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L’uso delle fonti per un laboratorio teatrale sulla storia

L’uso delle fonti per un laboratorio teatrale sulla storia

Abstract

La narrativizzazione di contenuti non-fictional, o saggistici – e cioè il processo attraverso il quale informazioni di ordine scientifico o pubblicistico sono trasmesse con l’uso di trame narrative, copioni e interpretazioni attoriali –, costituisce uno tra i filoni di maggiore impatto dell’offerta culturale e teatrale degli ultimi lustri. Si tratta, senza dubbio, dell’esito di un bisogno diffuso di “oralità” nella sua dimensione di fabula che si fa leggere come reazione alla colossale babele dei flussi informativi che viaggiano sui canali rapidi e incorporei della connettività globale.
L’articolo propone una riflessione su questi temi, a partire dalla conferenza-spettacolo dal titolo Un percorso di diritti, fra natura e storia, curata dagli autori in collaborazione con l’Istituto Storico Parri di Bologna. Un esempio di come la forma più elementare e primigenia della public history, che non a caso spesso viene accostata alla divulgazione, possa presentare diversi limiti e necessiti di essere accostata a una forma più intensa di coinvolgimento del pubblico, che non è più solo spettatore passivo ma attore del processo di narrazione storica e culturale.

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The narrativization of non-fictional content, or essays – meaning the process through which scientific or journalistic information is conveyed using narrative plots, scripts, and dramatic interpretations – constitutes one of the most impactful trends in cultural and theatrical offerings in recent years. It is undoubtedly the result of a widespread need for “orality” in its storytelling dimension, which is read as a reaction to the colossal babel of informational flows traveling through the rapid and intangible channels of global connectivity. The article proposes a reflection on these themes, starting from the conference-performance titled “A Journey through Rights, Between Nature and History,” curated by the authors in collaboration with the Parri Institute of Bologna. It serves as an example of how the most elementary and primordial form of public history, often associated with popularization, may present various limitations and require being approached with a more intense form of audience engagement. In this approach, the audience is no longer just a passive spectator but an active participant in the process of historical and cultural narration.

Educare e divulgare la storia

La presenza ormai consolidata sulle scene di autori e performer specializzati nella teatralizzazione di soggetti di natura storico-memoriale – i nomi più noti sono quelli di Marco Paolini, Ascanio Celestini, Marco Baliani, Federico Buffa –, e l’indiscutibile profilo mainstream del format ‘festival’ (delle discipline più diverse: filosofia, storia, diritto, economia, psicologia, spiritualità etc.), animato da specialisti in generale provenienti da esperienze pubblicistiche di un certo rilievo editoriale e dalla collaborazione con le principali testate giornalistiche,[1] testimoniano del rilievo assunto dal linguaggio della narrazione nel panorama più generale dell’intrattenimento culturale.

Queste due diverse espressioni della medesima sensibilità intellettuale condividono, oltre che il pubblico, un medesimo approccio alla funzione didattico-divulgativa, un approccio che potremmo definire ‘unidirezionale’, o ‘magisteriale’; che si tratti di una pièce sulla memoria della Resistenza o di una lectio magistralis sull’ontologia di sant’Agostino, il format non cambia: esso si compone sostanzialmente di un lecturer – sia egli un attore, un docente, un giornalista e quant’altro – e di un’audience – generica, come nel caso dei festival, o specializzata, come in quello dei corsi di aggiornamento per insegnanti – , dove al primo spetta di trasmettere, in varia forma, contenuti “alti”, e alla seconda di acquisirli attraverso l’ascolto.

Il parere di chi scrive è che il palinsesto ora descritto precluda il pieno sfruttamento delle potenzialità insite nell’idea della narrativizzazione di soggetti che rinviano alla sfera delle discipline storiche, filosofiche ed economico-sociali (come pure, seppure con incidenza minore, di quelle più strettamente legate alle scienze esatte). Il superamento di una concezione semplicemente passiva dell’apprendimento e della fruizione delle arti performative in favore di un coinvolgimento più attivo degli ascoltatori consente infatti di intensificare non soltanto l’interesse verso un tema, ma anche le prospettive da cui lo si affronta, grazie ai feedback provenienti dal pubblico e alla capacità di quest’ultimo di rielaborare e ‘rilanciare’ gli elementi del discorso. Capacità che peraltro non deve mai essere sottovalutata.

Non soltanto: il modello corrente, fondato com’è sulla centralità del ruolo del performer (o del lecturer, nel caso dei festival) e della sua capacità di mediazione dei contenuti, predilige a monte un lavoro di rilettura autoriale che si traduce spesso in una semplificazione dei temi trattati, laddove resta largamente in secondo piano l’utilizzo diretto delle fonti, secondo una modalità che consolida esplicitamente una concezione passiva dell’apprendimento che discende dalla tradizionale, gerarchica – seppure, per fortuna, ormai sempre più soggetta a riformulazioni creative – impostazione didattica dell’istruzione primaria e secondaria.

È ovvio che le fonti primarie necessitano per la maggior parte di uno specifico trattamento al fine della loro didattizzazione e/o della loro narrativizzazione, ma resta il fatto che esse possiedono potenzialità di coinvolgimento, emotivo oltreché intellettuale, certamente straordinarie. Infine, va considerato il fatto che tale modello, se si presta bene al lavoro su soggetti già forti, di per sé, di uno spessore narrativo (eventi, biografie, egodocumenti), risulta invece deficitario nel caso di tematiche generali, diacroniche e con un più deciso contenuto concettuale (fenomeni, processi, idee). Per intendersi, se ha avuto un meritato successo la pièce sui fratelli Lehman, il racconto del processo di ascesa del capitalismo finanziario, con tutte le sue complessità, attende ancora di essere messo in scena.

 

Una proposta diversa

La riflessione che si propone qui vuole suggerire la possibilità di una diversa proposta di teatralizzazione di contenuti culturali: diversa perché, pur muovendo dal modello del teatro di narrazione e dalla sua peculiarità di essere veicolo di “storie”, intende superarlo mettendo in gioco sia le voci recitanti che gli spettatori nella scommessa di un confronto con ciò che narrativo non è (meglio: non lo è necessariamente). In particolare, muovendoci nell’ambito di tematiche di afferenza storiografica, la proposta che avanziamo dovrebbe distinguersi per tre peculiarità:

  1. Il lavoro sulle fonti. Le fonti dirette, di qualsiasi natura esse siano, comprese quelle più apparentemente ‘fredde’, cioè impersonali (ad esempio testi legislativi, trattatistica di varia natura – giuridica, scientifica, teologica –, corrispondenze istituzionali), possono comunque costituire un soggetto di lavoro teatrale. Il loro statuto di testi ‘chiusi’, specialistici, deve anzi essere considerato alla stregua di una sfida da giocare nel rapporto fra narratore e ascoltatore, dove quest’ultimo è invitato a fare proprio il ruolo attivo dell’interprete del testo, partecipando all’ermeneutica e alla rilettura di questo. Non è per nulla diverso da quello che si richiede negli insegnamenti universitari: l’approccio alle fonti quale metodo di affinamento di competenze, fatta salva la diversa natura del pubblico e dunque il diverso esito che ci si attende (la comprensione anziché l’apprendimento, che sono obiettivi ben diversi). Va aggiunto che, quando si parla di fonti, non ci si riferisce soltanto a quelle testuali: le fonti iconografiche, ad esempio, rappresentano un tema di lavoro ricco di straordinarie potenzialità.
  2. Il ricorso a un approccio integrato alla funzione narrativa. Il ruolo del lecturer e quello del performer sono distinti, e tali devono restare, per competenze e capacità. La didattizzazione di un soggetto richiede, appunto, perizia comunicativa e conoscenza approfondita del tema trattato, così come la restituzione emozionale di una fonte testuale necessita, per risultare efficace, delle competenze interpretative proprie del lavoro di scena. Tali ruoli sono chiamati ovviamente a interagire senza soluzione della continuità del racconto, ma le loro funzioni rimangono diverse, pena l’indebolimento del tono narrativo e/o della capacità di approfondimento dei contenuti.
    Tale approccio integrato alla funzione narrativa deve inoltre poter ricorrere ad almeno altre due risorse, quella iconografica e quella musicale. L’uso sostanziale, e non meramente esornativo, delle immagini (proiettate sullo sfondo, ‘lette’, interpretate) moltiplica le potenzialità del racconto, e senza dubbio aiuta il pubblico nella rielaborazione dei contenuti, stimolandone la partecipazione attiva; allo stesso modo, l’ingresso in scena della narrazione sonora asseconda la condivisione emotiva della performance, chiamando in causa il soggetto che ascolta attraverso l’evocazione di un patto di comprensione non mediato dalla parola.
  3. Il coinvolgimento attivo degli ascoltatori. È questo il punto più rilevante: il racconto storico, per come è inteso in questa sede, non deve fornire informazioni, né soluzioni, né convinzioni, bensì sollecitare interrogativi, dubbi, obiezioni. L’approccio unidirezionale si trasforma così in approccio bidirezionale, la lezione in dialogo e la performance in laboratorio di comprensione e rilettura. Il perimetro del racconto deve essere sempre aperto agli interventi degli ascoltatori, anzi deve prepararli e assecondarli, al fine di dare vita a una vera trattazione collettiva del soggetto che si arricchisce delle idee dei partecipanti. Entra così in scena la dimensione seminariale della performance, non mediata però dai consueti schemi didattici bensì aperta al contributo dell’intelligenza e dell’attenzione di tutti i presenti.

 

L’esperienza di Un percorso di diritti, fra natura e storia

Chi scrive ha avuto modo di verificare la potenzialità di questo approccio in un evento realizzato presso l’Istituto Storico Parri di Bologna, nell’ambito della Festa Internazionale della Storia – 2019. La performance, dal titolo Un percorso di diritti, fra natura e storia, ha intrecciato, infatti, i tre temi ora enunciati tanto sul piano del metodo quanto su quello dei contenuti. Per quanto riguarda questi ultimi, come già il titolo suggerisce si è trattato della messa in scena di una narrazione delle origini e dello sviluppo del concetto di diritti umani, e dunque di un soggetto “freddo”, impersonale e, per molti versi, astratto, quantomeno nella sua dimensione giuridica e filosofica. Per questo la scelta, all’interno di una più ampia selezione di fonti in grado comunque di garantire solidità documentale al racconto, si è diretta verso quei testi che più concretamente si prestavano a essere interpretati.

In questo senso le fonti sono state accolte e ripensate come ‘testi’, scritti per essere rappresentati, pronunciati, mediante dialoghi e azioni come pure silenzi e inazioni, introdotti e commentati da uno storico e agiti da un attore, entro uno spazio ibrido nel quale si sono fuse le dimensioni del palcoscenico e del lavoro seminariale. I tempi di interpretazione non hanno superato i cinque-sette minuti per ciascun testo, al fine di non forzare i limiti dell’attenzione del pubblico.

Si è trattato di un importante, e stimolante lavoro a due in cui si sono intersecate le competenze dello storico (F. Motta) e quelle dell’interprete (P. Gatta), e che, va detto, non ha scontato nulla alla complessità del tema e dell’impianto testuale che ne ha sostenuto la trattazione. Nell’ottica di una visione “ampia” della storia dei diritti – in grado cioè di rendere conto di tutti quegli elementi culturali che si sono poi composti nella dichiarazione “classica” dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 – la creazione del copione ha fatto uso di testi che coprono tutta la storia dell’Occidente, dall’Antigone di Sofocle fino alla Dichiarazione dell’Onu del 1948, passando per Seneca, Tommaso d’Aquino, Montaigne, Locke e Rousseau.

In particolare, il lavoro di messa in scena ha scelto un percorso per così dire ‘circolare’. Esso ha infatti preso le mosse dal testo fondativo dell’accezione contemporanea di diritti umani, e cioè la Dichiarazione universale dei diritti proclamata dall’Assemblea dell’Onu nel 1948, e in particolare dal preambolo, con il suo riferimento alla «dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti», risorgente nell’età che aveva appena fatto séguito alla guerra mondiale e allo Sterminio. Ma qual è l’idea di ‘uomo’, nel senso di ‘essere umano’, che presiede a una tale grammatizzazione del paradigma dei diritti inviolabili e inalienabili?

L’ermeneutica storica di chi scrive trova le origini di questo vocabolario nel lessico plasmato dalla filosofia, dalle scienze e dalle arti dell’Età dei Lumi, nel tardo XVIII secolo. L’uomo universale definito dalla sua astrattezza e dalla sua connaturata dignità – e con questo dalla sua eguaglianza naturale – è un prodotto, un’invenzione dell’Illuminismo europeo: e se oggi quell’essere umano universale s’incarna in una pluralità di figure, ciascuna portatrice di una propria soggettività che rivendica diritti specifici attinenti alla diversità delle esperienze esistenziali umane (definite sulla base dell’età, della classe, del sesso, del genere, del ruolo sociale e di altro ancora), è proprio perché all’origine di queste ultime sta il tornante storico che ha assistito al primo esordio del soggetto come individuo affrancato dalle determinazioni collettive ­– sancite dalla tradizione, dal diritto o dalla teologia – che lo dominavano da sempre.

È per questo che, con un salto all’indietro di oltre un secolo e mezzo, la narrazione si è portata successivamente al 1776, alla Declaration of Independence, atto di nascita degli Stati Uniti. SI badi bene: non per adesione alla vulgata diffusa nella cultura giuridico-politica anglosassone di una filiera “insulare” (e poi “atlantica”) di difesa delle libertà dell’individuo dall’arbitrio del potere che dalla Magna Carta arriva a Jefferson, passando per i Pilgrim Fathers, Locke e il Bill of Rights del 1689, ma – di nuovo – per la meridiana chiarezza della grammatica elementare del testo: per il riferimento alle «verità di per sé evidenti» (i diritti inalienabili) la cui rivendicazione segnala già l’effettualità di quello scarto epistemologico che, all’esordio dell’ultimo quarto del Settecento, consente di proclamare come inconfutabili e assiomatici enunciati che tali non erano mai stati.

Oltrepassato il tornante illuminista, la genealogia dei diritti umani proposta nella performance ha raccolto, con moto inverso, ora progressivo, una selezione delle tante tracce che il discorso dei diritti – evoluzione dell’originaria idea di diritto naturale e di intima comunanza fra gli uomini in quanto tali – ha lasciato nella storia della cultura occidentale nel disegnare il perimetro entro il quale si è storicamente giocata la dialettica fra individuo e potere.

Da un lato, dunque, l’appello di Antigone, con il suo richiamo dolente, di fronte al re Creonte e al corpo profanato del fratello Polinice, traditore della città, alle «leggi degli dèi, leggi che non da oggi, non da ieri, vivono, ma sono eterne»; l’idea stoica del lógos come scintilla della ragione divina che governa il cosmo e affratella gli esseri umani, così come è espressa da Seneca nelle sue Lettere a Lucilio; e ancora la traduzione cristiana di quell’idea quale la si ritrova nell’opus magnum della scolastica medioevale, la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, dove il lógos diventa lumen naturae, ‘luce della natura’, «partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole». E così pure il polo opposto a questo discorso, quello perennemente all’opera, e consustanziale al governo della società complessa, che è il polo dell’apologia del potere e della gerarchia, che si è scelto di far emergere dai passi della Politica di Aristotele dedicati alla teoria della schiavitù naturale e dallo spietato invito rivolto da Lutero ai principi tedeschi nel 1525 affinché schiaccino nel sangue le «scellerate bande dei contadini» nel nome dell’antica sacralizzazione del potere politico esposta nella lettera di Paolo ai Romani.

Infine, la narrazione si è concentrata sul tornante fondamentale costituito dall’età moderna e dai suoi estremi cronologici: la scoperta dell’”altro” determinata dal contatto con le popolazioni americane, prive, agli occhi dei missionari e dei colonizzatori, di qualsiasi attributo della civiltà, ma al tempo stesso prova visibile dell’esistenza di uomini sottratti alle costrizioni e ai rapporti di subordinazione che costituivano il nerbo stesso della società europea. Gli uomini ‘naturali’ evocati da La Boétie e Montaigne, liberi proprio perché selvaggi, e gli uomini della riflessione filosofica di Locke e Rousseau sullo stato di natura, condizione astratta e ancestrale di un passato presociale di eguaglianza nei diritti che, con l’Illuminismo, diventò paradigma di riferimento di un vero laboratorio di costruzione della modernità politica.

 

Conclusioni

Il lavoro, realizzato in più fasi e sempre in collaborazione con Agnese Portincasa, responsabile dell’area didattica dell’Istituto Storico Parri – in primo luogo per le sue competenze in ordine alla didattizzazione del materiale –, si è basato dapprima sull’analisi di una collezione ampia di estratti delle fonti testuali citate sopra, quindi sulla loro selezione condotta integrando criteri storiografici (il loro effettivo rilievo nell’ambito della vicenda storica trattata), didattico-comunicativi (la loro comprensibilità da parte di un pubblico non specializzato, la possibilità di estrarne brani significativi di non eccessiva lunghezza), scenici (soprattutto in relazione alle possibilità di impatto emotivo sugli spettatori: riso, rabbia, gioia, empatia, sdegno, immedesimazione). Alcuni di quei testi sono stati trattati nei passaggi che potevano risultare meno immediatamente accessibili al pubblico, naturalmente con la massima attenzione per la restituzione del loro senso pregnante. Analoga operazione è stata compiuta con le fonti iconografiche, le immagini proiettate alle spalle delle voci narranti, seppure in questo caso con maggiore riguardo al loro valore scenografico.

Ne è risultato un copione di quattordici testi introdotti e commentati dallo storico e restituiti dall’interprete, con una decina di intermezzi musicali eseguiti dal vivo da un violoncello solista, per una performance complessiva di novanta minuti circa seguita da un’interazione con gli spettatori fatta di domande, suggestioni, proposte di interpretazione alternativa dei testi. Con il superamento della ‘quarta parete teatrale’, “raccontando” la storia, si è cercato di parlare alla piccola comunità dei presenti per facilitarne la trasformazione da spettatrice ad attrice di un esperimento di ibridazione fra registri e campi disciplinari. Grazie alla fusione di quattro linguaggi – verbale-didattico, verbale-scenico, iconografico e musicale –, la sollecitazione dell’attenzione emozionale del pubblico ha costituito, a parere di chi scrive, l’aspetto più importante della performance, prefigurandone un possibile esito scolastico di notevole interesse.

 


Note:

[1] Sul genere del teatro di narrazione è ormai disponibile una letteratura teorica di una certa consistenza. Ci limitiamo qui a citare, fra i titoli più recenti, Stabat mater. Viaggio alle fonti del “teatro narrazione”, a c. di G. Guccini – M. Marelli, Castello di Serravalle (Bo), Le Ariette, 2004.