anno di guerra, e Vittorio Veneto cresce su questo terreno.
Dopo la rotta la guerra italiana è difensiva fino alla metà del giugno 1918 e alla battaglia del solstizio, probabilmente la più grande battaglia e la più grande vittoria degli italiani sugli austro-ungarici, che si trovano in una situazione difficilissima, non avevano più da mangiare per l’esercito, per cui dovevano assolutamente conquistare il nuovo raccolto in Veneto. Tutte le forze austro-ungariche vengono gettate nella fornace della guerra di metà giugno, ma l’Italia riesce a non farli passare, se non in modeste enclave del Piave. Questa è la vittoria, l’Austria non avrà mai più la forza che era riuscita a mettere in campo a metà giugno. Nei mesi successivi a giugno, Diaz e tutta la società italiana militare e civile entrano in tensione in vista di una ripresa dell’offensiva. Diaz, che non vuole fare il passo più lungo della gamba, sarebbe propenso a dilazionare nel tempo spostando l’offensiva ai primi del ’19 ma a questo punto i politici si impongono ai militari, perché c’è il rischio che la guerra finisca senza che l’Italia sia riuscita a ‘vendicare Caporetto’, ovverosia a riprendersi le terre invase e possibilmente quelle “irredente” che avevano motivato l’entrata in guerra. Non si può, perché si riprodurrebbe la situazione della III guerra di indipendenza: da cinquant’anni sull’Italia pesano la sconfitta di Lissa e di Custoza. Sarebbe orrendo dal punto di vista dell’immagine se la guerra finisse con tutto il Friuli e metà del Veneto occupati, sarebbe una carta formidabile nelle mani dell’impero austro-ungarico e sarebbe una ragione in più per gli alleati di umiliare l’Italia, e lo faranno comunque. Immaginarsi cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stato Vittorio Veneto. Dicevamo prima che il no all’epica nazionalfascista ha reso per molti naturale in tutto il lungo dopoguerra, che dovremmo considerare finito per tornare a una visione più concreta e realistica delle cose, volersi svincolare dagli orgogli nazionali fascisti. Questo ci ha portato a essere reticenti rispetto alla vittoria, come se vittoria fosse sempre sentita con la v maiuscola, come se fosse stato una fanfaluca inventata dalla propaganda e riperpetuata dal fascismo. Paradossalmente nel raccontarci le cose così, per un malinteso antifascismo, si finiva per venire incontro alla visione austro-ungarica, e più in generale tedesca, che li ha portati a lungo a pensare di non avere mai perso la guerra, di avere perso per ragioni economiche e politiche – il blocco economico, la fame – ma la questione è più complicata. Facciamo l’analogia con Caporetto, non è vero ma a lungo Caporetto è stata considerato come un fenomeno più di ordine politico-sociale che militare. L’interpretazione è stata: l’Italia perde a Caporetto perché è uno stato giovane e non ben amalgamato, in cui il rapporto tra governanti e governati non è soddisfacente. Appena hanno potuto i governati o addirittura si sono ribellati – qualcheduno poteva anche pensare questo – o comunque non hanno più avuto voglia di combattere per i governanti. Questa visione è destituita di fondamento ma fu la prima cosa pensata da una buona parte degli interventisti che non si capacitavano di quello che accadeva in quelle settimane a cavallo tra ottobre e novembre 1917. E’ il popolo che non combatte, sono i disfattisti, gli ex neutralisti che non si sono mai capacitati di aver perduto politicamente nel ‘14-’15 e che hanno soffiato sul fuoco finché non si è arrivati a questo punto. Non era vero, però in una guerra totale non conta solo ciò che è vero ma anche ciò che viene percepito come verosimile. D’altro canto il 28 ottobre è il generale Cadorna che firma il comunicato ufficiale dove dice “tali e tali reparti hanno buttato le armi volutamente” e fa i nomi; nessun altro generale si sogna di farlo. Il governo interviene e riesce a bloccare la circolazione in Italia ma non la blocca all’estero e sembra fatto apposta per far pensare dell’Italia ancora peggio di quanto già non fosse, sulla base di precedenti quali Adua, Lissa, Custoza. Ho richiamato Caporetto perché anche Vittorio Veneto per gli austro-ungarici non è semplicemente una sconfitta militare, ma è un complesso di circostanze in cui rientra la politica nell’immaginario dei combattenti. In questo caso non una frattura più immaginata che reale nei rapporti tra le classi sociali, ma una frattura e immaginata e reale a livello di nazionalità. L’analogia è possibile: per generazioni hanno ripetuto che l’elemento tedesco ha combattuto valorosamente, è vero ma significa confermare che, viceversa, gli slavi, gli italiani, le altre nazionalità a quel punto hanno preferito tirarsi fuori e risvegliarsi vincenti come parte dello Stato di riferimento di una nazionalità oppressa. Risale al 1848 la linea politica delle nazionalità oppresse all’interno dell’impero sovranazionale e l’Italia fa scuola. Mazzini è la bandiera dei risorgimenti non solo di Trento e Trieste ma degli sloveni, dei croati, dei ruteni, dei rumeni, dei polacchi. Ciascuna di queste nazionalità soggette all’interno dell’impero si era scavata una sua nicchia più o meno confortevole, gli ungheresi erano i secondi rispetto ai primi, quelli che parlano tedesco e ricoprono i ruoli fondamentali all’interno dello Stato. Hanno combattuto poco valorosamente i trentini e i triestini fin da principio, seppure allontanati dal fronte italiano, molto facilmente si davano prigionieri ai russi e poi nascono accordi politici che li restituiscono all’Italia. Noi isoliamo la questione di Trento e Trieste ma il discorso si può moltiplicare per le altre nazionalità. La battaglia di Vittorio Veneto è questo fenomeno disgregante di carattere etnico-nazionale che fa sì che nei territori in cui gli eserciti si toccano, i soldati provenienti da una certa matrice etnica combattano di più e altri di meno. Stiamo parlando degli ultimi giorni, ma stiamo parlando anche di un punto di arrivo di quattro anni di guerra, quindi di un logoramento delle volontà e delle convinzioni di stare insieme all’interno dell’impero, quello che era sin qui apparso a molti come il baluardo dell’ordine e della tradizione. E allora la nuova lettura è “perché devo affondare con la nave?” Affondino come è d’uso i comandanti della nave. La patria di un marinaio dalmata può essere o l’Italia o la Croazia ma non è l’impero, moltiplichiamo questo per centinaia e migliaia di volte. E’ almeno dal principio dell’ottobre del ’18 che sanno di perdere e l’elaborazione della sconfitta sarà diversa a seconda dei soggetti: se sei un austro-tedesco e fai parte della classe dirigente elabori la sconfitta in una diversa maniera di un italiano del Trentino, un triestino o un polacco. Il tentativo del governo imperiale è quello di non arrendersi all’Italia ma agli Stati Uniti. L’idea di arrendersi all’Italia è un rospo terribile, ovvio che l’Italia voglia esattamente questo, e poiché questo è il fronte italo-austriaco a questo si arriva. E naturalmente, come succede in tutti gli armistizi che non sono più atti militari ma sono atti politici che seguono i tempi e i modi della politica, gli italiani hanno tutto l’interesse di tirare per le lunghe. Il luogo d’incontro sarà nella villa Giusti alle porte di Padova, così gli austro-ungarici dovranno difficoltosamente attraversare un’ampia porzione di territorio. Naturalmente tutto è politica da una parte e dall’altra, allora gli italiani hanno cura di far partecipare alle trattative e mettere per traduttore il cognato di Battisti. Gli austriaci sono attenti a mettere in delegazione qualcuno con il cognome italiano, così da dimostrare quel che era, non tutti quelli che avevano il cognome italiano si sentivano portati a far la scelta di Cesare Battisti e di altri. Le scelte erano differenziate, il giudice migliore di cui poteva disporre l’Austria al tempo del Risorgimento era un trentino di Mori, vicino a Rovereto, il giudice Salvotti che è quello che inquisisce Silvio Pellico e gli altri carbonari. E’ bravissimo giuridicamente, ma tiene per l’Austria, la vita però è complicata e suo figlio si chiama Scipio ed è di sentimenti italiani. Finirà sotto processo ed è la nemesi. Ci sono delle linee di frattura che riguardano anche le famiglie, figuriamoci quando riguardano un esercito. A questo punto l’armistizio funziona rispetto agli scopi politici impliciti che aveva: è l’Italia che concede l’armistizio all’Austria-Ungheria ma alle sue condizioni, in sostanza si tratta di una resa. Dal punto di vista delle politiche della memoria è un po’ paradossale e fa parte delle malattie del noi italiani, che da generazioni siamo lì a ricordarci le centinaia e migliaia di prigionieri o di sbandati a Caporetto, mentre i più ignorano quante centinaia di migliaia di sbandati o di prigionieri hanno, analogamente, gli austro-ungarici a Vittorio Veneto. Come se non fosse un fenomeno analogo provocato da motivazioni differenti. D’Annunzio ha parlato di vittoria mutilata e lo faceva per sue ragioni ma c’è una visione ulteriore della vittoria mutilata, che è la reticenza, se non la negazione rispetto ai fatti. E i fatti sono che l’Italia ha vinto. Vergognarsi di essere entrati in guerra si può, discutiamone, ma vergognarsi dopo esserci entrati e avere vinto è una cosa che francamente non riesco a capire.
Per restare sull’argomento del rapporto degli italiani e la guerra, come spiega il misconoscimento di Vittorio Veneto, mentre il 25 aprile è vissuto come una festa?
Forse abbiamo qualche problema con gli armistizi. Nel 1918 fatichiamo a riconoscere la vittoria; nel 1943 fatichiamo a riconoscere la sconfitta. L’una e l’altra volta la cosa che sembra contare di più è che arrivi non la vittoria e non la sconfitta, ma la pace. Umanamente comprensibile, certo; ma in questo modo i bisogni e le propensioni dei soggetti sovrastano sulle sorti e il senso dell’insieme. (Ci può anche andar bene, e oggi, per molti – in tempi di crisi della politica e addirittura “fine della storia” – è certamente così.) Già alla fine del ’18 e per tutto il ’19 e ’20, le sinistre hanno sviluppato contro la guerra una battaglia d’arresto che avrebbero dovuto più opportunamente sviluppare nel ‘14-’15, prima che la guerra fosse cominciata. Invece fin dal principio c’è sostanzialmente un uso politico della guerra che, per una parte dei cittadini porterà a ciò che Mussolini avrebbe detto al re, quando lo aveva incaricato di formare il suo primo governo, e cioè “Maestà vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”. Ma non stava scritto da nessuna parte che lo dicesse solo il capo del fascismo, che aveva molte buone ragioni visto che era stato uno dei capi dell’interventismo. Però c’era stato l’interventismo democratico, altri modi per dire sì alla guerra: Battisti, che non poteva più parlare, Salvemini o i giovani nuovi leader di quello che sarà tra poco Giustizia e Libertà e poi il Partito d’Azione. C’era chi proveniva dall’interventismo democratico, Bonomi, il luogotenente di Bissolati, diventa Presidente del Consiglio, è una pallida eco di Cesare Battisti ma ha la forza di diventare Presidente del Consiglio. Prima di dirne troppo male quando pensiamo alla sua Presidenza del Consiglio nel primo dopoguerra, ricordiamoci che quello stesso pallido Bonomi diventa il presidente del CLN nazionale e Presidente del Consiglio anche nella seconda guerra. Quindi vuol dire che il bigoncio delle sinistre, con tutte le mediazioni del caso, alla fin fine arrivava a spingersi verso il centro fino al punto di sperare di poter essere interpretato da un leader così pallido, come effettivamente era Bonomi. L’operazione del Milite Ignoto si svolge con Bonomi presidente del Consiglio, cioè un socialdemocratico, una specie di Bissolati meno pugnace e dalla storia sin qui meno importante, però lo diventa Bonomi, mai Bissolati e il suo ministro della guerra che è Gasparotto, altro interventista democratico. Ma torniamo ai complessi rapporti con la guerra e la vittoria. La cosa più facile è gettare la colpa sul fascismo, siccome il fascismo si è impadronito della guerra e della vittoria il post-fascismo e l’antifascismo hanno pensato bene di dover pensare male della guerra e anche della vittoria, pur di pensar male del fascismo. Un po’ paradossale perché contemporaneamente il fascismo veniva messo tra parentesi. E anche la guerra e la vittoria? Non del tutto, perché nella scuola l’unica presentazione legittima tornava ad essere la guerra di liberazione e Trento e Trieste, la quarta guerra di indipendenza nazionale, che non era tutto ma certamente era stata una parte. Questa parte diventa la chiave esclusiva di interpretazione fino agli anni ’40, ’50, ’60, fino a quando arriva la mia generazione di storici che pensa la guerra in altra maniera. Ma se le cose stanno così perché mettere la sordina alla vittoria? Si trattava di separarla dagli abusi interpretativi della cultura nazionalfascista e tornare a districare l’interventismo democratico alla Trento-Trieste dall’interventismo nazionalista e poi fascista, perché i fasci interventisti non sono mica fascisti, è una cosa più complicata. Non dimentichiamoci che “Il Popolo d’Italia” si dichiara quotidiano socialista fino al ’18 e questa è la bandiera sotto cui riparavano gli interventisti di sinistra. La redazione de “Il Popolo d’Italia” veniva da “l’Avanti”, o dal sindacalismo rivoluzionario o dall’anarchia, o dall’emancipazionalismo femminile, tipo Margherita Sarfatti, e non solo per ragioni d’amore. La domanda presuppone un’analogia con la festa nazionale del 25 aprile, ma questa in quale misura è sentita come tale? Diciamo da una parte della società politica che si richiama all’antifascismo e può riconoscersi nel 25 aprile come festa della Liberazione attiva, violenta. Ed ecco la violenza. Ma allora come si fa a mettere tra parentesi la violenza della Grande guerra, se il Risorgimento va bene e la Resistenza va bene? Sono stati fatti senza violenza o c’è una contraddizione? La contraddizione sta nel non voler rendersi conto che una buona parte della società italiana quella guerra l’ha voluta, avrà sbagliato ma mettiamola su di un altro piano. I neutralisti erano di più e fino all’ultimo anche in Parlamento. La sanatoria del voto del 20 maggio 1915 può convincere fino a un certo punto, però la votazione c’è stata. I neutralisti giolittiani e i cattolici si sono dissolti, i socialisti sono rimasti soli, sono una sessantina di voti, nel contesto del “maggio radioso”, cioè con la piazza sovversiva. La piazza è sovversiva nel nome della patria e della nazione, ma perché, il ’48 non era stato sovversivo? A Milano erano arrivati alle barricate e i Mille agli occhi dei moderati, dei conservatori e dei reazionari erano sovversivi. Si potrebbe dire “i contenuti specifici di questa sovversione, quella del ‘14-’15 non mi piacciono, anzi mi richiamano il ‘20-‘21-’22”. Ma c’erano anche i figli e i nipoti di Garibaldi e c’erano metà degli anarchici e una parte dei massimalisti. Nel contesto internazionale, le condizioni oggettive perché la pace vincesse in Italia nel ‘14-’15 chissà se c’erano davvero, forse c’erano nel contesto parlamentare, ma non so se c’erano nel contesto della piazza.
Cinque consigli di lettura per sfuggire agli stereotipi.
Non posso parlare della letteratura neutralista che non c’è stata, salvo ricordare Palazzeschi che ha scritto Due imperi … mancati4 subito dopo la guerra, ma non aveva avuto il coraggio di scriverlo prima. Nel ‘14-’15 Palazzeschi ha fatto il possibile per dissociarsi da Papini, Soffici, però alla fine non se l’è sentita di restare solo e si è avvicinato amicalmente agli interventisti. Due imperi … mancati è brutto letterariamente ma molto importante ideologicamente, non è facilissimo trovarlo ma si trova. Questo è il primo consiglio. E poi Viva Caporetto!5, che è il titolo originario de La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte, ho curato io l’edizione nei tascabili trent’anni fa, ripristinando questo titolo scioccante che Malaparte aveva detto di aver dovuto togliere, altrimenti nel primo dopoguerra rompevano la vetrina ai librai. Se sia successo o meno non so, è sempre difficile capire quando Malaparte racconta frottole. Una cosa che può colpire i ragazzi, sin dal titolo ammiccante, è Diario di un imboscato6 di Attilio Frescura. Egli è un giornalista veneto, non un grande scrittore, che pubblica nel ’19, quindi subito dopo la fine della guerra. Frescura rispetto alla sua età non è un imboscato, era un territoriale, ha fatto anche di più di quello che avrebbe dovuto fare, ma all’epoca tutti erano l’imboscato di qualche altro rispetto a chi stava a combattere in trincea. E allora, giocando furbescamente sulla parola imboscato, si è messo un titolo che poi è diventato pesante da portare negli anni successivi. Quando il libro ha avuto fortuna è passato dalla libreria Galla di Vicenza – che è una libreria editrice di matrice cattolica ancora attiva – a Cappelli di Bologna, il quale è diventato il suo editore nella terza edizione del ’28. E’ stato tagliuzzato, mutilato, autore e editore hanno messo prefazioni, avvertenze per l’uso. Purtroppo nel secondo dopoguerra avanzato questi libri sono stati ripubblicati senza badare che stampavano l’edizione amputata. E questo è successo per Frescura, Malaparte e Carlo Salsa che nel ’24 aveva pubblicato Trincee7. Salsa è cugino di Comisso ed è un famigliare del generale Tommaso Salsa. All’epoca era un tipo potente, per cui essere cugini di Salsa era comodo per Comisso, che era un grande opportunista. Salsa diventa il presidente della Siae, quindi è un intellettuale dell’organizzazione culturale che fa carriera nel regime fascista. Nel ’24 pubblica questo libro molto crudo, che in parte è ambientato in Altopiano, in parte nel Carso, e abbiamo finalmente la fanteria e non, come succede molto spesso, gli alpini, che ti raccontano una guerra magari dura però sempre meno anonima della guerra nel Carso o sul fronte occidentale. Il fatto che tanti dei libri di guerra sia nella prima che nella seconda siano stati scritti da alpini probabilmente ha a che fare con una maggiore tenuta dei vincoli umani all’interno della guerra degli alpini. Oltretutto i reparti alpini vengono dagli stessi paesi, dalle stesse valli, si conoscono, parlano lo stesso dialetto. Questo non succede altrove, se non nella brigata Sassari, perché altrove il reclutamento è nazionale. Forse per questo è più dicibile, più narrabile la guerra degli alpini, pensa a Scarpe al sole8 di Monelli. A scuola avranno già letto Un anno sull’altipiano9 e Il sergente nella neve10, per la seconda guerra mondiale. I libri che ho suggerito prescindono da questi, supponendo che si conoscano e si leggano già. Dal punto di vista del valore letterario non c’è di meglio di Gadda11. Gadda è il massimo con Lussu, e con Guerra del ’1512 di Giani Stuparich, però con lui sono solo i primi due mesi di guerra, curioso che l’irredento, l’irredentista, il volontario di guerra, medaglia d’oro Giani Stuparich non ci abbia in maniera compiuta raccontato tutto il resto. Il diario non va oltre, sono solo i primi due mesi e ci pensa su fino al ’31, prima di stamparlo e lo aveva fatto precedere nel ’24 da Colloqui con mio fratello13, che non suggerisco ai ragazzini. Lui si sente così solo che parla con un morto, il fratello si è ammazzato per non essere preso, perché come triestino se veniva riconosciuto veniva impiccato. Giani rischia, si fa due anni di campo di prigionia e non lo individuano. Nel ’41 ci sarà il romanzo Ritorneranno14, bello e alle soglie della seconda guerra, per cui funziona un po’ da cerniera. C’è un terzetto di fratelli in una famiglia triestina, dove realisticamente il padre combatte con la divisa austro-ungarica, pur avendo tre figli volontari italiani. C’è una madre, una figlia e sorella e c’è un terzo personaggio femminile che è la domestica – la serva – non ricordo se è slovena o croata, comunque slava, affezionatissima. Però anche lei in tempo di guerra comincia a capire qualche cosa del rapporto tra i popoli, oltre che tra le classi sociali, per cui morde il freno. Il libro non è bellissimo però è molto importante, traguarda il primo dopoguerra. Due su tre dei ragazzi muoiono, il terzo diventa cieco e ha un attendente anarchico, questo è il rapporto tipico attraverso cui gli ufficialetti borghesi conoscono il popolo, l’attendente. Stuparich l’ha voluto addirittura anarchico per farla più difficile, questo non gli impedisce di essere affezionatissimo, se lo passano, man mano che muoiono diventa l’attendente di chi sopravvive. Per i ragazzi più attrezzati e le ragazze suggerisco due cose: una fascistona, Carmela Timeus, che era la sorella di Ruggero, il nazionalista che fa all’ultimo momento la pace con Scipio Slataper. Carmela è proprio la “ragazza di Trieste” tipica, infatti il suo diario si chiama Attendiamo le navi15, cioè i triestini, gli uomini che da tutte e due le parti sono alla guerra. Le triestine vanno sulle rive ad aspettare la flotta italiana, i liberatori, finché arrivano sul molo Audace, dal nome del cacciatorpediniere. Carmela da irredentista nazionalista è rabbiosissima che ci fosse un unico giornale in italiano che può uscire e naturalmente è “Il lavoratore”, cioè il giornale socialista e per lei è la riprova che i socialisti aiutano gli austriaci. Dopo di che il suo diario diventa un libro. Anche questo è un libro Cappelli. L’altra donna, lo dico per le insegnanti e per le studentesse interessate alle dinamiche del femminile, è Elody o Elodì, se vogliamo pronunciarla alla tedesca o alla francese, è una delle tre “morose” di Slataper, una si suicida per lui, una la sposa e sarà la madre di Scipio II che muore nella seconda guerra. E cosa può fare una Elody, morto Scipio? Sposare Giani. Giani per tutta la vita fa il secondo, da tutti i punti di vista, pubblica tutti i libri di Scipio, è lui il superstite. Il matrimonio con Giani è andato a rotoli. Raggiunti i settant’anni Elody ha un’ultima amica, una albergatrice di Grado, Carmen Bernt – di nuovo i cognomi poco italiani per questi italianissimi d’elezione – e c’è questa amicizia telefonica e scrittoria tra due donne anziane che parlano del passato, soprattutto Elody parla del passato, delle tre ragazze e dei tre ragazzi. La città di Trieste come invenzione letteraria, cose su cui Magris ha scritto pagine memorabili. Trovo queste lettere bellissime e prendo contatto con Gabriella Ziani, che ne aveva curate alcune per la rivista “Belfagor”, e decidiamo di fare un libro che è stato pubblicato con il titolo L’ultima amica16, con la mia introduzione.
Note
1 M. Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, smobilitazioni e abiure nell’Italia del 1914-18, Donzelli, Roma 2015
2 M. Isnenghi, I vinti di Caporetto, Marsilio, Venezia 1967, 1a edizione
3 M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Laterza, Bari 1970, 1a edizione
4 A. Palazzeschi, Due imperi … mancati, Oscar Mondadori, Milano 2014
5 C. Malaparte, Viva Caporetto!: la rivolta dei santi maledetti, introduzione di Mario Isnenghi, Mondadori, Milano 1981
6 A. Frescura, Diario di un imbioscato, prefazione di Mario Rigoni Stern, Mursia, Milano 2015
7 C. Salsa, Trincee: confidenze di un fante, Mursia, Milano 2013
8 P. Monelli, Scarpe al sole: cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino, Libreria militare, Milano 2008
9 E. Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino 2014
10 M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Mondadori, Milano 2015
11 C. E. Gadda, Taccuino di Caporetto: diario di guerra e di prigionia (ottbre 1917- aprile 1918), Garzanti, Milano 1991
12 G. Stuparich, Guerra del ’15, Quodlibet, Macerata 2015
13 G. Stuparich, Colloqui con mio fratello, Marsilio, Venezia 1985
14 G. Stuparich, Ritorneranno: romanzo, Garzanti, Milano 1991
15 C. Rossi Timeus, Attendiamo le navi: diario di una giovinetta triestina, 1914 –1918, Cappelli, Bologna 1934
16 E. Oblath Stuparich, L’ultima amica: lettere a Carmen Bernt Furlani, 1965 – 1969, Il poligrafo, Padova 1991