Select Page

Storia e memoria delle violenze nello spazio digitale: l’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano

Storia e memoria delle violenze nello spazio digitale: l’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano

La sede del quotidiano socialista “Avanti!” durante uno dei raid squadristi del periodo 1919-1922.
Crediti: http://mi4345.it/sede-dellavanti/

Abstract

L’articolo vuole offrire uno spunto di riflessione sulla natura dell’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano (1919-1922) promosso dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri. Dopo averlo presentato e descritto, si discuterà della sua natura e della sua funzione ovvero se vada considerato solamente come un nuovo strumento di ricerca o anche come un prodotto di digital public history.  Attraverso il confronto con un altro strumento simile ovvero l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia si offrirà uno spunto di riflessione sui limiti e le potenzialità di questo progetto.

________________

This article is intended to offer food for thought on the nature of the Atlas of Political Violence after the First World War in Italy (1919-1922) promoted by the Ferruccio Parri National Institute. After presenting and describing it, its nature and function will be discussed, i.e. whether it should be considered only as a new research tool or also as a product of digital public history. A comparison with another similar tool, the Atlas of Nazi and Fascist massacres in Italy, will provide food for thought on the limits and potential of this project.

Cos’è l’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano (1919-1922)

L’Atlante delle violenze politiche nel primo dopoguerra italiano (1919-1922), progetto di ricerca dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, in collaborazione con Giunta Centrale per gli Studi Storici e Associazione Italiana di Public History, nasce grazie ad un finanziamento della Presidenza del Consiglio dei ministri – struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni. Lo scopo di questo progetto è creare una banca dati che censisca tutti gli episodi di violenza politica registrati in Italia tra la fine della Prima guerra mondiale e la marcia su Roma. In particolare, sono stati mappati tutti gli episodi in cui si registrano oltraggi, ferimenti e omicidi che colpiscono sovversivi, esponenti di partiti, nazionalisti, fascisti, forze dell’ordine di varia natura (esercito, guardie regie, carabinieri). Il progetto, posto in essere dal marzo 2022 e pubblicato nel settembre 2023, non è ancora completo sia perché non tutte le aree geografiche hanno ricevuto adeguata copertura sia perché nella prima fase di esso sono stati registrati quasi esclusivamente quei casi di violenza di cui le autorità centrali sono state informate e di cui rimane traccia nell’Archivio Centrale dello Stato (ACS) e nelle carte del Ministero dell’Interno, Direzione Affari Generali e Riservati (MI, DAGR). Dove possibile, è stata effettuata un’integrazione con altri tipi di fonti (specialmente quelle di natura bibliografica)., dai portali regionali quali https://originifascismoer.it/ alle recenti opere storiografiche, passando per la stampa locale del periodo.

 

Strumento di ricerca e per la ricerca

Anche se è un lavoro ancora incompleto, la forma digitale consente all’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra di essere sempre suscettibile di modifiche e integrazioni che possono incrementare e migliorare il censimento anche a partire da segnalazioni degli utenti. La presenza poi di una massa critica di dati già comunque significativa, permette di usare l’Atlante delle violenze politiche per analisi quantitative attraverso cui delineare in maniera efficace chi sono le vittime delle violenze e chi i responsabili, quali i gruppi politici di appartenenza e quali le reazioni (per modalità e intensità) delle forze dell’ordine. In alcuni casi è possibile anche conoscere le conseguenze penali subite dagli arrestati.

Dal punto di vista storico, da una disamina di questa significativa mole di dati offerti dallo strumento, emerge l’estrema complessità del periodo preso in esame: non è più sostenibile pensare che ci sia una netta linea di demarcazione tra la stagione storica conosciuta come Biennio rosso, caratterizzata dalle lotte operaie e contadine che hanno il loro culmine nell’occupazione delle fabbriche dell’autunno del 1920, e il “biennio nero”, caratterizzato dalla reazione conservatrice e repressiva delle squadre d’azione nei confronti di operai e contadini, né è plausibile pensare che il Biennio nero sia una mera conseguenza della paura del pericolo rosso ingaggiata dal protagonismo delle masse operaie e contadine e suscitata soprattutto nel ceto medio. Allo stesso modo, il “biennio rosso” non è dominato esclusivamente dalle rivendicazioni operaie e contadine, come dimostra la presenza sulla scena di nazionalisti, arditi e futuristi e degli stessi fasci di combattimento che, fondati a Milano il 23 marzo 1919, si contraddistinguono sin da subito per la violenza esercitata, per esempio nell’assalto all’Avanti del 15 aprile 1919. La distinzione classica tra i due bienni  è pertanto artificiosa, come argomentato da Fabbri nell’introduzione a Le origini della guerra civile,[1] in cui l’autore riprende la storiografia più o meno recente per sostenere che «il primo biennio postbellico non era dominato da un unico segno ma al suo interno erano in atto contemporaneamente processi differenti e contrastanti». Come scrive anche Ginsborg «il vasto movimento in seno alla società italiana dell’epoca non era solo rosso, ma anche rosso e nero».[2]

Per queste ragioni, pare dunque preferibile parlare di guerra civile, categoria già utilizzata dalla pubblicistica coeva contemporanea.

L’analisi delle realtà territoriali censite dall’Atlante conferma in pieno questa complessità ed evidenza molto nettamente come, ad esempio, nel cosiddetto “biennio rosso” fosse già presente una violenza fascista, in cui lo squadrismo non è certamente l’unico attore, ma comunque presente e anzi in grado – alla lunga – di catalizzare all’interno dei fasci di combattimento le spinte arditiste e nazionaliste. Allo stesso modo, l’Atlante evidenzia come sia riduttivo considerare i socialisti solamente come vittime e mai come aggressori nei due anni successivi. I dati dimostrano infatti che il ruolo di aggressori e aggrediti sul campo si rovesciava continuamente[3] e anche negli aderenti alle forze di sinistra non c’erano solamente persone inermi e disarmate ma, come appare chiaramente in alcuni episodi censiti dall’Atlante, individui che reagivano come potevano alle violenze squadriste e che erano spesso responsabili di imboscate ai danni dei fascisti. Dunque, è ragionevole affermare che così come la violenza del Biennio 1919-1920 non sia appannaggio esclusivo dei ”rossi”, allo stesso modo il Biennio 1921-1922 è sì caratterizzato da una forte crescita dello squadrismo – che diventa un vero e proprio fenomeno di massa – ma la violenza non sembra essere appannaggio esclusivo degli squadristi, come avviene in due episodi tra loro strettamente collegati ai quali faremo rapidamente riferimento.

 

Sarzana e San Frediano, 1921

Il primo riguarda i noti fatti di Sarzana del 21 luglio 1921.[4] Per comprendere questo episodio occorre fare un passo indietro, precisamente al 17 luglio, quando viene arrestato il fascista Renato Ricci, responsabile della morte di un carabiniere. I fascisti non solo ne chiedono la liberazione ma pretendono che le forze di polizia non intervengano in una loro operazione volta a eliminare gli antifascisti dalla città. Di fronte al rifiuto, le squadre d’azione capitanate da Amerigo Dumini e Umberto Banchelli organizzano l’assalto alla città. La sera del 20 luglio i fascisti si riuniscono a Carrara: da qui, passando per Ameglia, dove uccidono un contadino e perdono due dei loro, arrivano all’alba del giorno dopo a Sarzana dove si scontrano con i carabinieri comandati da Guido Jurgens. Contro questo assalto fascista intervengono anche la popolazione locale e un gruppo di Arditi del popolo. Durante gli scontri i fascisti perdono quattordici uomini.[5]

Il secondo episodio concerne i fatti avvenuti a San Frediano a Settimo (PI), quando vengono uccisi dalla popolazione i fascisti Zoccoli e Serlupi che, di rientro da una spedizione punitiva per imporre al municipio la bandiera a mezz’asta in onore delle vittime fasciste di Sarzana, avevano aggredito un contadino.[6] Questi eventi preoccupano Mussolini, messo improvvisamente dinanzi all’evidente inadeguatezza degli squadristi di fronte a un esercito regolare realmente intenzionato a impedire loro di agire e alla permanente vitalità di un socialismo tutt’altro che sconfitto, e lo spingono a siglare nell’agosto del ’21 il patto di pacificazione con i socialisti. Purtroppo, questo accordo si rivela presto  illusorio: Mussolini fatica a contenere l’esuberanza dello squadrismo, come dimostrano ad esempio i fatti di Via Emilia a Modena del 26 settembre dello stesso anno.[7] Da quanto emerge dalle inchieste condotte per accertare le responsabilità su tali fatti, risulta determinante il mutato atteggiamento del Governo presieduto dal socialista riformista Ivanoe Bonomi, il quale richiede alle forze dell’ordine un intervento più incisivo contro i fascisti che, con le loro manifestazioni e cortei lungo le vie della città, turbano l’ordine pubblico.[8]

Altra tesi spesso consolidata e smentita dall’Atlante delle violenze è quella di un sostanziale accordo tra forze di governo liberali e squadristi. Infatti, accanto a forze dell’ordine colluse con le squadre d’azione, abbiamo le figure di alcuni prefetti come Bodo a Modena e Mori a Bologna che rappresentano un tentativo di resistenza dello Stato Liberale e di opposizione alla violenza fascista.[9] I dati dell’Atlante ci restituiscono quindi anche uno scenario polifonico e difforme, con specifiche territoriali che cambiano da regione a regione, e fanno emergere la grande complessità del periodo storico in esame, spesso oggetto di tentativi di semplificazione e generalizzazione.

In un’ottica comparativa lo strumento risulta inoltre fondamentale per analizzare quale sia stato l’impatto della guerra nella società italiana, quali gli effetti della violenza sul medio e lungo periodo e quali le caratteristiche peculiari del fenomeno italiano rispetto al resto d’Europa.[10] La Grande Guerra, infatti, ha agito come incubatrice della violenza, aprendo la strada alla crisi dello Stato liberale e all’avvento del fascismo, che si è presentato come l’erede del combattentismo e suo autentico interprete ma la «brutalizzazione della politica» non è una chiave interpretativa applicabile solo al nostro Paese. Ma questa importante questione storiografica andrebbe affrontata in altra sede. [11]

 

Digital history e public history

Nelle intenzioni degli enti promotori, tra i quali figura anche l’Associazione Italiana di Public History, l’Atlante delle violenze del primo dopoguerra italiano (1919-1922) vuole essere non solo uno strumento di supporto e completamento della ricerca storica ma anche uno strumento di digital public history. Per chiarire meglio questo passaggio occorre partire dalla definizione di quest’ultima, che contiene in sé, da una parte, un richiamo alla digital history e, dall’altra, alla public history.

Procediamo per gradi: come si legge nella definizione del Center of History and New Media,[12] la digital history (o storia digitale) è un approccio allo studio e alla rappresentazione del passato che sfrutta le nuove tecnologie di comunicazione come i computer e internet. Essa utilizza le caratteristiche essenziali del mondo digitale, come i database, gli ipertesti e la rete, per creare e condividere conoscenze storiche. Si tratta dunque di un campo interdisciplinare che utilizza le tecnologie informatiche e digitali per la ricerca, la conservazione e l’innovazione nella comunicazione dei dati della ricerca storica. Un approccio che combina gli strumenti e i metodi della storia tradizionale con le risorse offerte dalla tecnologia digitale, consentendo agli storici di esplorare, analizzare e interpretare il passato in modi innovativi. La digital history è dunque anche una modalità di comunicazione storica attraverso gli strumenti offerti dalla rete.

Che cos’è invece la public history? Come si legge nel suo Manifesto,[13]

è un campo delle scienze storiche a cui aderiscono storici che svolgono attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambiti accademici nel settore pubblico come nel privato, con e per diversi pubblici. 

Come afferma Carrattieri:[14]

Non si tratta della comunicazione ad un pubblico generico dei risultati della ricerca professionale […] la mission della public history sta nel confrontarsi con il pubblico (anzi con i diversi pubblici) anche sulle domande, i meccanismi e persino le elaborazioni dell’operazione storica.

Elemento focale della public history è dunque il coinvolgimento del pubblico che non è solo un mero fruitore passivo del contenuto storico ma anche coautore nella costruzione della storia. La digital history e la public history non sono sovrapponibili, non sempre un progetto di public history è digital, e un prodotto di digital history non è di per sé public: lo è, nella misura in cui ci sia un engagement di pubblici.[15] La digital history coincide dunque con la public history solo nel momento in cui c’è la partecipazione attiva del pubblico, che diventa coautore della narrazione storica.

 

Atlanti digitali a confronto

Tra le caratteristiche della public history è da segnalare la dimensione partecipativa e glocale.  La dimensione partecipativa implica non soltanto il coinvolgimento attivo del pubblico ma pone l’accento anche sull’aspetto comunitario e identificativo che una ricostruzione storica può rappresentare per una comunità. Da questo punto di vista sicuramente il progetto può assumere, come abbiamo già detto, una dimensione partecipativa, dal momento che, attraverso le segnalazioni da parte di altri enti o persone, appassionati o familiari, è possibile integrare i dati raccolti e completare, integrare, approfondire la descrizione degli episodi del database. Né manca la dimensione glocale, considerando che l’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra pone estrema attenzione alla dimensione territoriale., e quindi locale, ma con un approccio metodologico globale, applicabile sempre a ciascun contesto e teso a restituire risultati storiografici su scala nazionale e complessiva.

Ma è sufficiente questo per considerarlo un progetto public history? Per rispondere alla domanda può essere utile mettere a confronto l’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano 1919-1922 con un altro progetto simile, realizzato dall’Istituto nazionale Parri nel 2016, ovvero l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia.

Cosa hanno in comune i due strumenti? Cosa li rende eventualmente dissimili? Per quanto riguarda il primo punto, il concept dietro la realizzazione del progetto è il medesimo: si tratta di banche dati con sistema georeferenziato, interattivo che riguardano due episodi cruciali del nostro paese: da un lato, come abbiamo già detto, le violenze politiche del primo dopoguerra, dall’altro le stragi perpetrate dai nazi-fascisti ai danni della popolazione italiana negli anni 1943-1945. Simili sono le sezioni che contengono la descrizione dell’avvenimento, il luogo, la data, il numero di vittime, il genere di appartenenza e l’età, i responsabili, la bibliografia, la sitografia, le fonti archivistiche, la memoria. Per descrivere meglio le sezioni può essere utile fare una considerazione sulla natura dei responsabili delle violenze. Quelli dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, al netto dell’appartenenza specifica a un’armata, sono ascrivibili a due tipologie principali, fascisti e nazisti. Nel caso delle violenze politiche la tipologia di attori coinvolti è assai più ampia: socialisti, comunisti, nazionalisti, guardie regie, fascisti, forze dell’ordine, arditi. Nell’Atlante delle violenze del primo dopoguerra italiano è possibile conoscere se i responsabili hanno agito individualmente o in gruppo e si censiscono non solo i deceduti ma anche i feriti e coloro che sono stati maltrattati o oltraggiati.

Entrambi gli atlanti sono, per la natura stessa dello strumento, profondamente legati alla dimensione territoriale. Ma in che modalità questi strumenti hanno interagito o possono interagire con il pubblico, diventando un prodotto di public history in cui le comunità locali diventano co-autrici del racconto storico?

 

Comunità locali, memoria e oblio

Per rispondere alla domanda faremo riferimento a una sezione fondamentale di entrambi gli Atlanti ovvero la voce “Memoria”. Si tratta di quella sezione che dovrebbe raccogliere i segni fisici apposti per ricordare gli eventi, come ad esempio lapidi, cippi, onorificenze o veri e propri musei o luoghi di memoria. Nell’Atlante delle violenze è stata compilata solo in rari casi, mentre in quello dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia le tracce memoriali connesse agli episodi sono molteplici e lo sono perché negli anni immediatamente successivi agli eventi il ricordo degli stessi è stato custodito e coltivato, pertanto nel momento in cui è stato lanciato il progetto dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, il coinvolgimento del pubblico desideroso di partecipare è stato spontaneo e naturale, facendo sì che esso si trasformasse in un formidabile prodotto di public history.

Come afferma Pizzirusso,[16] il pubblico partecipa attivamente quando si sente coinvolto e questo accade soprattutto quando intervengono le memorie famigliari. Nel caso dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste, ad esempio, frequenti sono state le sollecitazioni per rettificare informazioni anagrafiche scorrette e integrare i profili lacunosi (ma anche chiarire meglio dinamiche e responsabili degli episodi) da parte dei familiari in primis, ma anche da storici locali, associazioni delle vittime, amministrazioni pubbliche. L’Atlante delle stragi ha intercettato quelle che si chiamano “memorie di comunità”, ovvero memorie legate ai luoghi che permettono di sviluppare un senso di appartenenza attraverso la condivisione, la conservazione, le esperienze e i patrimoni di una comunità, che ne tengono vivo il ricordo e favoriscono il legame tra generazioni. Per questo motivo le varie comunità hanno interagito nella costruzione dell’Atlante contribuendo ad incrementare gli elementi a corredo dello stesso e trasformandolo a tutti gli effetti in un progetto di public history.

Nel caso dell’Atlante delle violenze nel primo dopoguerra italiano ciò non è avvenuto. Proveremo a spiegare il perché, senza la pretesa di essere esaustivi, attraverso due ordini di considerazioni.  In primis, la distanza temporale dagli avvenimenti: il Progetto   Atlante delle stragi realizzato nel 2016 si colloca a un intervallo di tempo minore rispetto a quello intercorso per gli episodi dell’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra. A cento anni di distanza, non esistono quindi più testimoni diretti di quegli eventi. In secundis, nei vent’anni di dittatura fascista quegli episodi sono stati rimossi dalla cultura di regime che ha osannato invece i propri martiri, gettando nell’oblio quelli che negli anni 1919-1922 erano stati dall’altro lato delle barricate. È possibile che questa narrazione di regime abbia contribuito alla rimozione degli eventi che sono rimasti vivi forse solo nel ricordo dei famigliari per poi cadere nell’oblio non avendo trovato terreno fertile? L’Italia offesa dalla ferocia della guerra invece ha avuto la necessità di rimarginare le proprie ferite ma lo ha fatto non attraverso l’oblio al quale ci hanno condannati vent’anni di fascismo ma attraverso la trasformazione dell’evento doloroso in qualcosa di necessario per la realizzazione di un futuro più giusto, per il quale il ricordo dei martiri rappresenta un momento fondativo e di ringraziamento.

Conclusioni

Per rispondere alla domanda se l’Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano (1919-1922) sia o no un progetto di digital public history, la risposta appare negativa in quanto non sembra permettere la partecipazione del pubblico per le ragioni riportate. Rimane tuttavia un ottimo progetto di digital history nel senso che abbiamo indicato sopra, ovvero un prodotto che utilizza le possibilità offerte dalla rete per comunicare e narrare la storia. Proprio in questo modo è stato adoperato nella messa in scena del reading Di rosso e di nero, scritto e prodotto da Elisabetta Vergani, accompagnato dalla musica di Sara Calvanelli, a cura di Farneto Teatro. Questo reading utilizza l’Atlante delle Violenze politiche del primo dopoguerra italiano (1919-1922) per raccontare cosa si cela dietro le schede censite in esso. Anche se non conosciamo tutte le identità delle persone descritte o solo accennate, è legittimo riconoscere loro il ruolo di attori della storia. Riprendendo la definizione di Marc Bloch,[17] nel suo testamento intellettuale, della storia come scienza degli uomini nel tempo, non possiamo dimenticare che quei nomi senza identità ci offrono uno spunto prezioso, un espediente imprescindibile per poter narrare la storia.

Bibliografia
  • G. Albanese, Brutalizzazione e violenza alle origini del fascismo, Studi storici, fasc.1, gennaio-marzo 2014.
  • A. Baravelli, Le forme del nero. Nascita e affermazione del fascismo in Emilia-Romagna, Franco Angeli, Milano 2023
  • M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi Torino 1950.
  • M. Bresciani, L’autunno dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storiografia <<nazionale>>, in Storica 54, anno XVIII, 2012.
  • M. Carrattieri, Per una public history italiana, Italia contemporanea, aprile 2019, n. 289, Franco Angeli, Milano.
  • D. Cohen, M. Frisch, P. Gallagher, S. Mintz, K. Sword, A. Murrel Taylor, W.G.Thomas, W.J.Turkel, Interchange: The promise of Digital History, The Journal of American History, Sep.2008, Vol.95, No 2 (Sep., 2008)
  • P. Fabbri, Le origini della guerra civile: l’Italia dalla Grande guerra al fascismo, 1919-1921, Utet, Torino 2009, pp. XVI-XVII.
  • M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-19222, Feltrinelli, Milano 2019, p. 120-129.
  • A. Gibelli, La Grande Guerra degli europei: uno sguardo attuale, Contemporanea, Fascicolo 4, ottobre 2020.
  • F. Montella, Bagliori d’incendio. Conflitti politici a Modena e provincia tra Guerra di Libia e Marcia su Roma, Mimesi, Milano 2021.
  • I. Pizzirusso, Digital è public? L’esempio di alcune banche dati a contenuto storico, in “Novecento.org”, n.. 14, agosto 2020. DOI: 10.12977/nov351

Note:

[1] P. Fabbri, Le origini della guerra civile: l’Italia dalla Grande guerra al fascismo, 1919-1921, Utet, Torino 2009.

[2] P. Ginsborg, I due bienni rossi:  1919-1920 e 1968-1969. Comparazione storica e significato politico, in I due bienni rossi, pp. 13-36.

[3] M. Bresciani, L’autunno dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storiografia “nazionale”, in “Storica”, n. 54, anno XVIII, 2012.

[4] M. Bernardi, Sarzana 21.07.1921, in “Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano (1919-1922)”,  https://www.reteparri.it/atlanteviolenzepolitiche/singola-violenza/?ricerca=2787 , url consultata il 13 marzo 2024.

[5] M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Feltrinelli, Milano 2019, p. 120-129.

[6] Franzinelli 2019, p.345.

[7] F. Montella, Bagliori d’incendio. Conflitti politici a Modena e provincia tra Guerra di Libia e Marcia su Roma, Mimesi, Milano 2021, pp.509-518.

[8] ACS, MI, DGPS, AA.GG.RR., CTG Annuali, 1921, G1, b.103, Fascio di Combattimento di Modena. Si veda A. Grasso, Via Emilia, Modena, 26 settembre 1921, in “Atlante delle violenze politiche del primo dopoguerra italiano (1919-1922)”, https://www.reteparri.it/atlanteviolenzepolitiche/singola-violenza/?ricerca=3905 url consultata il 17 aprile 2024.

[9] A fronte dell’atteggiamento dei due funzionari, peraltro, sono noti anche segnali di altro tipo proprio in Emilia-Romagna, come ci riferisce Baravelli a proposito della parzialità della magistratura e delle forze dell’ordine nei confronti delle squadre d’azione. Cfr. A.Baravelli, Le forme del nero. Nascita e affermazione del fascismo in Emilia-Romagna, Franco Angeli, Milano 2023, p. 96. Sull’atteggiamento del prefetto Mori cfr. lo stesso Baravalli, 2023, 43-44, e p.96. Per quanto riguarda l’operato del prefetto Bodo cfr. F. Montella, 2023, pp. 126-129,178, pp. 190-192.

[10] A. Gibelli, La Grande Guerra degli europei: uno sguardo attuale, Contemporanea, Fascicolo 4, ottobre 2020.

[11] G. Albanese, Brutalizzazione e violenza alle origini del fascismo, Studi storici, fasc.1, gennaio-marzo 2014.

[12] D.Cohen, M. Frisch, P. Gallagher, S. Mintz, K. Sword, A. Murrel Taylor, W.G.Thomas, W.J.Turkel, Interchange: The promise of Digital History, The Journal of American History, Sep.2008, Vol.95, No 2 (Sep., 2008), pp. 442-491.

[13] https://aiph.hypotheses.org/3193, url consultata il 21 febbraio 2024

[14] M. Carrattieri, Per una public history italiana, Italia contemporanea, aprile 2019, n. 289, Franco Angeli, Milano.

[15] I. Pizzirusso, Digital è public? L’esempio di alcune banche dati a contenuto storico, in “Novecento.org”, n.. 14, agosto 2020. DOI: 10.12977/nov351.

[16] Pizzirusso, 2020.

[17] M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi Torino 1950.