Le parole che non ti ho detto: musei diffusi e persone
Foto dell’autrice
Abstract
Dal dialogo tra Elisabetta Ruffini e Paola Boccalatte sull’asse storia e musei sono emersi alcuni movimenti. Temi e nodi che ora seguono la corrente, ora si fanno trattenere da asperità e baluardi. Idee, strategie, spesso parole d’ordine, che informano il lavoro quotidiano degli operatori e delle operatrici museali nonché delle professionalità del mondo dell’educazione e della ricerca.
La progettazione dei percorsi museali oggi dovrebbe essere in grado di attraversare le frontiere tra le discipline e tra i tempi storici per pensare al museo come spazio in cui i tempi entrano in cortocircuito, nel tentativo di suscitare nel visitatore la domanda sul dove si trova e perché si trova lì. C’è quindi un’esigenza di concretezza nel pensare e forgiare gli spazi. E allora forse di fronte a questa concretezza possiamo permetterci una prima domanda molto astratta, che ci aiuti a definire l’idea di “museo diffuso”.
Negli ultimi decenni i musei hanno adottato acronimi, cioè nomi formati unendo le lettere o sillabe iniziali di più parole. Facili da memorizzare e da citare, più o meno ben riusciti e comunicanti, gli acronimi sembrano essere la soluzione preferenziale per raccogliere in pochi fonemi intitolazioni spesso lunghe, complesse, dalla storia stratificata. Tale contrazione costituisce un espediente di comunicazione che avrebbe l’intento di modernizzare, ‘svecchiare’ l’immagine dell’istituzione museale. Ne fanno le spese congiunzioni e preposizioni ma talora anche aggettivi pieni di senso, come “civico”, “nazionale” – che riferiscono significativamente collezioni, sedi e programmi a un’intera e ampia comunità – o specifiche disciplinari, elementi considerati ormai distanzianti e poco amichevoli.
A questa linea poietica quasi esclusiva, che forse arriverà a saturazione, si sono talora sottratte istituzioni che si occupano di storia del Novecento e che della complessità del proprio nome hanno fatto un orgoglioso manifesto. È il caso, per esempio, del Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino, per il quale ho avuto l’onore di lavorare per alcuni anni. Il nome, ricco di sostantivi di peso, testimonia della ricchezza di affluenti – fra intenzioni e compromessi – che concorsero al suo concepimento alla fine del secolo scorso.[1] Ma esprime anche un’indicazione di percorso chiara, una visione che dal 2003 – anno dell’inaugurazione – si è concretata in attività di disseminazione, esposizioni temporanee e programmi, ora di marca più tradizionale, ora nel segno della Public History.
Il Museo diffuso di Torino è costituito da un centro di interpretazione con un percorso multimediale interattivo[2] e da una rete di una ventina di luoghi distribuiti sul territorio urbano che raccontano ognuno un capitolo della storia della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà nella Torino fra il 1938 e il 1948.[3] Tali luoghi non sono di proprietà dell’istituzione museale né sono da essa gestiti direttamente ma costituiscono piuttosto una partitura che il centro di interpretazione è in grado di leggere in una narrazione coerente, documentata, rigorosa. A queste si potrebbero poi aggiungere tutte le tracce memoriali che la città conserva in ogni quartiere, dalle lapidi dedicate ad antifascisti e partigiani[4] alle pietre d’inciampo.[5] Nella denominazione è poi presente l’aggettivo “diffuso[6]”, che nel linguaggio abbreviato degli addetti ai lavori ha finito per essere la parola che più rapidamente identifica il museo. Ma al di fuori di questo limitato consesso, questo aggettivo non è sempre stato compreso e ha talora ingenerato qualche esitazione penalizzante. Il suo arco semantico, infatti, dalle maglie sufficientemente larghe e quindi denso di possibilità per i professionisti del settore, pare invece essere tutt’altro che trasparente per altri, che nell’accostamento tra le due parole “museo” e “diffuso” possono perfino percepire un ossimoro.
Questa possibile criticità è stata verificata dal Museo della Resistenza di Torino quando, nel 2021, si è rivolto al proprio pubblico potenziale[7] per capire quali aspetti del Museo costituissero un ostacolo o un freno alla sua fruizione: nel rapido sondaggio si chiedeva, fra l’altro, cosa significasse, secondo il/la rispondente, l’espressione “museo diffuso”. Il 61% delle persone intervistate ha risposto “un museo con uno stretto rapporto con il territorio”, il 16,5% “un museo con tante sedi”, l’8,5% “un museo che non ha una sede”, l’11% ha dichiarato di non conoscerne il significato mentre secondo il 3% il museo diffuso non sarebbe neppure un vero e proprio museo. Una percezione diversificata e critica che si somma al tema più ampio del significato della parola “museo”, che, sebbene solidamente definita dagli specialisti[8], appare tutt’altro che risolta definitivamente, ma sempre tesa e contesa anche da soluzioni eterodosse e talora opportunistiche.
Una parola, diffuso, tutt’altro che autoevidente. Un’espressione usata in tanti contesti – concerto diffuso, albergo diffuso, festival diffuso ecc. – un po’ a sproposito, verrebbe da pensare. Ma la lingua è in continuo mutamento, espressione delle nostre tensioni, delle nostre torsioni, che a volte poi si sciolgono e risolvono.
Il sintagma “museo diffuso” gode però oggi di una rinnovata fortuna nella definizione di iniziative di diversa natura e portata. Ne cito alcuni, i più recenti, nati in questi primi complessi anni Venti. Il Museo diffuso di Sansepolcro, per esempio, costituisce un progetto temporaneo di turismo responsabile che nel 2021 offre percorsi gestiti da guide certificate che portano alla scoperta di personaggi, storie, memorie e luoghi con il contributo di chi vive attivamente il territorio.[9] Di analogo sapore sembra il progetto MuDeCa, il Museo diffuso di Cavriago, che sovrapponendosi al concetto di ecomuseo, si descrive come uno strumento che serve a «rafforzare i legami identitari, a mantenere vive le comunità, a diffondere nuove idee, a costruire nuovi riferimenti culturali e ad aiutare i singoli a sentirsi parte di un progetto comune di vita e di sviluppo».[10] Anche in questo caso, come in quello di Carate Brianza (MUDIC), si tratta di percorsi di interpretazione e messa in valore del patrimonio del territorio, con una missione connotata del concetto scivoloso e seducente di “identità”. Vi è poi il Museo diffuso contemporaneo di Matera (MuDiC), che si avvale di più sedi in cui distribuire le opere delle proprie esposizioni temporanee. E poi il Museo diffuso dei Cinque sensi di Sciacca, che nasce nel 2020 con la Cooperativa di Comunità “Identità e Bellezza”; la missione di valorizzazione del territorio è qui accompagnata da una definizione di “museo diffuso”, inteso come museo a cielo aperto: «ogni elemento della città, comprese le persone con le loro storie, rappresenta il nostro inestimabile tesoro, pronto ad essere condiviso con chiunque venga a trovarci».[11] Nel 2024 è infine attesa la nascita del Museo diffuso della Resistenza di Firenze, un’esposizione di oggetti e documenti distribuita su più sedi – le undici biblioteche comunali – pensata in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza.[12] Ecco dunque rappresentate, in queste declinazioni, le diverse risposte che appartengono all’immaginario del pubblico potenziale del Museo.
Vi sono poi i musei diffusi di Finale Ligure, di Forlì, di Velletri e così molti altri progetti – temporanei o permanenti – che hanno in comune una lettura diacronica e multidisciplinare del patrimonio del territorio che non irradia necessariamente da una sede con una collezione ma che situa i propri dispositivi di interpretazione come una punteggiatura negli spazi della città.
In una breve voce del Dictionnaire de Muséologie, di recente pubblicazione, si nota come in Italia il termine “museo diffuso” descriva la presenza diffusa del patrimonio culturale sul territorio che si concretizzi in una forma di museo estesa al territorio urbano o rurale organizzata intorno a un centro d’interpretazione.[13] Ne racconta, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, Fredi Drugman, ammettendone la paternità non esclusiva e articolando le proprie considerazioni non solo intorno alla topografia del museo bensì ancheintorno alla sua componente sociale. È molto interessante la notazione di Drugman secondo la quale il museo diffuso troverebbe
giustificazione soltanto nel fatto di radicarsi in una comunità operante consentendole di conoscersi appieno, di appropriarsi della propria storia e del proprio presente, di generare nuova storia, creando connessioni multiple e produttive con altre comunità.[14]
E proprio in questo richiamo a una “responsabilità civica” della popolazione che sembrano concentrarsi oggi gli sforzi più interessanti delle comunità patrimoniali locali.
Pur nella diversità di accenti, si osserva un secondo elemento in comune: il ruolo delle persone, professionisti del patrimonio affiancati da una comunità permanente e fluida che di quel patrimonio si prende cura attivamente. Una comunità che risponde alle sollecitazioni date già nel 2005 dalla “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società” (Convenzione di Faro),[15] ratificata dall’Italia solo nel 2020.
A mio giudizio un museo diffuso è un dialogo, è un movimento. È un museo che ha una grande fiducia nelle persone, e nella relazione diretta con gli oggetti patrimoniali e con le storie che essi raccontano. Un museo diffuso, prima di definirsi in modo conclusivo prenderà una quantità di strade bianche non presenti sulla mappa e si perderà e finirà tra le sterpaglie e pioverà pure, probabilmente. È un museo che sceglie di giorno in giorno come far crescere il proprio “noi”, che preferisco a “identità”, altra parola ricorrente alla quale prestare molta attenzione.
Nel momento in cui si ammette che ogni luogo è potenzialmente oggetto di interesse e fa parte del patrimonio, allora la palla torna all’équipe, torna ai professionisti museali e a coloro che in vario modo operano come interpreti, come mediatori di quel patrimonio, chiamati al ruolo delicatissimo ed esaltante di lettura e cura del patrimonio culturale.
Le parole “jolly” come diffuso, perché conoscono tanta fortuna? Forse ci sembra condensino in sé una complessità di cui in realtà perdiamo poi consapevolezza. Questa auspicata condivisa consapevolezza si scontra però con l’incontrollabilità del simbolico; più una parola diventa iconica meno è specifica, leggibile e nitida. Si usa per riconoscersi, per lanciarsi un messaggio tra colleghi, nel migliore dei casi, parole veloci che si rischia di applaudire per fideismo più che per convinzione. Ma gli attrezzi degli scienziati sociali, dice Francesco Remotti, e degli umanisti in genere, aggiungerei,
di rado godono di una verifica empirica immediata, come può essere per un martello o un cacciavite. I nostri attrezzi sono fatti di parole, concetti, la cui consistenza teorica e la cui utilità non sono di istantanea intuizione, e di nozioni talvolta vaghe e allusive.[16]
Nell’ambito di questa riflessione, allora, come si colloca il Museo di Casa Cervi? Credo sia banale ricordare che ogni luogo di memoria è dentro allo scorrere del tempo e più specificatamente ogni luogo di memoria è una stratificazione di tempi e storie, deposito che evolve nel tempo.
Nell’allestimento che avete previsto è evidente il tentativo di creare un cortocircuito tra tempi a partire dalla volontà di innescare nel pubblico nel senso più vasto – intendendo sia chi ci sta per una visita veloce, chi viene a fare un seminario, chi ci lavora… – un processo di costruzione della consapevolezza della propria posizione nel tempo e rispetto al proprio tempo.
Nella costruzione del nuovo percorso del Musei Cervi, Massimo Venegoni e io abbiamo cercato di essere lievi e di non suggerire le nostre “parole d’ordine” ma di provare ad ascoltare quelle degli altri. Per questa ragione abbiamo voluto[17] effettuare alcuni focus group con portatori di interesse importanti per il Museo, i suoi primi pubblici: i lavoratori e le lavoratrici dell’Istituto Cervi, la famiglia Cervi, i volontari e le volontarie, le istituzioni e le associazioni locali, le insegnanti delle scuole del territorio. Abbiamo cercato di capire quale rapporto il Museo già istituisse o volesse istituire con il paesaggio e con la contemporaneità, quanta parte della luce e dei suoni del mondo esterno volesse far penetrare dalle finestre e dalle porte. È emerso dunque chiaramente che oltre, o meglio in mezzo, al patrimonio materiale e immateriale del Museo c’erano le persone, e che dalla qualità e dal peso delle intenzioni delle persone in quel luogo sarebbe dipeso il senso ultimo di quel luogo. Le persone, nel significare e risignificare i luoghi quotidianamente avrebbero costruito esse stesse quello spazio storico complesso e complessificabile; la quotidiana reinterpretazione di quella narrazione, da parte di soggettività diverse sulla base di una ricostruzione storica scientificamente e solidamente sostenuta, ci avrebbe accompagnati in quel processo di reinvenzione del Museo Cervi.
Massimo Venegoni, architetto di grande esperienza ma soprattutto di rara sensibilità e capacità di ascolto, riflettendo sulle aspettative del pubblico e su cosa davvero sia l’accessibilità nel linguaggio museale, osservava come si chieda sempre più spesso ai dispositivi di farci sentire “immersi” con strategie multimediali e digitali sempre più raffinate e mimetiche, suscitando meraviglia e straniamento. È una volontà che risponde anche alle strategie di accessibilità, che intendono eliminare il più possibile le barriere che ci distanziano dai contenuti del museo, non solo in termini architettonici, ma anche rispetto a tutto ciò che sentiamo come altro da noi, che non ci “riguarda”, non ci tocca, non ci appartiene. Ma quando si lavora sui “paesaggi della memoria” e quando ciò che è fuori dal museo si fonde con la narrazione storica, la cosa migliore che si può fare è creare un museo immerso, più che un museo immersivo, una porosità, una corrente, invece di un congegno che ci isola da ciò che ci circonda. Si tratta, dice Venegoni, di non interrompere, non recidere quel dialogo, quella corrispondenza con il paesaggio. Che poi altro non è che la risposta a ciò che afferma Italo Calvino: «La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone».[18]
Quindi chi ridisegna un museo deve assumere come primaria la centralità delle persone, del pubblico e dei lavoratori e delle lavoratrici. Il pubblico non solo inteso come ascoltatore di una storia ma come portatore consapevole di un posizionamento nel tempo. Abbiamo cercato di realizzarlo al centro della sala dedicata alla Storia, in un dispositivo che è rimasto in realtà un po’ non-finito, in cui volevamo che l’individuo si trovasse solo con se stesso in uno spazio riservato e confidenziale ad ascoltare idealmente “la propria voce”. Dare tanto spazio alle persone e alla loro possibilità di posizionarsi rispetto a una storia, a un tema, a una sfida, a un problema, mette in scacco l’idea di museo come portatore di identità, evocando forse quella di luogo come confronto tra soggettività.
La centralità del pubblico oggi per la comunità dei professionisti museali è un ritornello talmente frequentato che quasi non si pronuncia più, abituati come siamo a dover essere sempre portatori di novità e di innovazione, a essere quei “dottor Niù”, di cui raccontava Stefano Benni più di vent’anni fa.
Quindi si tratta di mettere il proprio corpo nella storia, in un determinato spazio, di fronte a un determinato oggetto come un atto di messa in discussione del modo di guardarsi, di intendere il rapporto tra una soggettiva determinata e il passato, il presente e forse il futuro. È un atto che può innescare rivoluzioni. Innanzitutto, a partire dalla riflessione sul patrimonio materiale, sulla sua definizione e dal rapporto che possiamo istituire con esso. Non si tratta di pensare ai luoghi come recinti di una sacralità civile, né gli oggetti come cimeli, ma come spazi di incontro e di confronto tra temporalità diverse. Ogni visita è allora un confronto con le storie degli altri, un apprendimento all’ascolto delle storie degli altri per scoprire la propria storia fatta, intessuta con le storie degli altri. E quando dico altri, intendo i protagonisti/e delle vicende storiche evocate, ma anche i curatori e le curatrici, gli/le insegnanti, chi ci accompagna al museo.
In secondo luogo, tu dici spesso che la visita a un luogo, il confronto con un oggetto è o dovrebbe essere l’occasione di suscitare domande e non dare risposte. Possiamo dire che è l’occasione per allenarsi a continuare una storia, allenarsi a quella pratica che per Benjamin era dell’uomo di buon consiglio, quando il consiglio intessuto nella stoffa di una vita è meno la risposta a una domanda che appunto la continuazione di una storia. Quindi forse per essere più precisi, non si tratta tanto di pancia e testa, ma di avere l’occasione per affinare la consapevolezza della forza dell’intreccio tra intelligenza e immaginazione.
In una presentazione della guida al museo che abbiamo fatto a Reggio Emilia volevo dire molte cose, mi ero appuntata molte note sui ragionamenti fatti e i movimenti che hanno portato a questo allestimento. Poi ho preferito dire altro e parlare di persone. Ho parlato di un partigiano torinese che ho avuto l’onore di conoscere e che è recentemente scomparso, e ho parlato del lavoro delle persone. Secondo me non si parla abbastanza del fatto che un museo è il prodotto del lavoro di un gruppo di persone di cui per lo più si ignora l’esistenza. C’è un mondo di competenze, di volontà e di corpi che abitano il museo prima che le porte si aprano al mattino e dopo che queste si chiudono. Parlare di musei non può che essere parlare di storia del lavoro. Essere in un museo o in un luogo di memoria per me, dunque, è essere circondata da persone e dal lavoro e dalle idee di quelle persone. E al Museo Cervi questo è due volte evidente. Perché è un museo dedicato alla memoria di alcune persone ed è luogo di lavoro, studio, incontro.
Massimo Venegoni e io, ridisegnando il museo insieme alla sua équipe, abbiamo immaginato un percorso su due livelli, uno per “conoscere” e uno per “rielaborare”, in un intreccio tra intelligenza e immaginazione. Questo era l’obiettivo che ci siamo dati partendo dai principi dell’interpretazione di Freeman Tilden. Tilden, in un’opera uscita in prima edizione nel 1957[19] e rimasta riferimento fondamentale per chi lavora nel nostro settore, enuncia un metodo che scandisce in alcuni punti:
- qualunque interpretazione che non si relazioni in qualche modo con la personalità o l’esperienza del visitatore sarà sterile.
- L’informazione, di per sé, non è interpretazione. L’interpretazione è rivelazione basata sull’informazione. Ma sono cose del tutto diverse. Comunque, tutte le interpretazioni contengono informazioni.
- L’interpretazione è un’arte che combina molte arti, siano i materiali presentati scientifici, storici, architettonici. Ogni arte in qualche modo si può insegnare.
- L’obiettivo più importante dell’interpretazione non è quello di istruire ma di provocare.
- L’interpretazione dovrebbe puntare a presentare un intero tema piuttosto che una sua parte, e deve rivolgersi all’essere umano nella sua interezza piuttosto che a una sua fase.
- L’interpretazione indirizzata ai ragazzi […] non dovrebbe essere una versione diluita della presentazione offerta agli adulti ma dovrebbe seguire un approccio del tutto diverso. Per funzionare al meglio necessita di un programma a parte.
E poi non potevamo non pensare a Vittorio Foa. Vittorio Foa – antifascista politico storico, sindacalista classe 1910, con una storia interessantissima che tiene insieme Emilia e Piemonte – in premessa a Questo Novecento[20] scrive della necessità, lavorando su storia e memoria, di agganciare le domande e il vissuto espressi dalle nuove generazioni:
Soprattutto i giovani e i giovanissimi hanno oggi altri problemi, hanno insicurezze sconosciute alla mia generazione, insicurezze che rendono difficile progettare la vita e sembrano quindi rendere inutile la storia. […] La memoria altrui ha un senso solo se elaborata sulle domande proprie.
E quindi parliamo di scelte, di argomenti, di dispositivi di comunicazione, di oggetti, di spazi. L’interpretazione è una scelta. E dove c’è scelta non c’è neutralità.
Torniamo alle parole, al Museo che ci porta a riflettere sul perché abbiamo deciso di mettere il nostro corpo lì e non altrove. Il che significa consapevolezza delle scelte. L’esclusione del concetto di neutralità di cui parli mette in evidenza molto chiaramente quello che chiedi al visitatore, sapere dove mi posizioni io rispetto alla storia che evoco e rispetto al presente che sto vivendo.
Ho ragionato spesso con i colleghi storici sulla neutralità nei musei e raramente abbiamo trovato un accordo soddisfacente. Forse per una inevitabile e utile differenza di angolazione. Ma questa presunta collisione in realtà tale non è. Un fatto storico è neutro, la sua interpretazione non può esserlo perché è frutto di un’elaborazione umana. Non entrerò in questo difficile dibattito per il quale sarebbero necessarie molte precisazioni. Ma lavorando per il Museo Cervi, che ha fatto dell’impegno su tanti piani la propria cifra di attivazione, mi è capitato spesso di tornare alle parole di Suay Aksoy, già Presidente ICOM (International Council of Museums):
I musei non sono neutrali. Non lo sono mai stati e mai lo saranno. Non sono separati dal proprio contesto sociale e storico. E quando sembra che lo siano, non si tratta di neutralità, bensì di scelta. Scegliere di non parlare dei cambiamenti climatici non è neutralità. Scegliere di non parlare di colonizzazione non è neutralità. Scegliere di non sostenere l’uguaglianza non è neutralità. Sono scelte, e possiamo farne di migliori.[21]
Scelta. Anche questa una parola su cui siamo inciampati e su cui continueremo a inciampare.
Bibliografia
- F. Tilden, Interpreting Our Heritage [1957], Chapel Hill – The University of North Carolina Press, 1984
- V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996
- S. Aksoy, Museums do not need to be neutral, they need to be independent, intervento alla conferenza annuale 2019 del Cimam (International Committee for Museums and Collections of Modern Art), Sidney, Museum of Contemporary Art Australia [https://icom.museum/en/news/museums-do-not-need-to-be-neutral-they-need-to-be-independent/]
- A. C. Quatremère de Quincy, Lettere a Miranda, a cura di Michela Scolaro, Minerva Edizioni, 2002
- L. Guadagnucci, Camminare l’antifascismo. La memoria come ribellione all’ordine delle cose, Edizioni Gruppo Abele, 2022.
- P. Pezzino, Guerra, resistenze e memoria in Italia, in “Paesaggi della memoria. Resistenze e luoghi dell’antifascismo e della liberazione in Italia”, Edizioni ETS 2018.
Note:
[1] G. Vaglio, A Museum of the Resistance in Turin, in Museums and Universal Heritage. History in the Area of Conflict Between Interpretations and Manipulation, a cura di M.P. Jungblut e R. Beier de Haan, ICMAH 2008, pp. 90-95.
[2] Torino 1938-1948. Dalle Leggi razziali alla Costituzione. Indicazioni di percorso, Museo diffuso della Resistenza 2010 [rist. agg. 2021].
[3] I luoghi della memoria. Torino 1938-1945, Museo diffuso della Resistenza 2011.
[4] Che il silenzio non sia silenzio. Memoria civica dei caduti della Resistenza a Torino, cura di N. Adduci, B. Berruti, L. Boccalatte, Istoreto 2015.
[5] Le pietre d’inciampo. Gunter Demnig accademico d’onore, a cura di A. Ripetta, Prinp 2023.
[6] Per una disamina del tema, con bibliografia precedente, cfr. D. Jalla, Musées et territoire. Une perspective italienne, “Culture & Musées”, 39, 2022, pp. 348-361.
[7] L. Baldetti, “Buongiorno, sono il Museo Diffuso, facciamo conoscenza?” Indagine sul Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino, in Studi empirici di educazione museale, a cura di A. Poce, Ed. Scientifiche Italiane 2023, pp. 35-48.
[8] https://www.icom-italia.org/definizione-di-museo-scelta-la-proposta-finale-che-sara-votata-a-praga-2 [consultato il 2 gennaio 2024]
[9] https://www.casermarcheologica.it/progetti/museodiffusosansepolcro [consultato il 2 gennaio 2024]
[10] https://www.comune.cavriago.re.it/multiplo/progetti/museodiffuso [consultato il 2 gennaio 2024]
[11] https://www.sciacca5sensi.it/home [consultato il 2 gennaio 2024]
[12] https://quartieri.comune.fi.it/dalle-redazioni/museo-diffuso-della-resistenza [consultato il 2 gennaio 2024]
[13] D. Jalla, s.v. Museo diffuso, musée diffus, in Dictionnaire de Muséologie, a cura di F. Mairesse, Armand Colin / ICOM 2022, p. 427.
[14] F. Drugman, Il museo diffuso in recenti esperienze italiane, in Lo specchio dei desideri. Antologia sul museo, a cura di M. Brenna, Clueb 2010, pp. 85-91.
[15] https://www.coe.int/it/web/venice/faro-convention [consultato il 2 gennaio 2024]
[16] F. Remotti, L’ossessione identitaria, [2010] Laterza 2017, p. 104.
[17] P.E. Boccalatte, M. Venegoni, Il progetto, l’idea, il valore, in La scelta della libertà. Museo Cervi il percorso di visita, a cura di C. Silingardi, P. Varesi, M. Zanoni, Museo Cervi 2022, pp. 8-16.
[18] La frase è ripresa nel film che accompagna il libro Paesaggi della Memoria, a cura di P. Pezzino, Edizioni ETS 2018.
[19] F. Tilden, Interpreting our Heritage [1957], The University of North Carolina Press 3a ed. 1977, p. 9. Traduzione PEB.
[20] V. Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Torino 1996.
[21] Dall’intervento alla conferenza annuale 2019 CIMAM (International Committee for Museums and Collections of Modern Art), The 21st Century Art Museum: Is Context Everything? Sidney, Museum of Contemporary Art Australia https://icom.museum/en/news/museums-do-not-need-to-be-neutral-they-need-to-be-independent [consultato il 2 gennaio 2024] Traduzione PEB.