Le immagini che non ti ho detto. Un approccio critico-didattico alla comunicazione visuale
Indice
- L’emozionale e l’emozionante
- Per una didattica dell’immagine
- Peccati di ingenuità: un documentario
- Peccati di ingenuità: un film di finzione
- Immagini innocenti
- Modelli tragici
L’emozionale e l’emozionante
Bisogna guardare in faccia la realtà. Nell’ultimo paio di decenni è avvenuto un golpe. Le immagini hanno preso definitivamente il sopravvento sulle parole rovesciando il potere per secoli da esse detenuto nell’ambito della comunicazione umana. Come da tempo Francesco Casetti [Casetti 2015], Wim Wenders, la filosofa Mary Zournazi [Wenders e Zournazi 2014, 59-97] e altri intellettuali che hanno dedicato la loro vita alla trasmissione visuale sono andati avvertendo, oggi siamo letteralmente avvolti dalle immagini, e sono così tante, e ci scorrono sempre a fianco che neanche avvertiamo più la loro invadenza. Sembrano doverci fare a tutti i costi compagnia, riempire i nostri silenzi mentali, più che quelli vocali. Perché comunque, anche se non ce ne accorgiamo, esse ci parlano in continuazione.
Ma non basta. Perché in questo capovolgimento che è avvenuto e che si va consolidando sempre più, noi non siamo chiamati a ricoprire un ruolo meramente passivo, tutt’altro. I dispositivi più recenti, infatti, ci hanno permesso di diventare, agilmente, senza troppo sforzo, oltreché fruitori, anche produttori di immagini. Dei produttori bulimici.
Oggi, nel momento in cui la società si trova costretta a ripensarsi completamente dal momento che uno degli elementi su cui si è da sempre fondata, il lavoro, non solo è assente, ma comincia a essere considerato addirittura non-necessario, moltissimi hanno trovato una propria dimensione nella realizzazione di foto e di video. In breve, sembra che ci si sia trovati giocoforza costretti a relazionarsi con un linguaggio ben preciso che, però, nessuno ci ha mai compiutamente insegnato.
Da qui, viene da dire, il grande successo di un termine ben preciso: emozionale (qualche volta sostituito dal più creativo pulsionale). Con grande eco si assiste da ogni parte a un proliferare di video emozionali e fotografie emozionali che lasciano ben intendere, però, nella loro stessa definizione, il vuoto che le caratterizza o, per utilizzare un termine ancora più forte, la mancanza di consapevolezza con la quale essi sono state sviluppati. Infatti, la differenza sostanziale che contraddistingue emozionale da emozionante è che il primo è un luogo, il secondo, un participio, è un’azione. Nell’emozionale non si sa bene che cosa debba accadere ma sembra – per come la cosa viene enfatizzata – che vi si dipanino tutte le possibilità affinché qualcosa accada, affinché si provi un qualcosa. L’emozionante, invece, sa che cosa vuole dire, dove andare a parare, sa che il suo operato avrà un preciso effetto sul possibile destinatario/fruitore. L’emozionante, in breve, ha dietro di sé una coscienza, una coscienza forte.
Questa, per chi produce immagini, deve essere legata ad almeno due elementi chiave. Il primo è di natura prettamente culturale, e di conseguenza progettuale: si deve aver chiaro in mente cosa si vuole dire, cioè, parafrasando Pasolini, si deve sapere di cosa si sta parlando per andare sapendo dove. La seconda questione, invece, basica, è di natura prettamente pratica: di solito chi si trova oggi a comunicare e a vivere attraverso il visuale, a meno che non abbia compiuto studi specifici, si barcamena con un linguaggio che – per un grande ritardo del nostro Paese – si è stati costretti a imparare da autodidatti. Da moltissimi anni si dice che l’insegnamento del linguaggio audiovisivo dovrebbe entrare nelle scuole. Purtroppo, ancora non lo ha fatto.
Così, sembra essere questo lo scarto che contraddistingue tale tipo di comunicazione (ma non solo questa): la mancanza di una coscienza autentica nella sua messa in atto. Ciò si traduce di conseguenza nella maggiore importanza che in tantissime delle immagini che ci circondano viene solitamente assegnata all’estetica più che al contenuto, al citazionismo più che all’originalità, al bisogno di costruire un qualcosa che colpisca forte e subito, qualcosa di virale si direbbe, rischiando poi di scomparire nel futuro più prossimo, piuttosto che rimanere nel tempo e diventare, magari, un’icona indelebile nella storia.
Per una didattica dell’immagine
La scuola, in tal senso, ha avuto un forte ruolo o, se vogliamo, una certa colpa. Sicuramente, essa non è stata in grado di cogliere la velocità della trasformazione in atto e, quindi, di incanalarla, magari facendola diventare una risorsa, da impiegare sempre in maniera critica, piuttosto che un qualcosa da subire passivamente. Questo – va detto – è avvenuto anche perché la comunicazione visuale è stata per troppo tempo considerata una comunicazione “di serie B” rispetto alla parola scritta.
Il momento dell’impiego di immagini nella didattica, sia che esse siano statiche o che siano in movimento, è tuttora vissuto come un attimo essenzialmente ludico all’interno di un processo ben più gravoso. Far accompagnare lo studio di un testo da illustrazioni o fotografie, o dalla visione di un documentario o di un film di finzione come approfondimento, crea, infatti, un momento sempre molto distensivo nello sviluppo dell’argomento trattato. Questo, però, succede perché ancora ci si accosta alle immagini con preconcetti errati e fuorvianti. Infatti, oltre che di facile fruizione e ludiche, per la consuetudine antica che le fa comunemente ritenere, in qualche modo, riproduttrici di realtà, un altro pensiero ancora molto diffuso e sbagliato è che esse siano a priori degne di fiducia [Burke 2011, 11-23]. Anche se oggi finalmente pure nella scuola qualcosa sembra star in tal senso cambiando, il legame che molti hanno con le immagini, soprattutto con quelle filmiche, sembra essere ancora figlio del vecchio adagio: “è vero perché lo ha detto la televisione”.
Si tratta di un rapporto che, come abbiamo detto, si fonda soprattutto sulla mancanza generale di strumenti critici che possano favorire una comprensione non superficiale di ciò che si guarda, e magari una conseguente sua messa in discussione. Piuttosto, negli ultimi anni si è assistito a un vero e proprio assorbimento passivo, sempre più continuo e metodico, di strumenti visivi e audiovisivi in tanti cicli di lezioni, ai quali ha finito addirittura per essere delegato in toto l’onore di accollarsi la trattazione delle tematiche più speciose. Gli esempi più immediati che vengono in mente riguardano l’adozione di film e fiction per spiegare argomenti particolarmente drammatici, e in Italia spesso vessati da inani polemiche, quali le foibe o la Shoah.
Peccati di ingenuità: un documentario
È curioso, in tal senso, il fatto che, in circa vent’anni di lavoro nelle scuole, due tra i film che abbiamo scoperto essere stati impiegati più spesso per far relazionare i ragazzi con lo sterminio degli ebrei siano stati un documentario e una storia di finzione tra i più discutibili mai realizzati nel loro approccio col tema. Stiamo parlando dell’opera premiata con l’Oscar Gli ultimi giorni (The Last Days, 1997) – diretta da James Moll e prima produzione della Survivors of Shoah Visual History Foundation (SSVHF) di Steven Spielberg, il grandissimo archivio visuale creato all’indomani del successo di Schindler’s List – La lista di Schindler (Schindler’s List, 1993) per collezionare e salvare le memorie di tutti i protagonisti della tragedia ancora in vita, qualsiasi sia stato il loro ruolo – e de Il bambino col pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, 2008), trasposizione di un romanzo di fantasia dell’irlandese John Boyne.
Parliamo un momento del primo lavoro. Esso si concentra sui racconti sconvolgenti di cinque sopravvissuti originari dell’Ungheria, in seguito trapiantati negli Stati Uniti e perfettamente integrati, che, come accade solitamente nei “film di testimonianza”, vengono posti davanti alla macchina da presa e fatti parlare liberamente in attesa di una reazione emotiva. Qui, però, essi sono anche portati a confrontarsi nuovamente con il proprio passato ritornando nei luoghi dell’orrore o venendo messi di fronte ai loro stessi aguzzini. Una delle sequenze più sconvolgenti del film vede la sopravvissuta Renée Firestone (che per molti anni si è poi dedicata proprio all’insegnamento della Shoah per il centro di Simon Wiesenthal) seduta a fianco del dottor Hans Münch, uno dei collaboratori di Mengele ad Auschwitz, che aveva compiuto sulla sorella della donna degli esperimenti di eugenetica. L’evasività con cui Münch risponde alle domande della Firestone è sinceramente imbarazzante. Ora, è questo specifico momento (anche se non sarebbe il solo) a dover suscitare qualche forte interrogativo in merito a ciò cui si sta assistendo e all’etica che dovrebbe essere insita in un documentario simile. Infatti, l’immagine della sopravvissuta che condivide l’inquadratura con il carnefice è assolutamente, e giustamente, emozionante e toccante. Tuttavia, ciò che doveva essere immortalato a ogni costo, perché sarebbe stato comunque un momento unico, era l’attimo specifico dell’incontro tra i due. Quale è stata la reciproca reazione nel trovarsi l’uno per la prima volta di fronte all’altro? Si vuole realizzare un film che documenti qualcosa – viene da chiedersi – o, piuttosto, che eliciti soprattutto forti emozioni?
Non si tratta di una domanda capziosa. Stiamo cercando di parlare di etica dell’immagine. E la storia del cinema è da sempre stata accompagnata da scritti memorabili in cui, davanti a quello che avevano visto sullo schermo, fini pensatori si sono posti questioni profondissime circa il senso di quelle riproduzioni, il loro rapporto con il reale, gli strascichi che esse lasciavano sugli spettatori… tutte questioni per le quali è stata tirata addirittura in ballo l’ontologia! [Bazin 1973] Allora, viene da chiedersi: chi oggi vede o fa vedere un’opera filmica è in grado di approcciarsi ad essa ponendosi le giuste domande?
Si consideri soltanto – dal momento che abbiamo tirato in ballo la Shoah – che è stato proprio il racconto dello sterminio degli ebrei, ad esempio, a spingere il cinema, nel corso dei suoi centotrenta e più anni di vita, a interrogarsi maggiormente su se stesso e sulle potenzialità del proprio linguaggio, su quali effetti esso aveva sul pubblico, a cambiare e modellarsi, per provare a capire, alla fine, quali forme potessero essere le più corrette per rappresentare ciò che molti sopravvissuti, invece, andavano sostenendo essere irrappresentabile [Wiesel 1978].
Peccati di ingenuità: un film di finzione
Diamo un’occhiata, adesso, anche a Il bambino con il pigiama a righe. Si tratta di un film che, a distanza di quasi dieci anni dall’uscita, ancora viene fatto vedere in tante scuole in occasione della Giornata della Memoria. Sicuramente è quello che tutto lascia pensare essere il più idoneo da proporre a un pubblico di ragazzi, anche piuttosto piccoli come possono esserlo studenti di scuola media. In fondo, esso, come la locandina illustra bene, parla di bambini.
In realtà, protagonista del film è soltanto uno dei due, quello che sul poster non indossa il “pigiama a righe” del titolo e che si chiama Bruno. Bruno è un ragazzino di appena otto anni che, a Seconda Guerra Mondiale da poco iniziata, in una Berlino inondata di bandiere naziste, ancora riesce a correre spensierato senza notare che attorno a lui delle persone sono fatte salire da uomini in uniforme su dei camioncini e portate via. Quindi, il bambino è totalmente incosciente delle persecuzioni contro gli ebrei. Del resto, lui sembra vivere in un’altra dimensione, circondato com’è dall’amore dei genitori e dalle loro risorse che gli garantiscono una vita agiata. Le cose cominciano a cambiare quando il padre, ufficiale nazista, è nominato comandante di un non meglio identificato campo di concentramento. Pertanto, l’intero nucleo familiare è costretto a traslocare lasciando la città per spostarsi in una zona rurale dove Bruno, spinto da una profonda fascinazione per l’esplorazione, conosce Shmuel, un bambino come lui, ma ebreo, che vive al di là del filo spinato del campo al quale si è avvicinato per gusto dell’avventura. Sempre per quello stesso spirito che lo ha condotto fin lì, il protagonista si fa passare dal nuovo amico un’uniforme da lavoro a righe analoga a quella che egli indossa e si spinge oltre la recinzione per andare a esplorare il mondo di quello finendo per trovare, assieme a lui e ad altri ebrei, la morte in una camera a gas. Nel frattempo i genitori, accortisi dell’accaduto, si danno a una corsa contro il tempo per cercare di salvare il loro bambino, invano.
Abbiamo dovuto ripercorrere il film per provare a rendere conto in maniera compiuta dell’ultima sequenza, oggetto principale delle nostre perplessità. Si consideri che, fino al finale, l’universo del bambino ebreo rimane ignoto. Le uniche cose che si intravedono di esso sono delle baracche lontanissime alle spalle di Shmuel quando i due bambini parlano a ridosso del recinto. Questo perché, per come ha funzionato la trasmissione della Shoah fino ad oggi, di esso lo spettatore conosce già tutto, poiché lo ha visto in tantissimi altri film e documentari. E anche gli spettatori più giovani percepiscono, comunque, che spingersi oltre il filo spinato rappresenta per il bambino tedesco un pericolo mortale. Pertanto, si partecipa tutti con una forte emozione al suo tentativo di salvataggio da parte del padre e della madre.
Il problema, però, è che mentre si prova una fortissima suspence sperando che i genitori di Bruno facciano in tempo a fermare l’intera macchina nazista, si accetta serenamente il fatto che Shmuel sia destinato a morire. Questo bambino, infatti, al pari del filo spinato, delle baracche sullo sfondo, del pigiama a righe, del cielo, che si è fatto sempre più cupo man mano che l’azione è avanzata, ha funzionato da semplice segno in quella che è una pura trasmissione di genere riguardo alla quale – come detto – già conosciamo tutto [Altman 2004, 311-325]. In breve, se l’unico dato che ci lega a Shmuel è quello che lo identifica come ebreo, cioè come uno dei sei milioni che sappiamo oramai bene essere stati vittima dell’orrore nazista, possiamo tranquillamente dare per scontato il fatto che egli, a differenza dell’amichetto, possa morire, e pertanto provare un totale disinteresse nei suoi riguardi.
Analizzando questo film, e soprattutto la sequenza conclusiva, si può capire bene quale sia la pericolosità di relegare (o potremmo ben dire comprendere) il racconto di un momento centrale della nostra contemporaneità in uno schema prefissato al fine ultimo di garantire soltanto una forte emozione, un’emozione che si rivela alquanto ambigua. Si noti, infatti, che proprio attraverso questo processo si è data attuazione pratica al celebre ammonimento lanciato da Primo Levi quando, nell’Appendice del 1976 al suo Se questo è un uomo, in riferimento a quanto lui stesso aveva vissuto, ha scritto: «Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare» [Levi 1989, 347]. Ed è quello che noi, in veste di spettatori, abbiamo appena fatto: abbiamo compreso e abbiamo giustificato.
Immagini innocenti
Il percorso che abbiamo compiuto all’interno delle due opere non nasce da giudizi di valore meramente soggettivi. Esso scaturisce, invece, da una visione critica condotta avvalendosi degli strumenti propri dell’analisi filmica e della filmologia [Casetti F. e Di Chio F. 1994; Bertetto P. (acd.) 2003; Nepoti R. 2007]. La parte ludica insita nella partecipazione emotiva a storie simili entra in secondo piano se ci proponiamo di considerare i film come testi da affrontare – al pari di qualsiasi testo – con la competenza che essi richiedono, ovverosia, in questo caso, quella cinematografica. Alla fine, come è avvenuto in questi esempi e come speriamo sia stato chiaro, c’è la possibilità che essi svelino una natura interiore molto diversa rispetto a quella apparente, più immediatamente percepibile da chiunque. In ogni modo, è un dato di fatto che le due opere che abbiamo scelto siano legate da un proposito comune: parlare al cuore. Esse, cioè, esigono che lo spettatore si rapporti a loro non tanto intellettualmente quanto, piuttosto, emotivamente.
Una riflessione particolare la vorremmo fare a questo punto sull’immagine che più di tutte si è imposta negli ultimi tempi nella coscienza collettiva, un’immagine che ha ancora a che fare con un bambino: il corpicino esanime steso sulla spiaggia turca del piccolo Aylan Kurdî, profugo siriano. Si tratta di una foto che, appena diffusa, ha sconvolto il mondo intero dando almeno un nome, una possibilità di personificazione, all’incontenibile dramma dei migranti. Nel suo orrore, è una foto di quelle che qualsiasi fotoreporter vorrebbe scattare. Alcuni suoi elementi fortuiti (la posa del piccolo, ma soprattutto l’acceso colore dei suoi indumenti) la rendono narrativamente parlando molto potente. Infatti, nel giro di pochissimi giorni, essa è stata pure rielaborata in chiave artistica da svariate figure come Al Weiwei o Franko B, in un’esposizione, quest’ultimo, dal per noi significativo titolo Death and Romance in the XXI Century. Cosa c’entra, infatti, una cosa oggettiva come la morte di un bambino con una passione soggettiva quale l’amore idealizzato?
La foto di Aylan Kurdî è stata sin da subito anche al centro di dibattiti dal carattere complottista dove è stata messa in risalto la possibilità che il piccolo fosse stato in origine trovato altrove lungo la stessa spiaggia, e poi piazzato lì, in quel modo, a bell’apposta, in una posa impeccabile e accattivante. Il gioco facile che hanno avuto questi discorsi nasce dalla “perfezione” che abbiamo già evidenziato dell’immagine che è stata trasmessa. Tuttavia, si noti bene, essa scaturisce comunque da una manipolazione, seppur minima, che è stata fatta sull’originale. Infatti, la foto, da principio, non contempla il solo bambino, ma include due figure di militari alla sua destra che, accorsi sul luogo, si stavano accingendo a prendersi cura del corpicino. Attraverso un semplice crop, la cronaca di un momento drammatico si è trasformata nella creazione ed elevazione di un simbolo potentissimo, al quale, appunto, è stato subito demandato il compito di raccogliere su di sé il dramma immane di centinaia e centinaia di migliaia di persone. In questo caso un documento oggettivo si è trasformato subito in elemento emozionante, consapevole di sé e della propria forza.
Ma qui, come nei due film di cui abbiamo parlato, ci troviamo in un campo differente da quello dell’espressione artistica da cui siamo partiti: siamo in quello della trasmissione e formazione di memoria storica, un campo da gioco ben diverso. Che effetto può avere trasmettere qualcosa di così drammatico e oggettivo giocando – come ha colto bene Franko B – sull’azione che questo può esercitare nella soggettività passionale di chi guarda?
Come ogni cosa davvero “alta”, in quest’epoca di immediatezza, di viralità e anche di saturazione, nella quale, in tempo reale, abbiamo pure conoscenza di tragedie di paesi di cui fino a pochi anni fa ignoravamo persino l’esistenza, ecco puntualmente compiersi la sua dissacrazione, la sua messa in discussione, o – come abbiamo detto poco sopra accennando a chi metteva in dubbio l’autenticità della foto di Alan – anche la sua negazione. I social network in tal senso sono un’arena incredibile nella quale – oltre a compiersi molte cose indubbiamente positive – vediamo fatti e dati oggettivi costantemente sottoposti allo stress di forti personalismi (il social network si basa sul personalismo!) che sovente sfociano nel narcisismo. Da qui la gara ad essere più originali, più pungenti, più “mi piacibili” degli altri, poco importa a quale costo. In tal senso, chi ha messo subitamente in rete il meme – come vengono comunemente chiamati alcuni fenomeni dell’Internet contraddistinti dalla riconoscibilità e riplasmazione degli elementi in gioco – che ha accostato il bambino curdo al Pinocchio disneyano, riverso in una pozza d’acqua, in una posa pressoché simmetrica, e con indosso vestiti assolutamente simili, merita sicuramente una menzione particolare.
Modelli tragici
Aggiungiamo, poi, che il successo virale di un’immagine o di un video fa immancabilmente sì che quelli diventino modelli per racconti analoghi. Di Omran Naqdeesh, ad esempio, altro bambino siriano, lui rimasto soltanto ferito in un bombardamento russo sotto il cielo di Aleppo nell’Agosto 2016 e ripreso in un video sanguinante, sporco di calcinacci, seduto in un’ambulanza, i media hanno tentato di fare un “secondo Aylan”, avvalendosi questa volta di un’immagine ancora più manipolata, se vogliamo anche imprecisa nei suoi contorni, imperfetta, ovverosia il particolare di un fermo immagine video, che, regolarmente, è stato poi sottoposto, in qualche modo, a riplasmazioni artistiche o polemiche. Come chi legge può facilmente percepire, parliamo di nomi assai presto scomparsi dalla memoria collettiva e di immagini immediatamente sbiadite, soffocate come sono da altre che, nel profluvio generale, occupano già il loro posto facendoci sentire incapaci di affrontare il presente, inutili di fronte al dramma generale che ci circonda. In qualche modo, rispetto al reale, sembra essere molto meglio rimanere al sicuro, barricati dietro uno schermo.
Tale tipologia di comunicazione, comunque, ovviamente continua. Nel numero 41 della rivista Left, ad esempio, uscito nell’ottobre 2016, essa raggiunge un curioso e schizofrenico apice, svelando involontariamente anche la sua matrice primaria. Scriviamo “schizofrenico” perché una vignetta di Mauro Biani all’interno del magazine, nella quale si vedono vari soggetti muoversi accompagnati da dei palloncini raffiguranti il corpicino di Aylan Kurdî, e si sottolinea con una didascalia che «Diventare icona è sempre una fregatura», racchiude bene quanto vogliamo qui sostenere ma che la copertina stessa contraddice subito, diventando oggetto anch’essa, automaticamente, del sarcasmo di Biani. Come hanno fatto nel frattempo anche altri giornali e riviste, cartacei e digitali, ecco, infatti, che il dramma siriano viene espresso ancora una volta attraverso le immagini drammatiche ed emozionanti di un innocente. Stavolta una bambina che, vestita di rosso, con una benda in testa e ferite su un braccino e una guancia, guarda quasi verso il lettore. Al suo fianco una scritta palesa cosa quel soggetto rappresenti: l’ «Olocausto Siria».
Tale titolo non solo esplicita un ulteriore competitor in quella “concorrenza tra vittime” di cui ha scritto Jean-Michael Chaumont [Chaumont 1997] che, dato il fortunato processo di memorizzazione della Shoah per come si è andato sviluppando negli ultimi trent’anni, ha visto ogni genere di vittima equiparata agli ebrei perseguitati e sterminati dai nazisti (vogliamo ricordare che persino gli sfollati del terremoto de L’Aquila hanno avuto modo, nel 2010, di essere paragonati loro in un film televisivo di Pasquale Squitieri), ma rende anche assolutamente palese che modello di riferimento di tale comunicazione, ancora una volta, resta la bambina con il cappottino rosso di Schindler’s List, ovverosia quello che negli ultimi vent’anni è diventato il simbolo per antonomasia di tutto il cinema della Shoah (e, come abbiamo costatato, non solo di quello) proposto da un film che è diventato un modello di sintassi per l’intero genere di film sullo sterminio (pure per Il bambino con il pigiama a righe, dove la sequenza della camera a gas è riplasmata su quella analoga centrale nell’opera di Spielberg che è stata al centro di fortissime critiche [Bratu-Hansen 1997, 80].
Tutto fluisce, tutto va di fretta. Le immagini, abbiamo visto, ci scorrono addosso come l’acqua della doccia. Fermarle pare impossibile. Guardarle criticamente, invece, è qualcosa che si può fare. Anzi, che oramai si deve fare. A tutti i costi. E’ una questione di responsabilità.
Al pari di quelle della grammatica linguistica, ci si deve comunemente appropriare delle regole, dei meccanismi e degli strumenti della comunicazione visiva e audiovisiva, perché in questo mondo adesso si parla soprattutto così. Questo con la recondita speranza che poi si riesca tutti a parlare sapendo di che per andare sapendo dove.
Bibliografia
- Altman R. 2004, Film/Genere, Milano: Vita & Pensiero (ed. or. 1999)
- Bazin A. 1973, Che cos’è il cinema?, Milano: Garzanti
- Bertetto P. (acd.) 2003, L’interpretazione dei film, Venezia: Marsilio
- Bratu-Hansen M. 1997, Schindler’s List Is Not Shoah – Second Commandment, Popular Modernism, and Public Memory, in Y. Loshitzky (acd.) 1997, Spielberg’s Holocaust, Bloomington – Indianapolis: Indiana University Press
- Burke P. 2011, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini, Roma: Carocci
- Casetti F. 2015, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema, Milano: Bompiani
- Casetti F. e Di Chio F. 1994, Analisi del film, Milano: Bompiani
- Chaumont J.-M. 1997, La Concurrences des victimes. Génocide, identité, reconnaissance, Paris: La Découverte
- Levi P. 1989, Se questo è un uomo / La tregua, Torino: Einaudi, Torino 1989, p. 347
- Nepoti R. 2007, L’illusione filmica. Manuale di filmologia, Torino: UTET
- Wenders W. e Zournazi M. 2014, Inventare la pace. Dialogo sulla percezione, Milano: Bompiani
- Wiesel E. 1978, Trivializing the Holocaust: Semi-Fact and Semi-Fiction, “New York Times”, 16 aprile